Diaconato femminile: un fiume carsico che emerge
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 21 del 04/06/2016
Il proposito formulato da papa Francesco di prendere in considerazione la possibilità del diaconato femminile è risuonato sui mezzi di comunicazione di massa come una novità quasi assoluta e in questo modo l’ha percepito gran parte di coloro che non sono addentro alle faccende ecclesiastiche. Ma cosa c’è di veramente nuovo in questo tema che, a chi conosce un po’ di storia recente della Chiesa cattolica, appare in buona parte rispolverato? Per capirlo bisogna procedere da ciò che nuovo non è.
Da più di cinquant’anni si parla di diaconato femminile e la richiesta di affrontare la questione non è emersa come rivendicazione delle femministe, ma è partita dall’interno della Chiesa e dei suoi apparati. La si ritrova nelle consultazioni effettuate prima del Concilio Vaticano II. Tra i voti c’è anche quello di un italiano, il vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, mons. Giuseppe Ruotolo, che propone l’istituzione del diaconato per entrambi i sessi. Ne hanno trattato Sinodi come quello dei vescovi del 1971 o quello delle diocesi della Germania del 1974, fino al Sinodo recente sulla famiglia dove l’argomento, sia pur marginalmente, è stato affrontato dal presidente della Conferenza episcopale canadese Paul-André Durocher. Insomma, non una novità e nemmeno appannaggio di figure per così dire progressiste come quella del cardinale Martini, subito tirato in ballo per i suoi interventi a favore del diaconato femminile, a partire da quello del 1994 al Congresso eucaristico di Siena. Diversi teologi, anche prima di Martini, si erano mostrati aperti a questa possibilità: Congar, Hunermann, Vorgrimler, Lehmann e poi lo stesso Kasper. Un bilancio della questione fu effettuato da Pier Sandro Vanzan in un articolo apparso nel 1999 su Civiltà Cattolica dal titolo “Diaconato permanente femminile. Ombre e luci”.
Nuova non è neanche l'idea di istituire una commissione ad hoc, dal momento che la Commissione teologica internazionale si è occupata dell’argomento ed ha prodotto nel 2003 il documento Il Diaconato: evoluzione e prospettive.
Nemmeno il ricorso alla storia può definirsi una novità. Il succitato documento affronta già la tematica dal punto di vista storico, arrivando alla conclusione che, in base agli «elementi posti in evidenza dalla presente ricerca storico-teologica, spetterà al ministero di discernimento che il Signore ha stabilito nella sua Chiesa pronunciarsi con autorità sulla questione». Affermando, così, che il verdetto non è, e non può essere, affidato alla storia.
In effetti si possono muovere alcuni rilievi, di metodo e di impostazione, al modo in cui si interroga la storia. Si cerca una parola dirimente sul passato e nello stesso tempo si va a cercare nel passato – e non solo nella Tradizione – la possibilità di fare o non fare qualcosa nell’oggi. Questo principio, in realtà, è alla base dell'idea stessa di istituire commissione storiche o storico-teologiche (non è un caso che vi siano state commissioni che si sono arenate o che hanno visto un rimescolamento dei loro membri, come nel caso della Commissione storica internazionale cattolico-ebraica). L’indagine storica, però, non ha ultime parole da dire perché è un cantiere permanentemente aperto, dove si lavora alle ipotesi senza presunte definitività. Essa offre elementi di intellegibilità del passato, ma non certezze. Le fonti non parlano esaustivamente e una volta per tutte e soprattutto, se avvicinate in prospettiva storiografica, non si possono attribuire ad esse pesi normativi diversi, se non per quanto attiene ai criteri di attendibilità delle fonti stesse. Per quanto concerne il diaconato femminile nella storia, questa realtà non sembra più messa in dubbio, ma le differenze si fanno enormi quando si tratta di individuarne le caratteristiche: esso viene, molto spesso, interpretato come realtà molto più ridotta e non sacramentale come il diaconato permanente maschile. Ci si accorge, purtroppo, che le fonti non di rado vengono soppesate in base ad una loro presunta maggiore o minore normatività e quelle fonti che attestano forme di diaconato femminile nel cristianesimo antico più simili, se non uguali, a quelle maschili, vengono considerate, non infrequentemente, di minore significatività. Molto interessante, ad esempio, è un rito di ordinazione diaconale, della Chiesa bizantina, risalente al IX secolo, studiato da Miguel Arranz e ripreso da Cloe Taddei Ferretti in un interessante studio sul tema, dal titolo Anche i cagnolini. L’ordinazione delle donne nella Chiesa cattolica, in cui l’ordinazione femminile appare molto simile a quella maschile. Interrogando le fonti si resta anche colpiti dal fatto che la realtà del diaconato femminile sembra essere molto diversa per l’Oriente e per l’Occidente. Nell’Occidente, che va facendosi sempre più Romano, pare non esserci stato quasi per nulla spazio per il diaconato femminile. E questo direi che ci riporta al fatto che esistono anche diversità legate a culture e a modelli, a concezioni antropologiche riconducibili ad epoche e a aree geografico-culturali, fattori dunque storicamente condizionati.
Fin qui il vecchio. Veniamo adesso a ciò che c’è di nuovo. Di nuovo ci sono essenzialmente due cose: l’identità di chi ha rivolto l’interrogativo al papa e il modo di fare del papa stesso. Per quanto riguarda il primo elemento, direi che una sorta di fiume carsico è emerso in superficie. La richiesta è partita da un’appartenente all’Unione delle Superiore Generali, in un contesto di ufficialità e di rappresentatività, durante un’assemblea internazionale, ed è stata rivolta direttamente al papa. Quella voce non può dunque essere interpretata come una singola, magari estemporanea, espressione ma come una sorta di vox populi, di voce delle donne, in particolare di quel mondo femminile, il mondo delle religiose che, nonostante abbia manifestato nella storia incisività ecclesiale, azioni di emancipazione – penso, ad esempio, alla possibilità che la vita religiosa ha offerto alle donne di impegnarsi in attività non confinate nell’ambito familiare: nell’insegnamento, negli ospedali, nelle carceri – è sempre stato sotto tutela ecclesiastica maschile, umiliato nella sua dignità di componente ecclesiale. Il voto formulato al papa sale dunque dalle viscere del popolo delle religiose, si fa udibile, è una voce che, mediante l’amplificatore mediatico, viene ascoltata da tutti. Mi sembra un segnale importante; di solito quando si parla di come è cambiata la condizione delle donne nella Chiesa si pensa in termini di concessioni che alle donne sono state fatte e molto meno a ciò che le donne hanno ottenuto attraverso la loro iniziativa: non è questione di rivendicazioni o pretese; piuttosto di dignità, responsabilità e partecipazione.
Per quanto concerne il secondo elemento, il papa stesso, qui si riscontra un fattore di non continuità con prassi, protocolli e formalismi pontifici. Non vi è stato, infatti, a riguardo dell’istituzione di una commissione, alcun annuncio ufficiale, semplicemente la manifestazione di un consenso e di un intento. Il papa non ha fatto alcun cenno al documento sul diaconato elaborato dalla Commissione teologica internazionale, ma ha citato, come in conversazione, il suo vecchio amico professore e i colloqui con lui e questo è, quantomeno, singolare. Questo papa non teme di parlare a braccio, di riflettere ad alta voce, di esprimersi in maniera informale, prestando il fianco ai molti detrattori che ritengono questo atteggiamento inadeguato alla funzione e alla carica. I suoi “strappi” vengono non di rado interpretati come populismo, retorica e ammiccamento mediatico: potrebbero invece essere, come tendo a credere, innovazioni autentiche nell’interpretazione dell’esercizio del ministero petrino. Senza con questo pensare – come temono alcuni – a mutazioni dottrinali, siamo tuttavia di fronte a una maggiore disponibilità e apertura ai dinamismi interni alla Chiesa, indice di una docilità alla disinvolta semplicità dello Spirito.
Anna Carfora è docente di Storia della Chiesa presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale
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