Dallo sviluppo sostenibile al Buen vivir
Tratto da: Adista Documenti n° 24 del 01/07/2017
Sono passati dieci anni dall’adozione della Dichiarazione Universale sui Diritti dei Popoli Indigeni. Pur rappresentando un passo importante verso il riconoscimento dei diritti di questi popoli, essa appare ancora troppo centrata su un concetto tutto occidentale: quello dello sviluppo. Nel suo Preambolo si legge che «il rispetto per la conoscenza, le culture e le pratiche tradizionali contribuisce allo sviluppo sostenibile e a una corretta gestione ambientale», riproponendo la visione dei popoli indigeni, ecologisti per eccellenza, quali meri gestori di risorse naturali e di servizi ambientali. Non c’è invece alcun riferimento a proposte culturalmente alternative come il concetto ancestrale di sumak kawsay, tradotto dal quechua come Buen vivir, elaborato dai popoli andini, ma ripreso e attualizzato da altri popoli indigeni e popolazioni tradizionali (quelle che occupano tradizionalmente il territorio in cui vivono e hanno con esso un rapporto vitale) per indicare un nuovo modo di vivere conviviale, rispettoso e armonico.
Popoli che di fatto pagano il prezzo più alto del modello di sviluppo vigente, perseguito da governi di destra come di sinistra, che li espellono con la forza dai territori che appartengono loro per far posto a miniere a cielo aperto, pascoli e monoculture da esportazione, a mastodontici progetti di “integrazione” infrastrutturale ed energetica e persino a parchi nazionali. In Brasile, sono stati recentemente proprio i governi democratico-progressisti di Lula prima e Dilma Rousseff poi a firmare la condanna a morte di intere comunità umane e dei loro rispettivi habitat, il primo dando il via libera al progetto di trasposizione delle acque del fiume São Francisco e la seconda inaugurando, nel maggio del 2016, la centrale idroelettrica di Belo Monte. In quella occasione «guardandosi bene dal verificare di persona le conseguenze della costruzione della diga, la presidente aveva dichiarato solennemente: “Questa centrale ha le dimensioni di questo popolo. È grandiosa. (…). Voglio dichiarare che questa impresa di Belo Monte mi riempie di orgoglio per quanto ha prodotto in termini sociali e ambientali. Sono immensamente orgogliosa delle scelte che ho fatto, una delle quali è proprio la costruzione di Belo Monte come eredità per la popolazione brasiliana di questa regione, per il popolo di Altamira e per il popolo dello Xingu» (v. Adista Documenti n. 18/17). A seguito di questi processi di “de-territorializzazione” di cui sono vittima le comunità indigene e tradizionali, si sono realizzate negli ultimi due decenni le condizioni per la nascita di nuovi legami di solidarietà e nuove aggregazioni sociali tra soggetti portatori di interessi comuni che hanno guadagnato una crescente auto-consapevolezza: «Si è generata un’articolazione tra molteplici attori che, consapevoli di trovarsi di fronte ad antagonismi simili, avviano uno scambio tra le loro diverse forme di conoscenza. Si tratta dell’incontro tra diverse esperienze collettive che, auto-riproducendosi, generano un loro proprio discorso» (Mires F., El discurso de la naturaleza. Ecologia y politica en América Latina, San José de Costa Rica, DEI, 1990, p.144).
Già negli anni ‘80, Chico Mendes aveva dato vita all’Alleanza dei Popoli della Foresta con l’intento di riunire popoli indigeni, raccoglitori di caucciù e altre popolazioni “estrattiviste” come i caboclos ribeirinhos (pescatori artigianali), le quebraderas (spaccatrici) del cocco babaçu (palma da cui semi si estrae un olio commestibile utilizzato principalmente negli alimenti e nella fabbricazione di medicine naturali e saponi), raccoglitori (piaçabeiros) o artigiani delle fibre naturali, açaiceiros (raccoglitori del frutto della palma açai) e quilombolas (discendenti degli schiavi africani i cui antenati scapparono dagli ingeños di canna da zucchero per formare i quilombos). Termini e denominazioni di uso locale, determinati da precisi criteri ecologici, etnici, di genere, di religione, si combinano con altre categorie di circostanza, oggettivandosi in movimenti sociali, come quello delle vittime delle dighe (MAB), o quello che si oppone alla presenza di basi missilistiche (come quella di Alcântara nel Maranhão), fino al più recente movimento degli expulsados o “removidos (espulsi) por Belo Monte” e quello “dos atingidos e atingidas (vittime) pela Vale” (nel novembre 2015, il crollo di un bacino di lagunaggio minerario controllato dalla Samarco Mineração S.A., una joint venture tra le principali imprese minerarie del mondo, tra cui la Compagnia brasiliana Vale do Rio Doce, provocava nella sottostante valle di Santarém lo sversamento di 62 milioni di metri cubi di fanghi tossici e acque acide di origine mineraria investendo il villaggio operaio di Bento Rodrigues, nei pressi di Mariana, nello Stato di Minas Gerais).
Un fiume chiamato Chico, una palma chiamata madre
In una durissima lettera a Dilma, in occasione della sua visita ad Altamira, il Movimento Xingu Vivo lamentava la mancanza di “pietà” ed “empatia” nei confronti del popolo dello Xingu, sentimento che invece lega il popolo xinguano al fiume che ne garantisce la sopravvivenza e ai suoi spiriti encantados (spiriti delle religioni afrobrasiliane, protettori della foresta e dei fiumi, come Currupira, il Boto e la Cobra grande): «Oggi lei si è svilita a inaugurare la più nefasta delle opere del governo del Pt, quella che ha macchiato l'immagine del Brasile in tutto il mondo. Un'opera che lei ha ereditato dalle stesse menti malate che l'hanno torturata in prigione. Neppure così, Dilma, lei ha saputo mostrare clemenza nei confronti del nostro dolore. Neppure nel momento in cui sente sulla sua pelle cosa significa essere schiacciata da forze più grandi di lei, forze che non hanno il minimo senso della giustizia o della legge, è stata in grado di provare empatia nei nostri riguardi. Neppure ora, Dilma… Che gli Encantados abbiano pietà di noi, perché lei non ne è stata capace» (v. Adista Documenti n. 18/17).
Neanche il progetto di trasposizione del rio São Francisco ha tenuto in minimo conto la relazione di intimità che esiste tra gli abitanti del semi-arido e il “Vecchio Chico”, come il fiume viene chiamato affettuosamente: in una regione dove il fiume comanda la vita, spezzare la relazione che le popolazioni locali hanno con esso significa minarne le strategie di resilienza e cancellare la memoria collettiva che di tale relazione si è nutrita. Lo stesso rapporto identitario unisce le quebraderas (spaccatrici) alla palma da cui raccolgono il frutto del cocco babaçu, che non esitano a chiamare “madre”. Questa affettività deriva dal rapporto stabile che certi gruppi umani hanno creato con le terre che occupano tradizionalmente. Un ambiente unico, quello dei campos naturais, grandi acquitrini che si allagano nella stagione delle piogge e si seccano in estate, dove le donne praticano alternativamente l'estrazione del babaçu e la pesca. Donne che hanno, come afferma Dona Nice, del Movimento inter-statale delle quebraderas, «l'ombelico dei propri antenati sepolto» in terre dalle quali rischiano di essere allontanate per far posto ai pascoli. Concetto ribadito dall’antropologa Rita Segato: «Collettività significa che l'ombelico è all'interno della comunità e non fuori» (“O Bem viver e as formas de felicidade”, Brasil de fato, 2013). Di fronte a queste minacce, le donne si sono organizzate in un movimento che attualmente conta 400.000 aderenti in quattro Stati brasiliani (Parà, Maranhão, Tocantins e Piauì), dove la lotta contro la privatizzazione dei “campi naturali” diventa un’occasione per rivendicare la parità di genere ed espressione della loro crescente coscienza ambientale. Le quebraderas sono protagoniste di una vera e propria “guerra ecologica” che le oppone ai latifondisti che vogliono investire in pascoli, piantagioni di soia e altre monocolture (dendé, eucalipto, canna da zucchero). Negli ultimi anni le donne hanno conseguito varie vittorie, come la promulgazione di leggi municipali e statali che garantiscono il “libero accesso” alle palme del babaçu, anche se queste si trovano in proprietà private. La nozione ancestrale di sumak kawsay trova dunque la propria applicazione attuale, tra le popolazioni tradizionali organizzate in movimenti sociali, dall’Amazzonia al semi-arido brasiliano, nel concetto di Bom viver, che significa preservare quella rete di relazioni di empatia che fanno sentire l’individuo parte di una comunità vitale, capace di opporsi a qualsiasi progetto predatorio, di distruzione e di morte, che la politica e l’economia si ostinano a chiamare “sviluppo”.
* Silvia Zaccaria, antropologa, conduce da circa vent'anni ricerche sul campo tra i popoli indigeni dell'Amazzonia brasiliana. Già impegnata in progetti di cooperazione internazionale in America Latina, Africa sub-sahariana e Balcani, in Italia si occupa di educazione interculturale e alla sostenibilità. Tra le sue pubblicazioni, Guarani-Kaiowá. La nostra storia (Sinnos editrice, Roma, 2002) e La freccia e il fucile. L'Amazzonia nelle mire della globalizzazione (Emi, Bologna, 2003)
* Foto di Valter Campanato/ABr tratta da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza
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