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Violenza sulle donne. La corresponsabilità delle religioni

Violenza sulle donne. La corresponsabilità delle religioni

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 29 del 02/09/2017

Quando si dice “violenza sulle donne”, sovente si pensa a femminicidi, stupri, tratta connessa alla prostituzione, abusi sessuali, matrimoni precoci imposti e altre brutalità di tipo fisico. Essa è anche questo, indubbiamente; ma non è  solo questo. C’è una violenza che delle donne offende la dignità elementare, esistenziale, dell’ordine della sostanza della vita; agisce ancor più nel profondo, ed è più grave di quella fisica perché per molte è irriconoscibile quindi innominabile; così è assorbita dalla vittima che, appartenente a quel mondo, quasi mai ne coglie forme distinguibili: una violenza opaca, annichilente, subdola, immiserente, misteriosamente pervasiva (come quella straziante che vissero i bambini figli/e dei sopravissuti della Shoah), colpevolizzante le stesse vittime. È generata da una cultura a misura di un solo sesso (l’“Uno”): fallologocentrismo, l’hanno giustamente chiamato alcune filosofe; cultura che, sulla scia di tutti i colonialismi, rispecchia il dominante e nega il dominato, l’altro;  riveste se stessa d’aura di legittimità, razionalità, “legge di natura”, emanazione di volontà divina. Come tutti i colonialismi  agisce più sulla strategia del consenso, dell’omologazione, che non sulla forza o sull’esclusione fisica, a cui peraltro ricorre. Il suo impianto è intrecciato – più di quanto non si creda – al campo  delle religioni, tutte. Perciò, quest’ultime, fino a quando non ne assumeranno consapevolezza,   sono corresponsabili di queste iniquità. 

Questo il quadro; entriamo  ora in un ambito più definito. 

Quanti cristiani/e in Italia  sanno dell’esistenza di un appello  ecumenico contro la violenza sulle donne? Eppure ben dieci sono state le Chiese cristiane i cui  rappresentanti hanno apposto la loro firma (L’appello si trova sul sito http://riforma.it/it/articolo/2015/03/10/contro-la-violenza-sulle-donne-un-appello-alle-chiese-cristiane-italia). Da due anni il gruppo di Bologna del SAE (Segretariato Attività Ecumeniche) e la Fondazione Per Le Scienze Religiose Giovanni XXIII si impegnano su questo fronte. Da due anni, a maggio (quest’anno il 16), nella sala convegni della Fondazione, si svolge una Tavola rotonda interreligiosa dal nome «Violenza sulle donne e religioni: ne parlano le donne». L’anno scorso alla Tavola erano presenti: una rappresentante della Chiesa cattolica (Marinella Perroni), una della Chiesa battista (Gabriela Lio), una della tradizione ebraica (Maura de Bernart) e una della Casa delle donne per non subire violenza (Angela Romanin). Avevo condotto il confronto e Alberto  Melloni, in qualità di ospite dell’iniziativa, aveva introdotto. La  Chiesa valdese (Letizia Tomassone) e la comunità musulmana (Rassmea Salah) sono state le componenti religiose chiamate  quest’anno: Silvia Scatena (membro della Fondazione) ha condotto i lavori, a cui prendevano parte, inoltre, Piero Stefani (presidente SAE) e la sottoscritta. 

Piero Stefani ha aperto l’incontro quest’anno con una riflessione intorno alle memorie dell’ebrea Glückel Hameln: nei suoi scritti, ella rievoca in modo trasfigurato le vicende di Tamar – 2Sam13:1-38 – figura biblica  che subì uno stupro ad opera del fratellastro, e che fu poi indotta a tacere, per “onore della famiglia”. Stefani ha sottolineato quanto la famiglia emerga come luogo per eccellenza apparentato a questo crimine, che si dissimula nel mascheramento. Commentava opportunamente, infine, che sono gli uomini il vero soggetto chiamato in “giudizio”  di questo dramma. 

Nel solco dei cinquecento anni  della Riforma, Letizia Tomassone ha restituito la memoria di donne della Riforma; tra queste Marie Dentière, che nei suoi  scritti denunciò la preclusione dei pastori alla predicazione delle donne. Essa riaffermò la vocazione delle donne a dire e a vivere quella libertà di cui il Vangelo è portatore. In Italia, il ministero  alle donne evangeliche è arrivato nel 1962. Fino ad allora, esse  erano autorevoli solo di riflesso, in quanto moglie o figlia del pastore. Tomassone ha poi continuato con un’analisi del fenomeno della violenza contro le  donne a partire da parole chiave. La prima è “silenzio”. L’ ingiunzione al silenzio (come nel caso di Tamar sopra ricordato) si è impressa nel cuore delle donne, che l’hanno tragicamente introiettata. “Vergogna” è la seconda parola. La vittima si sente colpevole, perde l’autocomprensione di sé come donna integra. “Complicità”, terza parola chiave, è nodo complesso, tutto interno allo psichismo maschile. Quando Gesù, nel passo della lapidazione dell’adultera, tace,  offre un esempio di maschio che si sottrae alla complicità pervasiva diffusa tra gli accusatori presenti. “Croce”, il cristianesimo ha usato la Croce per indurre le donne alla sopportazione. Se è vero che Gesù accetta la croce, non bisogna dimenticare che era maschio, rabbi, uomo libero. Le donne, invece, si trovano per lo più senza autorità. La pratica della nonviolenza per i deboli e per i forti non funziona allo stesso modo: i forti debbono abbandonare la loro forza, ma i deboli debbono acquisire la loro dignità

Il pregiudizio che le donne musulmane siano tutte sottomesse – ha esordito la rappresentante della religione islamica, Rassmea Salah – è molto radicato. Non si sa che la rivelazione coranica ha introdotto molte innovazioni a favore delle donne. Ha poi ricordato Amina Wadud, teologa, un esempio di studi fecondi di ermeneutica femminista. L’islam non ha bisogno di femminismi, ma le musulmane sì, perché nelle società la parola di Dio non sempre viene predicata così come è scritta. Il problema dell’islam non è la religione, ma è la presenza degli uomini musulmani i quali, ad esempio, strumentalizzano il velo.

Nel mio intervento ho esordito con le parole «Ecumenismo è donna», volte ad argomentare  come l’ecumenismo – e il dialogo interreligioso – sia profondamente coniugato al pensiero dell’area dei femminismi. Le ragioni non sono solo episodiche. Le connessioni sono riconducibili a ragioni intrinseche e a ragioni estrinseche. Per la prima tipologia, si sono ripresi alcuni punti del discorso di Papa Francesco al Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei cristiani (10 novembre 2016): «L’unità non è uniformità […]; l’unità non è assorbimento […]; l’unità, prima che traguardo, è cammino». Le tre espressioni potrebbero essere ascritte al patrimonio della cultura delle donne; ed innumerevoli sono le convergenze che la relatrice ha evidenziato.   Passando poi alle esperienze fattuali, ho osservato quanto sia  improntato ad uno spirito ecumenico il lavoro concreto che le donne appassionate di spiritualità e teologia stanno tessendo insieme. Sebbene le Scritture siano impregnate di androcentrismo, le donne non rinunciano ai doni offerti dalla Ruah-Spirito, che nella rivelazione si consegnano. Li stanno disseppellendo sempre più dalla crosta sessista: Ruah-Spirito è forza liberante,  energia vitale donata a tutte/i.  Per quanto riguarda le esperienze ecumeniche a livello internazionale, si è  ricordata l’ iniziativa attuale del CEC: le 16 giornate di  mobilitazione contro la violenza sessista, dal 25/11/ al 10/12 di ogni anno. E l’importante “Decennio ecumenico delle Chiese in solidarietà con le donne” (1989-1999), tappa  decisiva in questo campo. 

Ritengo che il progetto di un osservatorio volto alle ricadute dell’appello sarebbe strumento utile per stimolare le realtà ecclesiali a sensibilizzarsi su questo importante documento, a promuoverne la riflessione, a diffonderlo nella preghiera. 

Dirigendosi  verso la conclusione dell’incontro, Piero Stefani,  con una notazione di genere molto pregnante, rilevava che, come poco prima erano state enucleate parole-chiave da una prospettiva femminile, così lo si  dovrebbero fare anche dalla prospettiva maschile e questo compito, urgente, spetta agli uomini.  Parole benedette! 

* Paola Cavallari è referente del SAE di Bologna, membro del Coordinamento Teologhe Italiane

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