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Informarsi e cambiare il mondo

Informarsi e cambiare il mondo

Tratto da: Adista Documenti n° 44 del 23/12/2017

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Per chi vive nel mondo della scienza, è difficile che passino giorni senza che ci sia qualche nuovo articolo a stuzzicare la nostra curiosità, a mostrare qualcosa di inaspettato e ad affascinarci. Ma la domanda più grande che sempre ci si pone è cosa fare di queste scoperte. Come fare per trasmetterle ai governanti, in modo che assumano decisioni illuminate, o come mettere pressione a quegli stessi governanti affinché prendano provvedimenti. Sono domande di non poco conto, e la storia recente ci offre vari casi illuminanti.

La Exxon e i cambiamenti climatici

Come certo si ricorderà, al summit del clima di Kyoto del 1997 si decise di diminuire, a livello planetario, le emissioni di CO2 in atmosfera. In un primo momento anche gli USA erano d’accordo nel firmare e ratificare questi accordi. Sembrava scontato: poiché la scienza mostrava che gli equilibri climatici stavano cambiando, se tutte le nazioni si fossero impegnate a fare del loro meglio, forse si sarebbe potuto cambiare rotta. Facile no? Tutti assieme, visto che il pianeta è di tutti.

Poi iniziarono le campagne mediatiche dei petrolieri, prima fra tutti la Exxon Mobil. E gli USA uscirono da Kyoto. Ma un passo indietro è d’obbligo.

Nel 1990 uno degli investitori della Exxon, in una riunione di azionisti, aveva posto il problema dei cambiamenti climatici provocati dal nostro uso delle fonti fossili. La Exxon tranquillizzò tutti: avevano studiato le cose per bene e non c’erano problemi. I dati sui cambiamenti climatici non erano sufficienti a confermarli e dunque non c’era motivo di allarmarsi o di cambiare lo status quo.

La Exxon e i suoi scienziati, in effetti, avevano studiato i cambiamenti climatici per anni. Ma non per evitare che i ritmi naturali cambiassero, bensì per usare questi cambiamenti in modo tale da trivellare meglio e guadagnare di più. Il capo di uno dei reparti impegnati su questo fronte era Ken Croasdale, il quale ogni anno, fra il 1986 e il 1992, si recava negli uffici di Houston per presentare rapporti sui cambiamenti climatici. Sono sue queste parole pronunciate nel 1992: «Potential global warming can only help lower exploration and development costs in the Beaufort Sea». E mentre Croasdale spiegava questo nelle stanze segrete della Exxon, centinaia e centinaia di documenti interni, fra il 1980 e la metà degli anni 2000, dicevano che occorreva seminare dubbi e fugare le paure dei cambiamenti climatici fra la popolazione.

È stata la Columbia University e il suo Energy and Environmental Reporting Project, assieme al Los Angeles Times, a leggersi nel 2015 tutte queste carte, conservate presso l’Imperial Oil Collection e la Exxon Mobil Historical Collection.

La Imperial Oil, che è al 70% di proprietà della Exxon, aveva in realtà iniziato a trivellare in Artico, prima ancora della Shell, già negli anni ‘70. Ma aveva abbandonato tutto perché i costi erano proibitivi: venti forti, temperature rigide, difficoltà logistiche, ghiacci impenetrabili.

Il ragionamento della Exxon era semplice. Se ci sono i cambiamenti climatici, forse i costi e le difficoltà diventano minori. E forse ne varrà la pena. Ed è così che, fra la fine degli anni ‘70 e la metà degli anni ‘80, la Exxon si è dedicata alla questione, attraverso studi interni e consulenze con la Columbia University e il MIT. Nel 1979, per esempio, lo studente Steve Knisely aveva predetto che l’uso indiscriminato di fonti fossili avrebbe portato all’aumento delle concentrazioni di anidride carbonica nell’atmosfera da 280 ppm dei tempi precedenti alla rivoluzione industriale a 400 ppm nel 2010. E che per evitarlo si sarebbe dovuto lasciare l’80% delle fonti fossili nel sottosuolo. Era solo uno studente, ma aveva capito. Abbiamo raggiunto i 400 ppm di CO2 in atmosfera solo un po’ più tardi, nel 2016.

I cambiamenti climatici erano considerati veri da tutti gli scienziati che lavoravano per la Exxon. I documenti interni parlano di unanimità. Nel 1992 Croasdale predisse che tutto questo avrebbe portato alla diminuzione dei costi delle trivellazioni del 30-50%. Il suo gruppo arrivò alla conclusione che i ghiacci del Beaufort Sea dell’Alaska nel giro di pochi anni si sarebbero sciolti per tre o anche cinque mesi l’anno, invece che per due, rendendo più lunga la finestra di tempo utile per trivellare Artico. E infatti in Alaska, dal 1979 ad oggi, la stagione di scioglimento dei ghiacci si è allungata di 79 giorni, due mesi e mezzo.

Altri petrolieri decisero di seguire le orme della Exxon, e di cercare di capire meglio i cambiamenti climatici per proteggere e promuovere i propri affari. Ma poi anche tutti gli altri scienziati, quelli non al soldo dei petrolieri, cominciarono a studiare.

La scienza indipendente iniziò a parlare di cambiamenti climatici verso la fine degli anni Ottanta. Nel 1988 l’ONU creò il suo primo Intergovernmental Panel on Climate Change. E poi nel 1997 arrivò Kyoto, con l’idea di accordi concreti a livello globale.

E così, negli stessi giorni di Kyoto, la MobilOil, adesso fusasi con la Exxon, comprò della pubblicità sul New York Times e sul Washington Post, scrivendo a caratteri cubitali che la scienza dei cambiamenti climatici era “troppo incerta” e che le restrizioni di cui si parlava nella lontana Kyoto avrebbero portato a un crollo nell’economia mondiale.

Intanto, anche se con ritardo rispetto alla Exxon, anche la MobilOil si era data da fare, costruendo una serie di piattaforme speciali nel nord del Canada resistenti ai cambiamenti climatici. Per anni i petrolieri si erano portati avanti, perfezionando i loro progetti in silenzio – come il progetto Troll, nei mari del Nord, un mostro della Shell di 30 metri di altezza, una piattaforma da film dell’horror per far fronte all’innalzamento del livello delle acque – e spendendo miliardi di dollari per adeguare le loro infrastrutture. Ma dopo Kyoto si impegnarono in una incessante propaganda mediatica, creando un consorzio collettivo, “Global Climate Coalition”, per dire che non c’era niente da temere.

Una volta morta Kyoto, il Global Climate Coalition pian piano si sciolse. Il lavoro era stato fatto: gli USA non avrebbero firmato Kyoto, il pubblico non credeva ai cambiamenti climatici e loro potevano tornare a fare quello che avevano sempre fatto: trivellare.

Da allora sono passati 25 anni. Tutte le previsioni della Exxon sono ancora valide. Alcune si sono già avverate. L’aumento delle temperature in Artico è stato di tre-quattro gradi centigradi, mentre nel resto del pianeta è stato di 0.85 gradi centigradi. Croasdale fa ancora il consulente per la Exxon.

La barriera corallina dell’Australia

Nell’ottobre del 2016 ci furono vari episodi di sbiancamento lungo la barriera corallina d’Australia. Il corallo che aveva formato una catena di più di 2.300 chilometri nel corso di 25 milioni di anni improvvisamente era diventato bianco. Quello del 2016 è stato il peggior episodio di “sbiancamento” delle barriere coralline mai registrato, seguito poi da altri casi quasi altrettanto gravi nel 2017. La realtà è che metà della più grande barriera corallina del mondo, la maggiore struttura vivente del pianeta, potrebbe non farcela.

I coralli sbiancano a causa dell’aumento della temperatura del mare, considerando che gli oceani assorbono il 93% del calore generato dall’effetto serra sul pianeta. I coralli sono particolarmente sensibili alla temperatura dell’acqua in cui vivono. Anche aumenti modesti portano alla morte delle alghe che danno colore e nutrimento ai coralli: le zooxanthellae. Il colore scompare, i coralli diventano bianchi e più esposti alle malattie e alla morte.

Inoltre, con i cambiamenti climatici, la combinazione tra i delicati equilibri di salinità, temperatura e correnti marine che rendeva possibile la riproduzione dei coralli lungo i 2300 chilometri di barriera corallina è saltata. E così la barriera non si riproduce, gli episodi di “sbiancamento” non vengono contrastati con nuova vita. E con essa scompare tutta la biodiversità che ospita, visto che un quarto di tutte le specie marine sul pianeta vive in simbiosi con gli habitat generati dai coralli: 1.625 specie di pesci, 3.000 specie di molluschi, 450 specie di coralli, 220 specie di uccelli e tartarughe, 30 specie di balene e delfini.

Ce la faranno i coralli a ritornare alla normalità? I più pessimisti dicono di no. Secondo l’oceanografo Mark Eakin, i coralli sono delicati e le continue martellate da parte dell’essere umano – queste le sue parole – non lasciano presagire niente di buono.

Intanto, l’Australia ha fatto pressioni sulle Nazioni Uniti affinché la grande barriera corallina fosse rimossa dai siti UNESCO in pericolo, per “salvare il turismo”. E cosi, il 17 maggio 2016 il dramma della barriera corallina morente è stata cancellata da tutti i documenti ufficiali dell’UNESCO.

Nel novembre 2016 si è pensato a un trattamento sperimentale di rigenerazione. Il professor Peter Harrison, con il suo gruppo della Southern Cross University, ha preso uova e sperma dei piccoli coralli e li ha fatti accoppiare e crescere artificialmente in un’area di ricerca marina, la Heron Island Research Station. Il risultato è stato un milione di larve di corallo, poi riapplicate sul corallo sbiancato con la speranza che potesse attecchire e riportare vita. Dopo un anno, nel novembre del 2017, il professor Harrison è tornato lungo la barriera corallina per vedere cosa fosse successo. I risultati, per lo più, sono stati positivi: i coralli giovani sono riusciti ad attecchire e a colonizzare quelli sbiancati.

Secondo Harrison, l’esperimento si può ripetere in scala anche in altri segmenti della barriera corallina d’Australia e del mondo, ma tutto è ancora da studiare, considerando che questo è solo un esperimento a breve termine e geograficamente limitato. Per esempio, non si sa quale possa essere la resistenza di questi nuovi coralli a futuri cambiamenti di temperatura e se sopravvivranno ad altri sbalzi più o meno pronunciati. Il monitoraggio continuerà.

L’isola di Vieques

Ho tre ore di tempo per parlare agli studenti del mio corso di sostenibilità dell’uso di fonti fossili e dei problemi che comportano. Ho tenuto questa lezione ormai tante volte. Lo faccio per amore, non sono obbligata, ma, considerato che ho imparato tanto in questi anni sui combustibili fossili, mi pare giusto condividere quello che so e discuterne con gli studenti.

Durante la presentazione parlo del fracking, delle sabbie bituminose, della Nigeria. Parlo delle Cancer Alleys in Louisiana e in California. Parlo del nostro consumo sfrenato di petrolio, della vita intorno a una raffineria. E poi domande, commenti, discussioni. È sempre molto stimolante sentire cosa hanno da dire i ragazzi.

Tutto questo però oggi non si può fare. Perché è venuto nel nostro campus il prof. James Porter, che ci darà una lezione sulle armi da guerra a Porto Rico e sui loro effetti sulla natura. Mi dicono che devo portarci tutta la classe. Ci vado un po’ di malavoglia, immaginando una noiosa lezione accademica.

E, invece, dopo 5 minuti, vengo completamente conquistata da questo signore di 50 anni, per la sua innocenza, per l’onestà con cui dipinge il nero come nero e il bianco come bianco, per la sua pulizia morale, per i suoi ideali.

Alla fine degli anni ’90 il governo di Porto Rico – un protettorato USA – chiede a Porter, esperto di barriere coralline, di fare delle ispezioni sui coralli dell’isola di Vieques, un’isola di 7.000 abitanti usata per circa 60 anni dalla marina USA per le esercitazioni navali ed aeree.

L’accordo fra il governo USA e Porto Rico prevedeva che la barriera corallina di Vieques, fra le più straordinarie del continente americano, non sarebbe stata bombardata. Il governo di Porto Rico, dopo 60 anni, voleva solo accertarsi che fosse vero.

Porter trova la barriera corallina in uno stato penoso. Scopre bombe esplose e non esplose, proiettili e liquidi esplosivi sui fondali. Scopre concentrazioni elevatissime di arsenico, di benzene e di altre sostanze tossiche per il mare e per i coralli. Scopre anche cartine dell’esercito USA che mostrano chiaramente come la barriera corallina fosse un target delle esercitazioni. Quindi presenta il suo rapporto alle autorità portoricane.

Il suo lavoro ufficiale doveva finire qui. E, invece, era solo l’inizio. Non poteva lasciare la sua opera a metà. Sentiva la responsabilità di aggiustare l’aggiustabile.

E così scopre che tutte queste sostanze tossiche sono presenti non solo in acqua, ma anche nei campi e nei corpi delle persone. E infatti i cittadini di Vieques hanno i tassi di tumore più elevati di tutte le isole dei Caraibi. Inizia allora il suo nuovo lavoro, non da scienziato, ma da attivista. Scrive, denuncia, va in televisione. È un lungo tira e molla, ma, alla fine, nel 2005, il governo USA accetta di fermare le esercitazioni belliche su Vieques.

Ma il suo lavoro non è ancora finito. Anche se le esercitazioni sono ferme, le vecchie bombe sono ancora lì, a scaricare materiale tossico nel mare. E allora Porter va dai suoi colleghi di ingegneria e costruisce un prototipo meccanico, un robot, per identificare e raccogliere tutti questi rimasugli bellici sul fondo del mare, caricarli sulle navi e portarli via. Secondo le sue stime ci vogliono al massimo 2 milioni di dollari per ripulire il mare di Vieques. Anche se Obama si era preso l’impegno di iniziare le operazioni di pulizia, è ancora tutto fermo. Ma lui non demorde.

La testardaggine di una persona sola che riesce a fermare i bombardamenti militari USA a Porto Rico, un’isola che non è nemmeno la sua, è una storia che trasmette un senso di speranza, la speranza che non tutto sia perduto su questo pianeta.

Alla fine dice ai ragazzi: fate tesoro delle cose che imparate qui e cambiate il mondo. Arriva un momento in cui uno deve lasciare la comodità della vita accademica e usare le cose che si sanno per tutto il resto del pianeta. Ci dice che occorre «become the boxer if you have to». Alla fine, gli sono andata vicino e l’ho ringraziato. E poi siamo andati in classe, per l’ultima ora che era rimasta con gli studenti. Invece della presentazione di 3 ore che avevo già preparato, ho tirato fuori una presentazione vecchia della storia del Centro Oli d’Abruzzo, gliel’ho raccontata, gli ho fatto vedere un po’ di foto di Punta Aderci e della costa teatina e del lago di Bomba e delle vigne, e per un po’ mi sono sentita boxer anche io.   

Maria Rita D'Orsogna è fisico, docente universitario, attivista ambientale, nata e cresciuta nel Bronx, vive e lavora a Los Angeles, ma è attiva anche nella difesa dell'ambiente in Italia, dove si è particolarmente impegnata nella lotta contro il progetto petrolifero dell'Eni in Abruzzo. Collaboratrice di Comuneinfo, tiene anche il blog dorsogna. blogspot.it 

 

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