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Un comitato di coordinamento costituzionale

Un comitato di coordinamento costituzionale

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 5 del 04/02/2017

La riforma costituzionale del governo Renzi è stata bocciata dal responso referendario del 4 dicembre scorso in modo così netto da indurre l’ex presidente del Consiglio a riconoscere di avere “straperso” una partita che egli stesso aveva personalizzato fino al punto di farla diventare, ben oltre lo specifico oggetto della contesa, un voto sulle scelte istituzionali e socio-economiche che costituivano la carta d’identità del suo Esecutivo. L’11 gennaio scorso la Corte Costituzionale ha dato il via libera a due dei tre referendum proposti dalla Cgil, ma ha dichiarato inammissibile quello di maggior rilievo politico sui licenziamenti previsto dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Una pronuncia che ha provocato un susseguirsi di dichiarazioni di compiacimento e di giubilo da parte di esponenti della maggioranza Pd che la dice lunga sulla consapevolezza in tali ambienti di quanto sia ampia e consolidata la caduta di popolarità dell’ex rottamatore.

Riesce allora difficile capire con quale logica si solleciti un rapido ricorso alle urne con l’esplicitato proposito di candidare Renzi alla Presidenza del Consiglio perché torni a governare in “continuità” (quella stessa “continuità” richiesta a Gentiloni e da lui formalmente assicurata) col programma del precedente Esecutivo velocemente rivisto con qualche ritocco di facciata per poterlo presentare come dotato di alcuni elementi di novità. Ne è conferma l’intervista all’ex premier apparsa su la Repubblica del 15 gennaio nel corso della quale egli conferma pienamente siffatta “continuità” a dispetto del voto referendario attribuendo la sconfitta solo a qualche difetto di comunicazione. Si punta quindi a un sollecito ritorno di Renzi ai vertici del potere esecutivo nonostante si abbia coscienza di quanto il suo progetto politico sia lontano dalle attese dell’elettorato e di come questa distanza rischierebbe di acuire i conflitti sociali rendendo difficoltosa e precaria l’azione di governo. Probabilmente si ritiene di poter ottenere una nuova investitura di Renzi per la ritenuta mancanza di alternative determinata dalle divisioni e dai problemi delle destre e dalle difficoltà e dalle fibrillazioni del movimento pentastellato. Un’ipotesi che sarebbe al tempo stesso segno di miopia politica e di una inammissibile inclinazione a privilegiare gli interessi di parte su quelli generali del Paese.

Responsabile e saggio si appalesa allora il ruolo che sta svolgendo il presidente Mattarella facendo capire quanto sia avventuristico un ricorso alle urne senza il varo di una legge elettorale che concili al meglio le esigenze della rappresentatività e della stabilità governativa e renda omogenee le procedure di elezione della Camera e del Senato per evitare esiti contraddittori o paralizzanti. Occorre quindi per il varo della legge elettorale un lavoro serio e meditato da svolgere in un tempo ragionevole che potrebbe essere utilizzato dalle forze politiche per tentare di risolvere in qualche modo i loro problemi interni e di mettere a punto le proprie strategie alla luce anche del recente responso referendario. Un tempo che potrebbe inoltre consentire al governo Gentiloni di far fronte alle tante urgenze: rapporti con l’Europa sullo spinoso problema dei conti pubblici, crisi occupazionali, immigrazione, sicurezza pubblica, banche, emergenze territoriali.

Ma c’è un fatto di rilievo tale da poter avviare una svolta positiva nella politica del nostro Paese. Un evento che rischia di essere sottovalutato, dimenticato o rapidamente accantonato, mentre va posto al centro di tutto ciò che nasce, si muove, matura, si esprime e cerca di diventare progetto, programma e scelta politica. L’avvenimento da tenere nel massimo conto è che il popolo italiano, dopo avere col referendum del 25 e 26 giugno del 2006 detto “no” con oltre il 60% dei voti alla riforma costituzionale berlusconiana (l’introduzione di un confuso premierato con l’attribuzione al Primo Ministro di un sostanziale potere di controllo sulla funzione legislativa), è tornato a respingere anche questa volta con circa il 60% dei voti la riforma costituzionale del governo Renzi che, con scelte in parte diverse, puntava anch’essa a verticalizzare il potere dell’Esecutivo intaccando la centralità del Parlamento. Due consultazioni popolari che hanno detto con uguale forza che la Costituzione repubblicana è la stella polare della nostra Repubblica e va perciò puntualmente rispettata nella sua seconda parte, quella ordinamentale, e attuata nella prima, quella concernente la concezione e le finalità dello Stato, i principi che ne devono ispirare le funzioni e le direttive che vanno tradotte in leggi intese a costruire una società più umana e più giusta. Una società quindi diversa da quella modellata sugli interessi e gli imperativi del neoliberismo.

L’attuazione della prima parte della Costituzione dovrebbe allora rendere effettivi i diritti in essa sanciti a partire da quelli sociali ed economici che sono oggi ignorati o in grave sofferenza. E in questa ottica, nella situazione in cui si trova il nostro Paese, primario si appalesa il dovere di attuare riforme che restituiscano dignità al lavoro e ciò sia operando scelte rivolte a fronteggiare il grave fenomeno della disoccupazione, specialmente giovanile, con la promozione di investimenti anche pubblici in settori di interesse generale, e sia reintroducendo la reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamenti palesemente privi di giusta causa o giustificato motivo. Così come sarebbe necessario e urgente varare una riforma tributaria informata marcatamente a criteri di progressività per ridurre le scandalose disuguaglianze sociali, nonché l’adozione di misure intese a combattere la dilagante corruzione e quella vergognosa evasione fiscale che reca grave danno allo Stato e agli onesti contribuenti. E necessaria ed urgente si appalesa anche una riforma della recente riforma della scuola (la cosiddetta “buona scuola”) per porla al riparo da concezioni che ne vogliono fare un’azienda a gestione manageriale e metterla invece in condizioni di svolgere il ruolo che le è proprio: quello di una comunità democratica, da Piero Calamandrei considerata “organo costituzionale”, che si educa ed educa per formare cittadini dotati di spirito critico e capaci di autodeterminazione, nonché per esprimere una classe dirigente all’altezza delle sue responsabilità. Né va sottovalutata l’urgenza di appropriati interventi legislativi sugli Uffici Pubblici per fare in modo che essi siano, come dice l’art. 97 dello Statuto, organizzati in modo da assicurare non solo il “buon andamento” ma anche l’“imparzialità” della Pubblica Amministrazione, un requisito quest’ultimo spesso ritenuto a torto doveroso solo per la funzione giurisdizionale.

Ma come è possibile nell’attuale situazione por mano a un effettivo cambiamento? Non c’è forse il rischio che il messaggio riveniente dall’esito del recente referendum finisca per naufragare nelle burrascose acque della crisi di identità, di coesione interna e di progetti che in modo diverso sta segnando la vicenda delle maggiori forze politiche a fronte della mancanza di un soggetto capace di raccogliere e valorizzare il responso referendario? Questo rischio esiste e perciò sarebbe forse utile dar vita a un comitato di coordinamento, a livello nazionale con diramazioni locali, che sia rappresentativo delle espressioni più avanzate della società civile nonché delle forze politiche e sociali, interne ed esterne ai partiti e ai movimenti politici compreso quello pentastellato, che si riconoscono pienamente nei valori e nelle direttive dello Statuto. Un organismo che abbia il compito di favorire confronti, collaborazioni, auspicabili intese e possibili alleanze con l’obiettivo di tradurre i principi e i precetti costituzionali in convergenti programmi politici. Sarebbe un primo passo, l’unico forse oggi realisticamente possibile, di un cammino che possa prima o poi sfociare in una grande alleanza, figurativamente indicata anche come “Partito della Costituzione”, capace di dare una radicale svolta alla politica italiana. Una faticosa marcia che sia però in grado sin d’ora di farsi carico dei problemi del presente e dell’immediato futuro per impedire manovre rivolte a bloccare la forza trasformatrice della vittoria referendaria del 4 dicembre.

Michele Di Schiena è presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione 

*Foto di Massimiliano Mariani Immagine originale e licenza

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