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L’Europa e i rifugiati, tra accoglienza e contenimento

L’Europa e i rifugiati, tra accoglienza e contenimento

Tratto da: Adista Documenti n° 22 del 18/06/2016

Si può parlare di un panico europeo di fronte ai rifugiati e di un tentativo sempre più esplicito di sottrarsi agli obblighi di tutela dei diritti umani. Due equivoci sono al contempo causa ed effetto del panico. Il primo è il legame tra rifugiati e terrorismo: i responsabili degli attentati sono nati e soprattutto cresciuti in Europa, ma di fronte agli attacchi i governi annunciano la chiusura delle frontiere, mostrando di credere che le minacce vengano dall’esterno. Il secondo equivoco è la confusione tra immigrati e rifugiati, con effetti insieme enfatizzanti e distorsivi. Molti credono, inclusi grandi organi di informazione, che l’immigrazione sia in crescita tumultuosa, che l’asilo ne sia la motivazione prevalente, che gli immigrati siano maschi, musulmani, provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente. Limitandoci al caso italiano, il volume dell’immigrazione è stazionario, intorno ai cinque milioni di persone. Rifugiati e richiedenti asilo sono poco più di 150mila, 80mila sono ospitati in strutture di accoglienza. Gli immigrati entrano per ragioni di lavoro e per ricongiungimento familiare (circa un milione sono minori), sono in maggioranza europei, donne, provenienti da Paesi di tradizione cristiana. Questi semplici dati di fatto vengono rimossi, a favore di una narrazione drammatizzante e ansiogena.

Le ansie alimentano poi quella che può essere definita “strategia del contenimento”, contrapposta alla “cultura dell’accoglienza”. A favore di quest’ultima stanno i diritti umani affermati da costituzioni nazionali e convenzioni internazionali, le associazioni e i movimenti che difendono la causa umanitaria, ma soprattutto il dato ineludibile dei flussi di persone in cerca di scampo. Va ricordato che l’86% dei richiedenti asilo rimane nel Sud del mondo. Paesi come la Turchia, il Libano o la Giordania ospitano complessivamente circa 3,5-4 milioni di profughi, principalmente siriani. Solo una minoranza, di solito più attrezzata e fortunata, riesce ad approdare sul suolo europeo.

Ambrosini INTPer un breve momento, quando a settembre Juncker ha annunciato a nome dell’Ue un piano per accogliere e distribuire tra i Paesi membri 160mila profughi, sospendendo di fatto gli accordi di Dublino, è sembrato che la cultura dell’accoglienza stesse prevalendo. Ora però i governi sembrano essersi convinti che l’accoglienza scontenta gli elettori e alimenta i populismi. Hanno quindi abbracciato con apparente risolutezza la strategia del contenimento, dando così solidi argomenti a chi da sempre propugna la chiusura e irride il diritto di asilo. Il caso austriaco appare emblematico.

Una mossa determinante in questa direzione è stata la negoziazione dell’impegnativo accordo con la Turchia: aiuti per 5,8 miliardi di euro, eliminazione dei visti per l’area Schengen, accelerazione delle trattative per l’ingresso nell’Ue, purché la Turchia sigilli le frontiere e non consenta più il passaggio dei profughi. Di fatto si sono spostati verso l’esterno i dispositivi degli accordi di Dublino. Non hanno avuto seguito le critiche di Amnesty International per le modalità adottate dalle autorità turche per trattenere i fuggiaschi. Va da sé poi che la legittimazione della Turchia come partner affidabile e necessario significa un riconoscimento internazionale per il governo Erdogan, malgrado la crescente repressione interna. Nel frattempo, varie organizzazioni umanitarie hanno ritirato i loro operatori dall’isola di Lesbo, ritenendo che l’indurimento delle politiche europee, con il prelievo forzoso delle impronte, il trattenimento delle persone, le precarie condizioni di accoglienza, impedisca di svolgere le attività di protezione per cui si erano mobilitate.

In secondo luogo, anche in Europa stanno ricomparendo i muri, fisici e simbolici. Ne sono stati censiti 200 attraverso il mondo, ma si sperava che l’Europa si fosse lasciata alle spalle questa tecnica antichissima per separare noi e gli altri. L’Ungheria di Orban anziché essere isolata e stigmatizzata ha aperto la strada.

Non nuova, ma periodicamente reiterata, è poi una terza misura di contenimento, la minaccia delle maniere forti verso i cosiddetti scafisti. Si fa credere che i profughi arrivino rischiando la vita perché qualcuno li trasporta per denaro, occultando il fatto che in mancanza di mezzi legali devono mettersi nelle mani di chi è disposto a trasportarli, a qualunque costo. Non potendo dire pubblicamente che non vogliono accogliere altri profughi, i governi europei dichiarano guerra agli scafisti.

In aprile il governo italiano ha poi preso una nuova iniziativa sul tema, presentando un progetto, il Migration Compact, nelle intenzioni ambizioso anche se nei dettagli ancora molto vago. L’intento è chiaro e va nella direzione del senso comune: esternalizzare i controlli, accogliere chi ne ha il diritto al di fuori dell’Europa, preservare l’Unione da scomodi obblighi umanitari, evitando i deplorevoli rimbalzi dei profughi al suo interno. Non per nulla, il modello a cui il testo s’ispira è quello del controverso accordo con la Turchia prima ricordato.

Il progetto infatti inizia parlando di un’Europa posta di fronte a fenomeni migratori crescenti e senza precedenti, in contrasto con dichiarazioni assai più pacate rilasciate anche nel recente passato dal premier Renzi. Va ricordato che le migrazioni nell’Ue sono nel complesso stazionarie, intorno ai 51 milioni di persone, compresi 17 milioni di migranti intra-europei, su circa 500 milioni di abitanti (Dossier Immigrazione 2015). È aumentato soltanto il contingente molto più modesto ma ingombrante dei richiedenti asilo (628mila domande nel 2014), comunque non molti rispetto ai numeri di Turchia, Libano, Giordania. Malgrado questo esordio, il Migration Compact assume una posizione di apertura su un punto importante: l’apertura a nuovi ingressi legali in Europa anche per motivi di lavoro, in modo da offrire un’alternativa credibile agli ingressi illegali. Per il resto tuttavia i termini ricorrenti sono controllo dei confini, sicurezza, gestione dei flussi, rimpatri. Termini come diritti umani e protezione dei rifugiati sono pressoché assenti.

Il testo parla di gestione dell’asilo in loco secondo standard internazionali, ma evita di porre alcune serie questioni: come possono offrire una protezione umanitaria adeguata ai rifugiati stranieri Paesi che non riescono a offrirla ai propri cittadini? E se lo faranno, grazie ai finanziamenti dell’Ue, come potranno controllare il risentimento di cittadini che riceveranno servizi assai più poveri di quelli forniti ai rifugiati? E come controlleranno i richiedenti asilo denegati, che prevedibilmente cercheranno di sottrarsi alle espulsioni?

Altri problemi riguardano le promesse di aiuto allo sviluppo. Sono sostanzialmente due. Il primo è il rischio di finanziare i governi autoritari e bellicosi che sono all’origine dei flussi di rifugiati, o comunque gravemente condizionati da corruzione e inefficienza. Il dubbio è che si intenda finanziare la repressione delle migrazioni e del diritto di asilo, più che lo sviluppo: una repressione più facile da attuare lontano dalle telecamere europee, dal controllo delle organizzazioni umanitarie e dai sussulti di umanità delle opinioni pubbliche occidentali.

Il secondo problema consiste nell’erronea persuasione che i migranti arrivino dai Paesi più poveri e che lo “sviluppo” possa fermarli. È vero il contrario: le migrazioni sono processi selettivi e a partire sono coloro che dispongono di risorse. Con lo sviluppo, aumenterebbero le persone che trovano accesso al capitale economico, culturale e sociale necessario per partire. In una prima fase lo sviluppo quindi fa crescere e non diminuire il numero dei migranti. Solo nel lungo periodo si riducono le nuove partenze. La promozione dello sviluppo è un obiettivo nobile, ma combinata con le pretese di controllo delle migrazioni finisce in un corto circuito. Del resto nel mondo sanno bene che le rimesse degli emigranti forniscono aiuti ben più consistenti e tangibili delle promesse dei governi occidentali: le previsioni della Banca Mondiale per il 2016 parlano di 610 miliardi di dollari inviati verso i Paesi in via di sviluppo. La rincorsa del Migration Compact sarà ardua.

Continuano invece a mancare i canali umanitari richiesti dalle organizzazioni internazionali per consentire ai fuggiaschi un accesso legale e protetto a Paesi Ue. Qui un piccolo segno di speranza è rappresentato dall’iniziativa dei corridoi umanitari avviata dalla Chiesa valdese, dalla Federazione delle Chiese evangeliche e dalla Comunità di S. Egidio (v. articolo di Maria Bonafede, ndr).

Come ha scritto Amnesty International in un messaggio rivolto ai leader europei, «non è delle urne che dovreste preoccuparvi, ma dei libri di storia». Eppure le elezioni sono sempre dietro l’angolo, e i rifugiati non votano.


L’autore di questo articolo è Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle Migrazioni presso la Facoltà di Scienze politiche, economiche e sociali dell’Università degli studi di Milano; docente all’Università di Nizza; responsabile scientifico del Centro studi Medì-Migrazioni nel Mediterraneo di Genova; sempre a Genova dirige la rivista Mondi migranti; autore tra l’altro del manuale “Sociologia delle migrazioni” (2011) e del recente volume “Non passa lo straniero? Le politiche migratorie tra sovranità nazionale e diritti umani” (Cittadella Editrice, 2014).


* Illustrazione di Mauro Biani, tratta dal libro Tracce migranti. Vignette clandestine e grafica antirazzista (Altrinformazione, 2015)

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