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La Terra, il nostro hardware

La Terra, il nostro hardware

Tratto da: Adista Documenti n° 14 del 08/04/2017

(Per l'articolo di introduzione, clicca qui)

La terra non è rinnovabile, non è infinita e purtroppo non è indistruttibile. La terra svolge moltissime funzioni e non è sostituibile da alcun altro “supporto”. È l’hardware su cui girano moltissimi “sistemi operativi” e, senza di essa, molte delle nostre attività cesserebbero all’istante o si incepperebbero, creando seri danni.

La terra ci serve per mangiare

Partiamo dalla prima e più intuitiva delle funzioni della terra, o meglio, del suolo agricolo: la funzione produttiva primaria, la produzione di biomassa vegetale e di materie prime agroalimentari, la produzione di cibo per l’alimentazione degli esseri viventi.

Apparirà banale dirlo e ribadirlo in una pubblicazione, ma vi sono generazioni di bambini (e anche di adulti) metropolitani che credono che il cibo cresca sugli scaffali dei supermercati.

Il nostro Paese negli ultimi anni ha visto decrescere costantemente la propria sovranità alimentare. La superficie agricola utilizzata (SAU), negli ultimi 40 anni, è scesa, secondo il Rapporto 2013 sul consumo di suolo agricolo a cura del Ministero delle Politiche Agricole, del 28%. 

Se nel 1991 avevamo un’autonomia alimentare pari a oltre il 92%, in vent’anni l’abbiamo vista costantemente scendere fino a toccare quota 80% (nel 2010). Ciò significa che ad oggi l’Italia ha un grado di auto-approvvigionamento che ruota attorno ai 4/5 del proprio fabbisogno alimentare.

Inoltre l’Italia è il terzo Paese in Europa e il quinto nel mondo nella classifica del deficit di suolo. 

Avremmo bisogno di 61 milioni di ettari di suolo libero per garantirci i nostri consumi e gestire lo smaltimento dei nostri rifiuti (è il concetto di impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel e William Rees, che misura l'area biologicamente produttiva di mare e di terra necessaria per rigenerare le risorse consumate dalla popolazione che vive in un determinato territorio e per assorbirne i rifiuti prodotti). Li abbiamo? No. Oggi, disponiamo di meno di 13 milioni di ettari (ne avevamo 18 milioni nel 1971!), pertanto ci mancano 49 milioni di ettari per coprire il nostro intero fabbisogno. Proseguendo così, al ritmo di consumo di suolo cui ci siamo assuefatti, siamo destinati a essere sempre più dipendenti dalla produzione di terreni di altri Paesi e dovremo sempre di più piazzare i nostri rifiuti altrove.

Soprassedendo sul tema vasto dei rifiuti e della loro gestione, domandiamoci qui se è importante essere autonomi dal punto di vista alimentare. Sicuramente la risposta dipenderà anche dalle opinioni politiche. Per qualcuno potrebbe essere comunque preferibile investire nel calcestruzzo, andando a recuperare il cibo altrove. Le teorie iperliberiste che sorreggono la globalizzazione imperante ci hanno insegnato che il mercato mondiale dovrebbe regolare tutto. Di certo sta regolando anche il fenomeno del Land Grabbing (accaparramento della terra/dei terreni), una controversa questione economica e geopolitica, venuta alla ribalta nel primo decennio del XXI secolo, che riguarda gli effetti di pratiche di acquisizione su larga scala di terreni agricoli in Paesi in via di sviluppo, mediante acquisto o affitto di grandi estensioni agrarie da parte di compagnie transnazionali, governi stranieri e singoli soggetti privati. Sebbene il ricorso a simili pratiche sia stato largamente diffuso nel corso della storia umana, il fenomeno ha assunto una particolare connotazione a partire dagli anni 2007-2008, quando l'accaparramento di terre è stato stimolato e guidato dalle conseguenze della crisi dei prezzi agricoli di quegli anni e dalla conseguente volontà, da parte di alcuni Paesi, di assicurarsi le proprie riserve alimentari, al fine di tutelare sovranità e sicurezza in campo alimentare.

La popolazione mondiale è in costante aumento. Secondo l’ONU, oggi (nel 2014) ha superato i 7 miliardi e 200 milioni e le stime per il 2050 sono di quasi 9 miliardi di abitanti sul pianeta. Numeri che mettono (e metteranno sempre di più) i governi di tutti i Paesi di fronte alla missione primaria di provare a sfamare tutti (tutti?) i propri governati. Pienamente consapevoli, e anzi pronti ad approfittare di tutto ciò, gli attori economici più potenti che agiscono nei mercati globali si stanno attrezzando (spesso incuranti dei limiti della natura e dei diritti dei nativi delle terre accaparrate) per lucrare sull’esigenza indispensabile di ogni essere umano: mangiare. E non fanno eccezione, in questo accaparramento di terreni agricoli su scala globale, neppure alcune imprese italiane, come Eni, Maccaferri, Benetton e Generali. Come pure alcune banche importanti: Unicredit, Intesa e Monte dei Paschi di Siena (visto che siamo uno dei fanalini di coda dell’economia europea non si direbbe, ma l’Italia è al secondo posto tra i Paesi Europei «più attivi negli investimenti su terra all’estero, seconda solamente all’Inghilterra», www.recommon.org/gliarraffaterre/copertina-land-grab/).

Sempre riguardo all’Italia, alla presenza dei diversi indicatori quantitativi, che già dovrebbero invitare a ferree politiche di tutela del suolo, dobbiamo aggiungere indicatori di tipo qualitativo strettamente connessi proprio al cibo: le terre italiane sono tra le più fertili del pianeta e il loro prodotto potrebbe essere di qualità eccezionale. 

La tutela del suolo agricolo italiano è azione indispensabile quanto ovvia se si desidera davvero tutelare i prodotti agricoli, le peculiarità e le unicità dei prodotti italiani. Tipicità che sono parte importantissima nei processi di formazione e conservazione delle diverse identità regionali.

Il radicchio rosso di Treviso, per essere coltivato, venduto e mangiato, ha bisogno della terra, del clima e delle proprietà chimiche dei suoli che troviamo attorno Treviso (o i alcuni comuni della Provincia di Padova e di Venezia). Il pomodoro di Pachino, per crescere e per essere riconosciuto quale prodotto a Indicazione Geografica Protetta (IGP), ha bisogno della terra compresa tra Pachino e Portopalo di Capo Passero (e anche di parte dei territori di Noto e di Ispica). Il Parmigiano Reggiano avrebbe bisogno della cosiddetta Food Valley per essere grattugiato sui maccheroni di tutto il mondo. Proprio di quella pianura padana che, per facilità di irrigazione, tipologia e classe dei terreni (quasi ovunque classe 1, ovvero la più fertile), non avrebbe mai dovuto essere trasformata in una Gru Valley (cfr. Il Suolo Minacciato, docufilm di Nicola dell’Olio), una tavola disseminata di capannoni, centri commerciali, outlet, raccordi e bretelle autostradali che hanno stravolto per sempre la vocazione naturale della più vasta pianura italiana.

Ovviamente, le considerazioni sul valore dell’agricoltura e sulla necessità di fermare il consumo di suoli agricoli per tutelarne la capacità di produrre qualità alimentare devono essere accompagnate a un’ampia riflessione sul tipo di agricoltura e all’urgente esigenza di cambiare il modello produttivo dominante nel settore primario, avviando una transizione dalla monocoltura intensiva che utilizza fertilizzanti e pesticidi per garantire alte rese (ma provocando un lento ma inesorabile peggioramento della qualità dei suoli e anche un provato inquinamento delle falde) a un’agricoltura più rispettosa della terra stessa, più legata ai territori e al servizio degli abitanti tutti (non solo esseri umani).

Ma il suolo non cementificato e permeabile svolge un ulteriore compito fondamentale di cui troppo spesso ci ricordiamo solo a disastri avvenuti: la riduzione dei rischi dovuti al dissesto idrogeologico. La terra libera svolge una funzione di regolazione idrica e di assorbimento dell’acqua piovana e di conseguenza contribuisce ad assicurare sicurezza idrogeologica.

Tra il 1944 e il 2012 i governi che si sono succeduti hanno dovuto far fronte a oltre 61 miliardi di euro di danni causati dal dissesto idrogeologico. Una media di circa 1 miliardo di euro all’anno.

Non esiste regione o provincia d’Italia che non abbia regalato alla storia iconografica del Belpaese immagini drammatiche di alluvioni, esondazioni, frane, smottamenti, sfollati, imprenditori disperati per la perdita del capannone, comunità intere isolate a causa dei fenomeni dovuti al dissesto idrogeologico.

Ormai è assodato e confermato da tutti gli esperti: il dissesto idrogeologico vede tra le sue concause il fenomeno dell’impermeabilizzazione dei suoli.

Dal rapporto redatto da Ance (Associazione Nazionale Co-struttori Edili) e Cresme (Centro Ricerche Economiche e Sociali di Mercato per l'Edilizia e il Territorio), nel 2012, i Comuni a elevata criticità idrogeologica sono 6.631, l’89,1% del totale, per una popolazione potenzialmente a rischio pari a 5,8 milioni di persone.

Numeri da capogiro, che potrebbero costituire la premessa per un piano nazionale di risanamento e di piccole opere di cura del dissesto in grado di svolgere una funzione anticiclica, accompagnando un piano generale di riconversione dell’edilizia.

Ridurre l’impermeabilizzazione dei suoli, porre rimedio alle criticità che incombono, come frane in bilico su interi paesi e frazioni, fermare le edificazioni in aree alluvionali sembrerebbero decisioni ovvie. Eppure ancora oggi sono numerosissimi i casi denunciati di edificazioni (realizzate o programmate) in aree a rischio di dissesto.

Non abbiamo carenza di normativa. Abbiamo una legislazione sufficientemente chiara che vieta l’edificazione in aree a rischio. Ma l’Italia, purtroppo, è il Paese dell’abusivismo edilizio e delle deroghe.  

Ecco perché dovremmo sempre tenere alta la guardia e pretendere quegli interventi di prevenzione che, siccome invisibili e poco produttivi di consenso, il partito del cemento ignora, per inseguire invece gli oneri di urbanizzazione e gli affari facili grazie alla svendita del territorio amministrato. Ecco perché sarebbe davvero ora di decidersi a fischiare tutti i dirigenti del partito del cemento (siano essi di destra, di sinistra, di centro) quando si presentano con ipocrite facce contrite ai funerali delle vittime del dissesto idrogeologico. 

La terra ci salva la vita

I coccodrilli sono gli animali vertebrati tra i più vecchi del pianeta, dei veri e propri fossili viventi. Sono comparsi nel Cretaceo superiore (circa 90 milioni di anni fa) e da allora continuano a popolare la terra, con le loro caratteristiche, fisiche e comportamentali, rimaste pressoché inalterate fino ai giorni nostri.

Cosa c’entra questo incipit da documentario, che potrebbe essere letto dalla mitica Vulvia (Corrado Guzzanti) di Rieducational Channel, con il consumo di territorio?

Scopritelo!

Tra le funzioni naturali del suolo, dobbiamo ricordare il  fondamentale apporto che la terra fornisce ai fini della conservazione della biodiversità. Sia di quella intrinseca, ovvero riferita agli organismi che vivono e si riproducono nel suolo, sia di quella secondaria, cioè la biodiversità garantita dalla produttività biologica dell’ecosistema.

L'importanza della biodiversità, per l’essere umano e per tutti gli esseri viventi che abitano la Terra, è data principalmente dal fatto che la vita è possibile grazie ai cosiddetti servizi forniti dagli ecosistemi, i quali devono appunto conservare un certo livello di funzionalità.

A eccezione dei servizi cosiddetti culturali (anche se il paesaggio, la bellezza e la terra libera possono contribuire moltissimo alla qualità della vita delle persone, come riconosce del resto, in maniera forte e chiara, l’articolo 9 della nostra Costituzione: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione»), tutti i servizi ecosistemici hanno in ultima analisi bisogno di terra: i servizi di fornitura (cibo, acqua, foraggio, legno, fibre); i servizi di regolazione (clima e assetto idrogeologico, riciclo dei rifiuti, qualità dell’acqua), i servizi di supporto (fotosintesi). Quindi la biodiversità, che garantisce la vita anche degli esseri umani, è assicurata solo dalla disponibilità di terra non cementificata e fertile.

La terra garantisce la biodiversità. La biodiversità garantisce la vita. La biodiversità salva la vita. Lo ha già fatto innumerevoli volte. Come?

Un solo esempio noto a tutti: la penicillina. Sappiamo tutti che essa fu inventata (o meglio scoperta) da Alexander Fleming nel 1929. Ma forse non sappiamo che la penicillina nacque dall’osservazione dello scienziato scozzese che notò che una banale muffa inibiva la crescita batterica di coltura contaminata. La muffa è biodiversità. La biodiversità ha salvato centinaia di milioni di vite umane.

E, qui, torniamo finalmente al nostro coccodrillo. Alcuni scienziati americani della McNeese State University di Lake Charles in Louisiana stanno testando l’efficacia di proteine estratte dal flusso ematico degli alligatori per mettere a punto un nuovo antibiotico che potrebbe essere in grado di combattere anche i batteri più aggressivi. Ecco quindi che i coccodrilli, ovvero parte della biodiversità, potrebbero curare e salvare vite umane.

Chissà che un giorno, oltre ad additare le lacrime di coccodrillo di chi piange pur essendo responsabile di disastri annunciati, potremo anche celebrare il sangue di coccodrillo, ringraziandolo per aver resistito per oltre 90 milioni di anni e aver attraversato indenne l’ultima era, quella costruita attorno al mito della crescita infinita, del saccheggio delle risorse e della distruzione di habitat naturali che magari, anzi sicuramente, conservano possibilità di cura oggi ignote ma che potrebbero essere di vitale importanza domani, per i nostri figli… 

* Domenico Finiguerra, già sindaco (2002-2012) di Cassinetta di Lugagnano (vincitore del premio nazionale “Comuni Virtuosi” nella categoria “Gestione del territorio”) e copromotore della campagna nazionale “Stop al Consumo di Territorio” e del Forum nazionale Salviamo il Paesaggio, è oggi consigliere comunale ad Abbiategrasso (MI), alla guida di una lista civica.

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