
Referendum sulle autonomie. La secessione dietro l’angolo
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 39 del 11/11/2017
Ci sono diversi equivoci nei referendum che si sono tenuti lo scorso 22 ottobre in Lombardia e Veneto. Innanzitutto riguardo al vero obiettivo che si sono proposti di raggiungere. Entrambi hanno riguardato l’“autonomia” ma in un modo che può implicare, in realtà, la secessione. Le dichiarazioni dei presidenti leghisti delle due regioni, subito dopo il “trionfo” dei Sì, lo confermano. Entrambi hanno infatti affermato che intendono mantenere sul territorio regionale la gran parte delle tasse in esso raccolte. Ma la Costituzione non prevede la materia fiscale fra le competenze delle regioni a statuto ordinario. Per realizzare l’obiettivo indicato dai due presidenti occorrerebbe dunque cambiare la Costituzione, cosa per nulla semplice. Quale maggioranza, infatti, appoggerebbe questa riforma in Parlamento? Se anche tutte le Regioni che hanno un residuo fiscale “positivo” la sostenessero, chiedendo la stessa competenza anche per sé, è improbabile che si raggiungerebbero le condizioni per la revisione della Costituzione, mentre sarebbe abbastanza sicura la disgregazione del Paese. Mantenendo questi obiettivi, la trattativa che si dovrà aprire tra le due Regioni e il governo per attuare l’autonomia è destinata a fallire in partenza. Il sottosegretario Giancarlo Bressa, che dovrà gestirla per conto del governo, ha già dichiarato irricevibile la richiesta di Lombardia e Veneto.
Anche le competenze in materia di sicurezza, immigrazione e ordine pubblico, rivendicate da Maroni, essendo materie esclusive dello Stato, non sono trasferibili. Solo apparentemente a sorpresa, poi, Zaia ha aggiunto la richiesta di trasformare il Veneto in una Regione a statuto speciale, come le cinque previste dalla Costituzione. Anche questo è un obiettivo “legalmente” irrealizzabile. Se si pensa, poi, che Zaia ha rivendicato sovranità anche sulla politica industriale (come pensare che una Regione sia in grado di svilupparne una, quando la politica industriale si gioca ormai in una dimensione transnazionale?) e che Maroni vuole avocare a sé la ricerca (come può competere la Lombardia con i 396 miliardi di dollari investiti nel 2016 dalla Cina in questo campo?), appare evidente che si sta tentando di strumentalizzare il voto espresso, creando aspettative irrealizzabili. Solo quanto previsto dalla Costituzione (le venti materie indicate negli articoli 116 e 117) può essere “legittimamente” richiesto, come sta facendo l’Emilia Romagna senza essere ricorsa ad alcun referendum. Questa Regione, seguendo il percorso “legale”, ha tra l’altro la fondata possibilità di concludere positivamente col governo il trasferimento di competenze in tempi brevi.
Viene quindi naturale pensare che, come si accennava all’inizio, il vero obiettivo non confessato dei referendum di Lombardia e Veneto non sia l’“autonomia” ma la secessione. Non ha dubbi, a tal proposito, Marco Olivetti che il 24 ottobre ha scritto su Avvenire che trattenere a livello locale la quasi totalità delle entrate fiscali percepite sul territorio regionale«è una dichiarazione unilaterale di secessione in tutto fuorché nel nome”. Lo stesso ha dichiarato anche Giancarlo Bressa, definendo la richiesta di autonomia speciale del Veneto (tradotta il giorno dopo il referendum dalla Giunta regionale in una proposta di legge, evidentemente già pronta da tempo) «un’operazione pre-secessionista».
Le dichiarazioni dei due presidenti, in particolare quelle di Zaia, non sono eccessi prodotti dall’euforia del risultato referendario, né “battute” fatte per “calmare” la parte più accesa della propria base. Rivelano invece un’intenzione precisa. Lo dimostra il fatto che, assieme al referendum che si è svolto domenica 22 ottobre, il Veneto ne aveva presentati anche altri, previsti da leggi regionali del 2014 e bocciati dalla Corte costituzionale, uno dei quali chiedeva proprio l’indipendenza della Regione.
Di fronte a tutto questo, poteva per lo meno essere più “prudente” il patriarca di Venezia Francesco Moraglia che, a poche ore dal voto, è intervenuto nella campagna referendaria esprimendo un giudizio completamente positivo sul referendum stesso. Sono «consultazioni che si svolgono nel rispetto della Costituzione» ha dichiarato, «in uno spirito autentico di comunione nazionale… possono aiutare a far crescere la spinta alla sussidiarietà e al bene comune dell’intera comunità locale e nazionale», precisando comunque che autonomia non significa separazione. Dopo le dichiarazioni di Zaia, successive al voto, ha dovuto ribadirlo, aggiungendo che la consultazione non deve prendere la deriva del secessionismo. Qui si apre un altro campo di riflessione, che meriterebbe di essere approfondito, e che riguarda la Chiesa del Veneto in cui esistono vescovi e parroci apertamente schierati con la Lega.
Insomma, tra gli equivoci, le contraddizioni e le ambiguità del processo che si è avviato coi referendum, può prevalere la linea secessionista, e a questo va fatta attenzione. Essa è da sempre presente nelle posizioni della Lega, che la proclama tuttora esplicitamente nell’articolo 1 del suo statuto. Un Nord “autonomo” può allontanarsi dal resto del Paese, soprattutto se all’esito del referendum si sommasse, come è possibile, un risultato elettorale alle prossime politiche che lo consegnasse massicciamente alla guida della Lega stessa. È già accaduto negli anni ’90. Ma rispetto a quel tempo lo Stato centrale appare molto più debole.
In realtà, il vero quesito non era scritto: è la questione della forte “insoddisfazione” della gente per l’attuale stato di cose. Ha avuto una risposta corale. Questa spallata va compresa, interpretata e vi si deve dare risposta positiva. Ma per farlo, occorrerebbe aprire finalmente un serio processo di riforma federale dello Stato, senza il quale quella spallata potrebbe avere, forse addirittura facilmente, effetti disgregativi del tessuto civile e istituzionale del Paese. Sembra, tuttavia, che oggi manchino del tutto le condizioni politiche per avviare quella riforma. Tra l’altro, sono troppo conflittuali i rapporti tra le forze politiche, troppo diversi i loro “progetti”, troppo divaricate, spesso, le posizioni al loro interno.
Quest’ultimo aspetto vale anche per la Lega, e i referendum lo stanno evidenziando. Cosa resterà, dopo di essi, del progetto salviniano di un partito nazional-sovranista? Salvini ha finto di cavalcare il referendum. In realtà lo ha subìto. Il successo di Zaia costituisce oggettivamente un ridimensionamento delle sue ambizioni di leader del centrodestra, aprendo una forte competizione interna alla Lega Nord. Non per niente è stato costretto a proclamare che la trattativa dei due presidenti si svolgerà nel rispetto della legalità costituzionale, e a imprimere un’accelerazione al suo progetto, decidendo di togliere dal simbolo con cui la Lega si presenterà alle prossime elezioni politiche la parola “Nord”. Ma questa decisione ha già scatenato la reazione del vecchio Bossi e dei leghisti lombardo-veneti legati al progetto originario del movimento. Proprio ad essi intendono riferirsi Maroni e Zaia, con quest’ultimo oggi in posizione molto più forte del primo, grazie al risultato referendario. E Zaia è quello dei due che sta esprimendo le posizioni più radicali, proprio quelle che saranno presumibilmente rafforzate dalla stessa ricomposizione del centrodestra. Per non farsi assorbire dal “moderatismo” di Berlusconi, infatti, la Lega sarà spinta a rafforzare il tema autonomistico nella sua forma più radicale, cioè secessionista. La “trattativa” vera, tra l’altro, sarà non con l’attuale governo, ma con quello che uscirà dalle prossime elezioni. Se dovesse essere di centro-destra, con la Lega in posizione di forza (anche ammesso che non riesca ad avere più voti di Berlusconi e, quindi, a pretendere il premierato) la spinta centrifuga dell’anima “secessionista” diventerebbe ancora più consistente. Come altrimenti rispondere, infatti, alle domande di una base che pretende il massimo dell’autonomia, cioè quella fiscale?
* Paolo Bertezzolo è autore di articoli e saggi, ex insegnante di storia e filosofia e dirigente scolastico, autore del libro Padroni a Chiesa nostra. Vent’anni di strategia religiosa della Lega Nord (Emi, 2011, v. Adista n. 48/11)
* * L'udienza accordata dal doge di Venezia nella sala del Collegio nel Palazzo Ducale, serie "Le solennità dogali" di Francesco Guardi, olio su tela 1775-1780, tratta da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza
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