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Diaconato femminile. Studiare o sperimentare?

Diaconato femminile. Studiare o sperimentare?

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 32 del 24/09/2016

Martedì 2 agosto, di ritorno dal viaggio in Polonia, papa Francesco ha creato la preannunciata Commissione di studio sul diaconato delle donne nella Chiesa primitiva, presieduta dal segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, il gesuita Luis Francisco Ladaria Ferrer, e composta secondo la parità di genere da sei studiose donne e sei studiosi uomini.

Prendiamo in considerazione il senso della richiesta avanzata al papa dalle Superiori generali degli ordini religiosi femminili, che non riguarda solo le religiose in riferimento ai loro servizi nella Chiesa – la diaconia di fatto esercitata – ma in generale l’accesso delle donne al diaconato permanente, finora riservato a uomini, sposati e non, con le funzioni di proclamazione e predicazione del Vangelo nella Chiesa, preparazione e amministrazione dei sacramenti, servizio ai poveri e così via. 

La richiesta riguarda solo l’ordinazione al diaconato permanente, che può rimanere tale come per gli uomini, e non costituire un passo verso il sacerdozio femminile (come se fosse inaudito e da non sollevare nella Chiesa cattolica). Evidentemente gruppi ed élite religiose, specialmente nelle società occidentali – in consonanza con una maggiore partecipazione delle donne alla governance della Chiesa intrapresa dal papa e con la crescita di partecipazione e parità di genere nella società – hanno maturato da tempo questa consapevolezza di poter annunciare e predicare il Vangelo nelle celebrazioni liturgiche, come in situazioni di missione. 

Allo stesso tempo va rimarcato che simili richieste negli ultimi decenni, per quieto vivere ecclesiastico, non sono state avanzate dai cosiddetti nuovi “movimenti religiosi” a carattere laicale, per quanto a volte si siano dati governance o direzioni femminili. Non deve sfuggire la portata dirompente di una simile aspettativa, in riferimento alla gestione secolare maschile del sacro, per la partecipazione diaconale femminile nelle celebrazioni liturgiche e nella vita della Chiesa, e per le resistenze che si possono manifestare.

È grazie a questo gesto che si riapre la questione portando alla costituzione di una Commissione per uno studio storico circa l’esistenza e le modalità del diaconato femminile nella Chiesa primitiva. L'istanza riguarda il “presente”, ma si guarda “al passato” per trovare tra le pratiche (a nostro avviso non “tradizioni” di fede) legittimazione e sicurezza. E intanto appare già il “futuro” della Chiesa una pratica religiosa maggioritaria delle donne nelle nostre società occidentali, e del loro apporto non solo nella socializzazione religiosa, ma nella cultura e nella teologia come teologhe e bibliste.

Nella “tradizione” di esclusione delle donne dal diaconato permanente può essere utile il riferimento al concetto sociologico di «invenzione della tradizione» o di «tradizione inventata», «un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato, un passato storico opportunamente selezionato [...] in larga misura fittizio» (Eric J. Hobsbawm, 1983). Tali invenzioni, sotto il profilo sociale e antropologico, hanno il senso di stabilire o simbolizzare l’appartenenza a determinati gruppi, conferire legittimazione e fondamenta a determinati status, gerarchie sociali o rapporti di autorità, come nel caso in discussione. Spetta all’indagine storica decodificare “tradizioni inventate” e pratiche ripetitive in risposta a determinate situazioni storiche, per aprire il passo all’«invenzione di tradizioni» di fronte alle nuove esigenze della vita ecclesiale e sociale. Si tratta prioritariamente di chiarire il frame o cornice di credenze, valori e norme che guidano la stessa ricerca storica, per non rimanere prigionieri di «tradizioni inventate». L’indagine storica infatti ha di sua natura carattere conoscitivo e non normativo, come per tutte le scienze sociali, e una ricerca dipende dalle domande – pertinenti e oneste o meno – che sono poste alla realtà.

In una discussione aperta che deve coinvolgere non solo gli esperti ma le varie realtà ecclesiali, occorre aprire le menti al servizio del diaconato femminile, al di là di subordinazioni secolari alla gestione maschile del sacro religioso, e costruire o far emergere la disponibilità alla predicazione del Vangelo da parte delle donne, come augurato dalle Superiori generali degli ordini religiosi femminili. La nostra tesi è che occorre certo indagare e studiare, ma secondo le situazioni, le disponibilità, le vocazioni che si manifestano creativamente, soprattutto occorre “sperimentare” i servizi di questo diaconato anche se non ancora istituito.

L’accesso delle donne all’esercizio del sacerdozio è già avvenuto in altre confessioni cristiane, e non è caduto il mondo, anzi ne sono venuti vantaggi, e tutti abbiamo visto donne di confessioni evangeliche portare il colletto clericale come sacerdoti o vescovi. Il giorno in cui è stata sollevata la richiesta del diaconato permanente alle donne, abbiamo concluso nella chiesa di S. Maria della Speranza a Scampia un percorso biblico sulla misericordia nel Vangelo di Luca, raccolti in cerchio e guidati da una preparata biblista napoletana. “Si puote”, superando l’aura sacra che avvolge le funzioni ecclesiali; per ricondurle ad una comunità di uomini e donne che celebra fraternamente i “misteri della fede” attorno alla mensa della parola e del pane di vita. 

Sapranno i “maschietti” ecclesiastici fare un passo di lato per fare posto a donne vocate e preparate come compagne nella diaconia ecclesiale, dopo secoli di esclusione, e con apertura e lungimiranza preparare le comunità a questa dimensione? Vere dignum et iustum est istituire e preparare questo diaconato permanente femminile come ricchezza e risorsa per la vita della Chiesa. Donne diacone e sacerdotesse per la Chiesa che verrà. 

Domenico Pizzuti è gesuita e sociologo (Scampia, Napoli)

Basterebbe riconoscere dove soffia lo spirito. Non deciderlo

di Giacomo D’Alessandro

Fa ben sperare l'apertura di un cammino verso il diaconato femminile ai livelli più alti della Chiesa cattolica. Un esito positivo sarebbe uno dei primi passi concreti – consentiti dalla presenza di papa Bergoglio – per colmare quei “200 anni di ritardo” della Chiesa prospettati dal card. Martini nel suo testamento spirituale. Di fronte alla quantità di storture e distorsioni storiche accumulate, cenere su cenere sopra le braci ardenti, può sembrare una irrilevanza. Ma è togliendo alcuni sassolini chiave che si accelera lo sbriciolamento della diga intera, e che al contempo si concede una gradualità che eviti l'inondazione travolgente a scapito dei “piccoli” e di chi certi problemi non è mai stato aiutato a porseli. 

Non è un caso che siano proprio le donne protagoniste di certi slanci, mentre di fronte ai cambi di passo e alle parole dure di papa Francesco il clero ingessato e smarrito perlopiù fa orecchie da mercante (magari si attrezza per accogliere qualche rifugiato, ed è un ottimo inizio, ma guai a recepire quanto attiene ad autocritiche e riforme strutturali). Nel mio ultimo soggiorno a Scampia (perché dalle periferie si osserva meglio il resto del mondo e si toccano i propri limiti), ho parlato a lungo con padre Domenico Pizzuti – ancora attivo a 87 anni soprattutto nel dialogo tra rom e istituzioni – lucido osservatore gesuita e sguardo sociologico curioso e attento. Il cruccio dell'esclusione delle donne dai ministeri è spesso tema del nostro confronto, non tanto sul livello teologico quanto osservando le pratiche nelle diocesi e nelle comunità, e le “diaconie di fatto” che esistono ma non sono incoraggiate né riconosciute con pari autonomia e dignità. 

Ben venga dunque la messa allo studio della questione, ma se non viene valorizzata la pratica della vita e il riconoscimento di dove lo Spirito soffia, si rischia di restare imprigionati sui libri e sui concetti come quelli che “hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non sentono”. La via del “discernimento” caso per caso, e dell'autonomia della coscienza in cammino, che il papa e il Sinodo hanno indicato per superare la questione “comunione ai divorziati risposati”, di fatto aprendo ma senza rotture, andrebbe via via applicata a tutti gli ambiti, primo fra tutti quello vocazionale, che per secoli sono rimasti bloccati e impigliati nei pronunciamenti, nelle nomine, nei titoli, nelle burocrazie. Le vocazioni siano riconosciute in ogni persona, senza discriminazione, dalla comunità stessa, e quindi fatte emergere e proposte a servizio. Questo cambierebbe l'intero panorama del clero (in estinzione), anzi abolirebbe il dualismo clero-popolo, e lascerebbe spazio allo spirito e all'ekklesìa, l'assemblea, variopinta dei suoi diversi carismi. 

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