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Dopo il voto sulla legge elettorale. Populismi e democrazie

Dopo il voto sulla legge elettorale. Populismi e democrazie

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 39 del 11/11/2017

Negli ultimi giorni alcuni avvenimenti hanno fatto fibrillare la politica nel nostro Paese. Fra accese proteste, autorevoli critiche, deboli difese e imbarazzanti silenzi è stata dalle Camere approvata una legge elettorale che ci consegnerà un Parlamento in larga parte composto da “nominati” dalle segreterie di partito, col parametro della obbediente fedeltà come requisito prevalente su ogni altro titolo. Una legge segnata da molte incongruenze fra le quali brilla di malinconica luce la scelta di introdurre uno squilibrato sistema misto uninominale e proporzionale con un meccanico trascinamento degli effetti del voto dall’una all’altra opzione (escluso il voto disgiunto) che mortifica la libertà di scelta dell’elettore ed espone la nuova normativa al rischio di una ennesima censura della Corte Costituzionale. Una legge che è stata frettolosamente approvata strozzando col voto di fiducia il dibattito parlamentare, che persegue scopertamente l’obiettivo di favorire alcune forze politiche a danno di altre, che è stata varata a fine legislatura contro una precisa raccomandazione europea (rendendo impossibile l’intervento correttivo della Corte Costituzionale prima della consultazione popolare) e che difficilmente potrà assicurare la cosiddetta “stabilità”.

«Non mi riconosco più nel merito e nel metodo di questo PD. Assisto a comportamenti che imbarazzano le istituzioni e ne menomano la credibilità e l’indipendenza. Non mi riconosco nemmeno nelle sue prospettive future». Con queste amare parole il Presidente del Senato Pietro Grasso si è dimesso dal Partito Democratico e ha aggiunto che se non fosse stato Presidente del Senato non avrebbe votato né la legge elettorale e neppure la fiducia al governo. E non basta, perché il varo del Rosatellum non ha trovato molti difensori fra i più autorevoli esponenti della classe politica e dello stesso PD e, quando ne ha trovato qualcuno, lo ha scoperto trincerato esclusivamente dietro l’esigenza di armonizzare la divergente disciplina elettorale fra Camera e Senato per come risultata a seguito delle pronunce della Consulta: un obiettivo che si sarebbe potuto raggiungere con un semplice ritocco di quella normativa. Sul versante della politica economica c’è stata poi la mozione del PD approvata dalla Camera che critica duramente il governatore della Banca d’Italia Visco (critica legittima ma inopportuna per le conseguenze negative che potrebbe avere nei rapporti con le autorità europee) e che ne chiedeva la sostituzione con «una figura idonea a garantire nuova fiducia nell’Istituto»: una vera e propria invasione (rimasta senza successo) nel campo delle prerogative del Presidente del Consiglio e del Capo dello Stato.

A fronte di questi accadimenti c’è da chiedersi se l’accusa di populismo, inteso oggi nel significato denigratorio di inconcludente e rischiosa demagogia, che il PD e Forza Italia a torto o a ragione rivolgono ad altre forze politiche, non possa essere anche a tali partiti indirizzata con eguale grado di attendibilità. Il fatto è che, dopo avere utilizzato negli ultimi vent’anni pretese contrapposizioni o settoriali conflitti per distogliere l’attenzione di milioni di cittadini dalla vera causa delle crisi che si susseguono provocando disoccupazione e disuguaglianze, il capitalismo neoliberista ha strumentalmente trovato un nuovo “nemico pubblico numero uno” nel populismo. Un nemico, a ben guardare, da esso generato e che con esso, nelle sue apparentemente contrastanti espressioni, finisce per identificarsi. Una minaccia che viene utilizzata per allargare il fronte delle forze chiamate a spegnere tutte le possibili resistenze reattive. Una tesi non tanto peregrina ove si consideri che il massimo esponente planetario del populismo è proprio l’iperliberista Trump e che accesi neoliberisti sono indubbiamente i diversi leader populisti dei Paesi europei.

Occorre allora convincersi che il populismo, quale utile strumento del turbocapitalismo neoliberista, va individuato e smascherato ovunque si annidi per metterne in luce l’effettiva natura e impedire che esso costituisca un serio pericolo per la democrazia. Una minaccia particolarmente insidiosa nella stagione che stiamo vivendo considerata la vigilia di una futura “società digitalizzata” con la capillare diffusione dell’impiego di robot autonomi e di nuove forme di automazione intelligente. Il rischio è che un’economia sempre più automatizzata, lungi dal segnare il superamento dell’attuale sistema verso forme di convivenza più libere e più giuste, consenta a quella élite che la guida oggi e che certamente continuerà a guidarla domani di rafforzare i suoi poteri di controllo e di indirizzo delle coscienze e degli orientamenti dei cittadini-consumatori aprendo la strada a regimi sempre più autoritari. Ne sono consapevoli, fra i tanti studiosi in materia, il giornalista economico inglese Paul Mason (Postcapitalismo, il Saggiatore, 2016) e il sociologo italiano Mauro Magatti (Cambio di paradigma, Feltrinelli, 2017) per i quali tuttavia la nuova rivoluzione delle tecnologie informatiche può avere, se vi sarà una riscossa partecipativa dal basso, uno sbocco positivo.

Di grande attualità si rivela, al riguardo, quanto diceva Alcide De Gasperi nel discorso tenuto al secondo congresso nazionale della Dc, svoltosi a Napoli il 17 novembre 1947: «La democrazia non è semplicemente uno Statuto ma è soprattutto un costume di popolo, un regime che esige addestramento e vigilanza continua… Ogni giorno è necessario riconquistare la democrazia dentro di noi contro ogni senso di violenza, fuori di noi con l’esperienza della libertà». Parole illuminanti pronunciate mentre stava nascendo la nostra Costituzione che è agli antipodi del “pensiero unico” e di tutti i populismi. Costituzione che va attuata per fare in modo che la nostra democrazia, recuperando i valori del Risorgimento e rilanciando quelli della Liberazione, possa imboccare la strada di una profonda “rigenerazione” morale e politica. 

 * Michele Di Schiena è presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione

* * Parte dell'immagine di copertina del libro di Mauro Magatti Cambio di paradigma. Uscire dalla crisi pensando il futuro, Feltrinelli 2017 

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