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Paradigma Post-religionale: domande frequenti

Paradigma Post-religionale: domande frequenti

Tratto da: Adista Documenti n° 18 del 13/05/2017
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(per l'introduzione a questo intervento, clicca qui)


Questo articolo, che ha la forma di Faq (Frequently Asked Questions, le “domande poste frequentemente”), mira a dare risposta ai dubbi e alle critiche in relazione a questa profonda trasformazione nota come paradigma post-religionale, o anche come paradigma post-secolare, perché stiamo passando non solo da una religione a una specie di sovra-etica, ma anche da una laicità postmoderna a significati plurali di solidarietà profonda.

Il nostro scopo è smontare o decostruire entrambi gli estremi: dal lato della religione, quello di racconti dogmatici estranei al mondo di oggi; dall'altro lato, quello dell’assenza di racconti o di un pensiero unico distante dall'umanesimo. 

Intendiamo esprimere qui quel significato di amore incondizionato in cui consiste a nostro giudizio la rivoluzione di Gesù di Nazareth nella storia. Oggi lo definiamo come civiltà dei massimi morali, come invito a una fraternità senza limiti, come “divinità”, anche, o come somma dignità legata all'umanizzazione.

Alcuni intendono questa solidarietà incondizionata come una trascendenza dal basso verso l'alto e tentano di esprimerla mediante simboli coerenti con la mentalità di oggi. È un tentativo di ricostruire il cristianesimo e una prospettiva sovrannaturale, prima segregata in un mondo celestiale, e oggi capace di emergere da “lo stesso amore e la stessa pioggia” (El mismo amor, la misma lluvia è un film del 1999 diretto dal regista argentino Juan José Campanella, ndt). Un progetto nei confronti del quale sono solitamente espresse le seguenti obiezioni.

IL PARADIGMA POST-RELIGIONALE...

- Distrugge il cristianesimo negando o riducendo a puro simbolo il Mistero della Salvezza

Il “Mistero della Salvezza” è l'asse centrale del cristianesimo. È la “risposta” alla necessità e all'anelito riguardo al senso, alla limitazione o alla contingenza e soprattutto al male e alla morte che appaiono insuperabili. È particolarmente confortante per la remissione del “peccato” e della colpa, rassicura dall'ansia e dalla paura e consola rispetto al passato perduto e alla sofferenza delle vittime innocenti. Ma offre questa risposta nella forma di fatti reali di un mondo parallelo letteralmente descritto dalla Rivelazione. E allora il credente può sentirsi come un estraneo nel mondo di oggi, finendo per parlare nel vuoto o per contraddire il senso comune e la scienza e scontrandosi così con un nonsenso molto serio. Il più significativo di questi equivoci consiste nell'identificare la fede come un “credere a ciò che non si vede” invece che “credere a favore e a dispetto di ciò che si vede”.

A nostro giudizio il grande mistero della salvezza è una “Grande Metafora”. Il suo valore risiede nel trovare una soluzione alle grandi questioni, il suo errore nello spiegarlo in modo oggettivo. La “Salvezza”, al di là della sua indefinitezza e del suo richiamarsi all'ambito sovrannaturale, non è una successione temporale di immensi avvenimenti miracolosi. La pre-esistenza trinitaria, la Creazione, l'Incarnazione e la Redenzione, o la Resurrezione e la vita eterna, sono simboli di esperienze e di aneliti molto profondi. Il compito del credente è andare al fondo di questi miti.

Così intendeva Gesù di Nazareth, il quale non ha mai detto in che consistessero quegli eventi, ma ha esortato, con parabole, gesti e pratiche assai rischiose e scandalose, a una vita in pienezza. E ogni volta che intendeva dare un fondamento alla bontà o a esortare incondizionatamente alla vita piena ricorreva a simboli molto familiari come “Padre”, “Regno di Dio”, “Figlio dell'Uomo”, “Resurrezione”, “Paradiso”... ma mai come descrizioni reali, verità eterne o dogmatiche, bensì come una grande forza attrattiva.

- Non garantisce una verità assoluta e pertanto lascia le persone orfane di un significato definitivo e rassicurante nella vita

E neppure può farlo. La concezione della verità è cambiata molto da quando l'umanità ha cominciato a fare uso della ragione. Ha iniziato con le spiegazioni mitiche, assunte come verità, proseguendo con la filosofia come pretesa di verità totale, radicale, strettamente razionale, senza concessioni all'immaginazione. A questa è subentrata l'epistemologia scientifica, basata sull'ipotesi e sulla confutazione, e infine sono apparse svariate teorie critiche che l'hanno collocata nell'ambito della filosofia del sospetto (...).

Ma, soprattutto, la verità è ultimamente vista come limitata dal linguaggio, modulata dall'uso e dai contesti, costruita dal consenso critico, di nuovo come mito, non vero ma provvisto di significato, intesa anche come il “volto” dell'altro più che come la luce della propria mente, determinata a livello neuronale o soggetta all'incertezza e al caso. In questo contesto l'affermazione di una verità assoluta, eterna, diventa assai improbabile, impedendo un dialogo sincero tra le molteplici visioni della realtà.

La verità affermata come indiscutibile in ambito religioso (...) non è altro che la pretesa umana di assolutizzare e legittimare una determinata cosmovisione. A questo scopo deve uscire dalla contingenza e sdoppiare la realtà in un metamondo in cui tutto sia puro, eterno, indiscutibile. Si tratta di una contaminazione del vangelo da parte di un ebraismo escludente rispetto ad altri popoli e da parte della filosofia dualista dei greci.

(…). Non esistono verità o risposte definitive. La verità assolutizzata uccide il dinamismo della ragione, sottomettendola, e alla fine questa ragione ingessata sfocia nello scetticismo e perde significato. Al contrario, il simbolo la nutre di significati, la incanta e la libera. 

Per questo la religione si volge verso un altro mondo, per ottenere certezze. Ma noi pensiamo che l'altro mondo sia la fede in questo. E che l'importante, conoscendo il minimo necessario, sia amare il massimo possibile. Così ci sembra che abbia operato Gesù di Nazareth, che aveva poche conoscenze e imponeva poche verità, ma che amava molto. Eccolo il significato ultimo, vero, pieno di senso, capace di infiammare una vita.

Il paradigma evangelico, questa pre-comprensione e pre-disposizione alla speranza e all'amore incondizionato a partire dai poveri, non si esprime necessariamente in una cosmovisione scientifica, in una religione o in una sociologia determinata. È aperta a tutte queste come esortazione e impulso. Come simbolo. 

- Nega Dio. Conduce all'ateismo o almeno allo scetticismo e al relativismo

Il paradigma post-religionale non solo non nega Dio ma lo libera da definizioni deformanti. Per dirlo senza fronzoli, non pone l'assoluto in un santuario, nella Kaaba, nel vuoto interiore, nella morale o nel denero. Concordiamo con tutta la tradizione biblica ed ecclesiale sul fatto che Dio è innominabile. Presente in un modo che non conosciamo e, al tempo stesso, assente. Tanto la teologia scolastica quanto la teologia negativa, quella medievale e quella che è venuta dopo, hanno respinto qualsiasi evidenza della divinità. (…).

Crediamo che la nostra mente sia aperta alla pienezza, comunque si voglia chiamarla. E che la divinità ci si manifesti come un orizzonte. (…). La divinità è inarrivabile. Solo l'amore la rende più vicina e solo il simbolo riesce a scorgerla e a lasciarla intravedere in maniera imperfetta.

(…). Non c'è definizione possibile e tanto meno unica, sempre che si intenda Dio come dinamica che ci conduce alla pienezza e che si realizza in successive incarnazioni della bontà e della giustizia. Più che esistere, Dio viene costruito nell'attesa che possa essere. Il grande argomento è un “magari”, un desiderio immenso, “infinito”, che il male e l'ingiustizia non abbiano l'ultima parola.

L'immagine classica di un Dio onnipotente e salvatore, situato fuori da questo mondo ma pronto a provvedere ad esso – immagine predominante nella storia dell'ebraismo e del cristianesimo – non risponde più alla mentalità attuale. È stato da sempre impossibile conciliare l'onnipotenza e la somma bontà con l'esistenza del male. La “creazione” attribuisce il male all'autonomia della natura o dell'essere umano (in Dio non c'è posto per il male o il peccato), nello stesso momento in cui, quando si tratta della grazia, della salvezza e della morale, queste vengono eteronomamente da sopra (...). Ciò è in contrasto con il messaggio di Gesù: «La tua fede ti ha salvato».

Oggi ci sentiamo autonomi. Crediamo che la divinità sia l'impulso dell'amore nella sua forma migliore, l'afflato dell'intelligenza creatrice, l'anima della compassione, la bellezza dell'arte, la vitalità della natura. Come approssimazioni, come alcuni dei mille nomi o metafore che ci avvicinano al mistero della realtà.

La nostra esperienza del Mistero non è teista né atea. Non c'è un Dio al di fuori, dentro, sopra o nel fondo, ma la stessa Realtà si rivela a se stessa nella coscienza umana come divinità. Credere in Dio non è affermare un'idea o un essere superiore, ma vivere a partire dal richiamo a ciò che vi è di meglio, in maniera umile e totalmente libera. Che si abbia o meno un nome per questo, che ci si senta credenti, atei o agnostici, viviamo come se questo meglio fosse possibile per tutti, come se la divinità fosse una promessa reale.

A questo risponde l'immagine del “Padre” a cui ci invita Gesù. Il sentimento interiore che tutto ha un valore incondizionato che merita l'esistenza e il rispetto. Dio non è onnipotente, né onnisciente, né padre o madre, né energia quantistica, né bosone attrattore di un campo di potere strutturatore di forma. Ma è anche tutti i nomi, affermati, negati, sublimati e di nuovo negati in una costante venerazione condivisa.

- Il paradigma post-religionale svaluta la rivelazione

Non è vero che la svaluta: piuttosto, la riconosce come uno dei racconti dell’umanità più belli e benefici. Però la Bibbia, non potendo essere letta in maniera letterale e necessitando di interpretazione, viene solitamente reinventata a ogni epoca: basti pensare al caso della pittura religiosa, che in molti casi è evidentemente anacronistica. Il testo scritto o trasmesso è solo una matrice. Ciò non significa negarla o svalutarla. Al contrario, è la tentazione di assolutizzarla e di trarne una visione sociopolitica, una morale o delle pratiche e rituali che le sottrae prestigio, mostrando in molti casi le contraddizioni, l'enfasi sui miracoli, la parzialità e l'incomprensibilità.

È noto che i vangeli dell'infanzia furono elaborati o inventati (…) per magnificare l'origine di Gesù. Si ricordi per esempio il simbolismo numerico nella genealogia di Gesù o i significativi racconti della fuga in Egitto, dei Re Magi, ecc. 

Di recente, le ricerche archeologiche hanno mostrato come la Torah sia stata elaborata dagli scribi del re Giosia nel VI secolo a.e.c. per dare lustro alle origini del popolo di Israele e legittimare il suo regno. Non è un racconto ancestrale delle origini dei tempi. Pensiamo a quanto la pietà e la teologia si siano ispirate ai miti della Genesi, a quanto la Teologia della Liberazione lo abbia fatto con l'uscita dall'Egitto e con tutti gli altri meravigliosi avvenimenti dell'Esodo. La stessa istituzione dell'Eucarestia o ultima cena di Gesù non è stata un rinnovamento del rito pasquale ebraico ma una cena di saluto in un contesto di persecuzione. E potremmo continuare con altri esempi.

Viene un momento in cui l'insieme delle interpretazioni crea un racconto distinto. Che fare allora quando c'è tanto da distinguere, da tradurre e da attualizzare? Non c'è altro da fare che rimandare, a partire dallo “spirito”, dalla bella e buona ragione, alla sua intenzione di fondo: il contagio della speranza e delle nobili azioni di giustizia e di liberazione, l'impulso ad accompagnare la vita con messaggi confortanti. Allora la Bibbia non è più “quella che ha ragione”, ma è quella che ha anima, e che condivide la sua luce con molte altre parole, espressioni artistiche e raffigurazioni in cui la bellezza provoca una commozione interiore (...).

- Pone la ragione al di sopra della fede, non combatte le deviazioni della scienza contrarie alla Rivelazione

(…). La ragione, come il linguaggio, ha molte funzioni e molti usi e non conviene mescolarli. Il linguaggio della fede è simbolico e quello della scienza è esplicativo. Non si tratta di una doppia verità, ma di una verità e di un significato, di una cosmovisione scientifica e di un impulso che anima la ricerca, arricchisce il suo processo e apre i suoi risultati in maniera simbolica. La fede lascia libera la scienza, che è criticabile solo nel suo avanzare da dentro, a partire dalla sua stessa metodologia.

È questo il grande cambiamento della nostra epoca, la metamorfosi dell'epistemologia religiosa. L'umanità intera, senza divisioni tra teisti e atei, che per prima cosa ascolta quello che dice una “ragione plurale”, non riduzionista né sfuggente, coraggiosa e umile (quello che tutti diciamo sull'immediato e sulle grandi questioni), e poi quello che si dice che ha detto Dio, e questo come uno specchio che non ritrae, ma che allarga lo sguardo.

- È incapace di dare risposta al problema del male e della morte

Il problema del male è irrisolvibile. Si può solo ridimensionarlo con la bontà. Siamo limitazione, incomprensione e debolezza. E saremo sempre in cammino, desiderando. E non potremo mai affermare il nostro destino. Ma possiamo creare belle metafore, fare il bene e trovarvi un'esperienza di felicità, una mistica attiva la cui consistenza alcuni chiameranno Dio, altri realtà, pienezza o Gesù di Nazareth, per la sua affinità con questo infinito che affiora dal nostro essere più profondo. Quello che non può fare la fede post-religionale è offrire postulati come certezze.

- Nega l'ordine sovrannaturale e riduce i simboli a significati intramondani

L'affermazione di un ordine soprannaturale parallelo a questo è un'eredità platonica. Gesù di Nazareth si è mosso piuttosto nell'ambito della libertà trascendente, cioè di una moralità oltrepassata dai massimi principi della giustizia e della bontà. Il suo iperbolico invito a perdonare, ad amare i propri nemici, a porgere l'altra guancia, la sua opzione per i poveri, schiude un altro mondo che non è affatto soprannaturale, ma è ancorato alla stessa natura elevata alla sua maggiore dignità. Dà inizio al Regno di Dio, questa parabola che esprime un modo di vivere segnato dalla gratuità e dall'amore incondizionato. È questo che è realmente “soprannaturale”, qualcosa che sfugge totalmente al comportamento “naturale”, ordinario.

I simboli di questo mondo elevato dalla gratuità che lo sostiene nel suo stesso essere non sono i sette sacramenti che imprimono un carattere o trasmettono la grazia come fosse pioggia, o fenomeni magici possibili solo con l'intervento di un dio esterno (...). I simboli credibili oggi sono le molteplici espressioni naturali di questa sovrabbondanza dell'amore: il bacio al lebbroso, la contestazione dell'ingiustizia, la donazione di un organo, l'invenzione di una medicina, la rappresentazione della bellezza, la semina di un albero, la carezza a un animale… Non sono solo segni naturali, né sovrannaturali. Sono intra-naturali, il parto della divinità che portiamo dentro di noi. Ci conducono al cuore della vita. (…).  

- La negazione di una vita oltre la morte annulla qualunque costruzione sociale o morale, umana e planetaria, che possa essere definitiva

Si tratta di un'obiezione molto seria. E lo è ancora di più nel momento in cui molti dei progetti di liberazione sono falliti e la salvezza religiosa non ha avuto abbastanza successo nei drammi umani, almeno con la generosità affermata dalla teologia. Nulla può garantire che il mondo, la società e le persone realizzino la società perfetta, una vita di beatitudini perpetue. E così diciamo addio a tutte le utopie che si pretendono certe. La morte pone fine a tutte le conquiste e una vita ultraterrena non è garantita. Tutte le nostre costruzioni sono incerte e obbligate a trovare la pienezza nelle proprie realizzazioni parziali, in attesa che l'insperato possa aver luogo. 

Quello che nasce limitato non può pretendere l'illimitato, se non come speranza. Ma la speranza non afferma mai, è solo un anelito e si realizza progressivamente senza alcuna certezza di una conquista definitiva. In un certo senso diremmo che ha bisogno di un Dio, di una vita eterna, di un'onnipotenza, ma non lo può affermare. (…). Torniamo all'origine della religione, ma una religione da dentro, aperta, senza affermazioni dogmatiche, credente a partire dall'agnosticismo e dal naturalismo.

- Se la divinità di Gesù non è reale, la Resurrezione non ha avuto luogo e la fede risulta vana

La divinità in Gesù non è un supplemento. Il valore di Gesù è già sufficientemente ricco in sé. Tanto ricco quanto forse irripetibile, almeno nell'immagine che traduciamo gli uni agli altri, che risponda o meno al Gesù storico, ebreo, nato da donna, come dice Paolo. Il titolo “Figlio di Dio” è più un'espressione simbolica di radice ebraica che una realtà oggettiva. Indica la trascendenza del suo essere interamente per gli altri. In Gesù, l'amore incondizionato, quello che si esprime nell'assenza di limiti, nel perdono, che mi porta ad amare il nemico o a optare per il debole, acquista nome e figura. È questo insolito capovolgimento di valori, che è la divinità; la pienezza dell'umano, qualcosa di estremamente difficile in questa società dove si aspira solo a fare fortuna e si rispetta la legge per coazione o reciprocità, e dove l'azione giusta e invisibile, senza ricompensa, è considerata impossibile o senza senso.

Quando qualcuno dona la vita senza attendersi nulla in cambio sta facendo un'esperienza di bontà assoluta, senza condizioni, cioè di assoluto, di divinità... È così che noi leggiamo la vita di Gesù, per questo crediamo che lo chiamarono Figlio di Dio; per questo lo consideriamo come l'origine di una rivoluzione morale impensabile a partire dalla sola biologia. La mente umana ha questa qualità che molti chiamano agape e che appare in maniera ben nota in Gesù.

Questa apparizione di un agape universale e incondizionato, o, detto in altro modo, questa esumazione di tutta la realtà moribonda, la chiamiamo Resurrezione. Alcune persone dei nostri tempi usano altre parole: resilienza, superamento, ecc., ma nessuno si spinge ad applicarla a tutta la realtà. Un riscatto universale, l'esperienza che nulla si perde, è più speranza che miracolo. Credere in questo ristabilimento definitivo, e ripeto il termine “credere”, e non “sapere che verrà”, è l'unico modo di affrontare un passato perduto e avvistare un futuro volendo vivere, senza cadere nell'illusione. (…). La Resurrezione è l'esperienza permanente di rinnovamento nell'amore dato e ricevuto senza condizioni.

- Spazza via secoli di civiltà occidentale, di cultura e di governo

Non li spazza via ma, proprio al contrario, riconosce il valore di questa civiltà, l'assume e la supera. Come per altre civiltà, orientali, africane o amerindie. Nei cinque continenti, le credenze religiose hanno prodotto molto bene e parecchio male. La civiltà occidentale, costruita sull'oppressione, la repressione morale e persino fisica, la schiavitù, l'imperialismo, la devastazione del pianeta, ecc., non è – bisogna pur dirlo – una panacea, per quanto si debba riconoscere il progresso del diritto, del benessere (solo per alcuni in questo momento), della scienza, ecc. E in tutte queste aree il contributo della religione appare discutibile.

Il processo di umanizzazione ci sta conducendo a una maggiore autonomia e a una prospettiva differente dinanzi all'enigma dell'essere, della vita e della coscienza. Non ci soddisfa l'interpretazione religiosa intesa come verità unica e superiore, come lettera. Non crediamo in una realtà sdoppiata, in una dimensione soprannaturale, nella sottomissione. Crediamo, invece, nella divinità del reale, e nella fraternità incondizionata mostrata da Gesù di Nazareth come qualcosa di possibile tra di noi.

Invitiamo a fare uno sforzo per reinserire la religione nella cultura come una sovraetica, aiutando il nostro tempo a riconoscere la sua dignità ineludibile, a costruirla tra tutti. È questa la civiltà che vogliamo. E a questa possiamo arrivare non tramite il culto e un'organizzazione parallela rispetto alla società, ma attraverso una politica aperta, la virtù personale e l'esperienza di significati profondi nello stesso mondo in cui viviamo. Una cultura laica che non rinuncia ai suoi interrogativi e abbozzi di risposta, a nuovi simboli e a nuove poesie. Perché la poesia non è la lettera ma il sentimento che si trasmette. Perché la civiltà non sono le istituzioni dominanti ma il progresso che si ottiene in termini di libertà e di uguaglianza. Le storie religiose, la Bibbia e i Veda, le arti sacre, la filosofia e la teologia, ecc., non sono state inutili, bensì necessarie storicamente, ma bisogna reinterpretarle.

- I profeti o guide di questo movimento post-religionale non hanno consistenza teologica, né struttura o istituzione che gli diano continuità. Si diluisce in movimenti sociali assai variabili. Al contrario, la Chiesa e la dottrina cattoliche, come successione diretta di Gesù e malgrado i loro tradimenti,  hanno prevalso su altre istituzioni secolari

Effettivamente, la mentalità post-religionale si muove meglio in un mondo laico in cui non esistono istituzioni o autorità al di sopra del consenso democratico. È una sensibilità che sta nascendo, non ha una maturità sufficiente. È difficile abbracciare una teologia o antropologia liberatrice, in quanto esige una kenosis, uno svuotamento reale con tutte le sue conseguenze, come avvenuto al Gesù dei poveri. Tali conseguenze significano molte volte essere lasciati indietro, venire cancellati, subire l'oppressione, tanto più se si nega tutto il sistema religioso prodigo di riconoscimenti per i potenti e i benpensanti.

Vogliamo anche ricordare che in questi anni in cui tali nuove prospettive si stanno facendo spazio, non abbiamo potuto ascoltare alcuna osservazione o critica seria da parte delle grandi facoltà di teologia. In questo senso, questo articolo è un invito a criticarci (…), considerando che il cristianesimo della liberazione ha ricevuto ogni genere di critiche, soprattutto da parte del magistero e del dogmatismo ecclesiale. Il paradigma post-religionale, tuttavia, viene sempre più assunto dalla poca teologia che sopravvive, e soprattutto sta convergendo con molteplici movimenti tesi ad approfondire la dimensione umana, sociale e planetaria.

È la stessa Chiesa che ci ha formato perché si possa andare oltre, per costruire l'internazionale della speranza, il sacramento del Regno che non è solo la Chiesa cattolica. Il messaggio di Gesù è stato rinchiuso in una religione, quella giudaico-ellenica, in una dottrina, in un potere teocratico. Arriverà il momento in cui il Vaticano sarà la sede di una istanza di altissima moralità, di difesa dei diritti umani, di cura del pianeta, di comunicazione tra i popoli, del silenzio della speranza; casa dei poveri e di coloro che li difendono; una convenzione degli umanesimi e delle religioni per animare le istituzioni scientifiche, politiche, umanitarie...

- Al contrario, se ben interpretato, questo modello cristiano è quello di sempre con parole distinte (...)

Naturalmente. È quello di sempre, la risposta della libertà alle questioni che riguardano il senso della vita, l'uguaglianza di tutti gli esseri umani, la cura del pianeta, il valore della persona, i postulati della divinità, l'ansia di immortalità o il superamento delle angosce e delle paure. Ma (…) in chiave sovra-etica e simbolica. Qualcosa che c'è sempre stato, ma che abbiamo dimenticato.

Non si afferma categoricamente l'esistenza di un dio né si definisce la sua natura, ma si anela, si cerca, si postula. Anziché collocarlo in alto, non potendo superare il limite del linguaggio, si preferiscono espressioni plurali e parziali, meno in contraddizione con l'attuale mentalità. E così si parla del profondo del nostro essere o della dignità inesplicabile. Non si accetta il mistero della salvezza, ma si attinge alla sua intenzione di fondo di dare senso alla vita; non si accetta la bibbia come rivelazione di un'altra vita parallela a questa, e tanto meno unica, ma si riconosce l'invenzione di Dio e di una religione come una delle migliori creazioni della coscienza umana.

Si pone il punto di osservazione nella prassi dell'amore di Gesù di Nazareth, come sempre, ma constatando che ci troviamo dinanzi a una radicale metamorfosi del racconto tradizionale. Si prende come riferimento la grande rivoluzione di Gesù di Nazareth e la si interpreta in maniera distinta. Gesù di Nazareth sarà sempre un Gesù della fede – non quello di una storia oggettiva che non sappiamo come è stata in realtà – e un Cristo universale, non il Cristo unto e sacralizzato dalla teologia, dal dogma e dai rituali, bensì quello riconosciuto in tutti i tempi come l'espressione delle migliori e più universali aspirazioni umane.  

- In ogni caso l'importante non è come interpretiamo il cristianesimo e sotto quale paradigma, ma come viviamo il suo annuncio evangelico

Effettivamente è così; e in questo esiste un sentire comune molto diffuso. (…). Il Vangelo deve essere credibile e pertanto comprensibile, e in un doppio significato: perché noi si sia fedeli a ciò che ha detto e fatto Gesù e perché il suo messaggio si adatti agli ascoltatori. Il che vuol dire che deve unire una sincera sequela della persona e del progetto di Gesù di Nazareth e un'espressione dialogata e critica nelle forme anch'esse sincere della gente di ogni epoca. È in questo senso che va la nostra proposta di cambiamento di paradigma.

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