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Teologia della Liberazione in Europa: nuove sfide, stessa urgenza

Teologia della Liberazione in Europa: nuove sfide, stessa urgenza

Tratto da: Adista Documenti n° 5 del 10/02/2018

DOC-2892. ROMA-ADISTA. «Finché ci saranno poveri ed emarginati e finché esisterà il Vangelo – ha affermato una volta Pedro Casaldáliga, già vescovo di São Félix do Araguaia, Brasile –, ci sarà la Teologia della Liberazione. Scomparirà solo il giorno in cui non resterà nessuno da liberare». E considerando quanto quel giorno appaia lontano, oggi ancor più che in passato, non sorprende che la TdL abbia ancora molto da dire. Tuttavia, se in America Latina questa teologia, data ripetutamente per moribonda o addirittura per morta, gode invece di buona salute e di insospettabile vitalità, con tutta l’evoluzione di temi, di metodi e di stili che si è registrata al suo interno – dalla teologia pluralista della liberazione alle teologie indigene, femministe ed ecologiche – si può dire lo stesso rispetto all’Europa? È a questa domanda che cerca di rispondere l’ultimo numero di Voices – la rivista di teologia dell’Associazione ecumenica di teologi e teologhe del Terzo Mondo (Eatwot o Asett) – interamente dedicato al tema della “Teologia della Liberazione in Europa”, evidenziando come nel Vecchio Continente sia comune, secondo quanto scrive il teologo tedesco Stefan Silber, «considerare la TdL come un tema del passato, al massimo come un episodio della storia della Chiesa latinoamericana», o tutt’al più come una teologia valida nel suo contesto e nel suo tempo, ma che non può funzionare in ambito europeo. Non a caso, nota il gesuita Felice Scalia, «l’Europa (e in essa l’Italia) non è un Continente “oppresso”. Anzi fa parte integrante di quell’Occidente “predatore” di cui gli oppressi si vogliono liberare». «Una eventuale TdL, dal versante europeo – sostiene Scalia – dovrebbe partire dalla coscienza che anche il predatore è un oppresso dai suoi idoli e dalle sue ideologie disumane. Cose tutte che uccidono umanità e creano schiavitù a catena nelle stesse fila dei cosiddetti privilegiati. Una simile analisi non struttura però il pensiero comune che così si rivela privo di “profezia”». E un ruolo determinante lo ha giocato, in tal senso, il pontificato di Giovanni Paolo II, con la sua scelta – su cui si sofferma nel suo intervento il teologo e sacerdote spagnolo Benjamín Forcano – «di restaurare, ricristianizzare l’Europa, ricondurre tutto al passato», offrendo come rimedio ai mali del presente «l’immagine di una Chiesa preconciliare: una Chiesa centralizzata, androcentrica, clericale, compatta, ben uniformata e obbediente, antimoderna».

Cosicché, come scrive il teologo cileno Luis Martínez Saavedra in relazione alle Chiese francofone – ma il discorso vale in generale – «la cosiddetta “generazione Giovanni Paolo II” di sacerdoti e vescovi si aggrappa a un modello ecclesiale autoreferenziale piuttosto impermeabile all’ecclesiologia del Vaticano II, specialmente della Gaudium et Spes, di una Chiesa al servizio dell’umanità e attenta ai segni dei tempi e ancor più della Chiesa dei poveri». E lo stesso si può dire dei teologi, che rimangono «rinchiusi in una teologia piuttosto accademica, deduttiva e senza ancoraggio né nell’azione pastorale né nell’impegno nel mondo e nelle grandi sfide relazionate alla sorte dei poveri».

Eppure, tutto ciò non rende meno necessario, osserva ancora Silber, il compito di costruire un’autentica Teologia della Liberazione europea, non come mera applicazione della metodologia latinoamericana ai nostri contesti, ma come creazione di una specifica maniera di «liberare la teologia dalla sua prigionia eurocentrista e sviluppare una teologia che contribuisca alla liberazione dei poveri».

Ma il punto di partenza, sottolinea il teologo tedesco, «deve essere lo stesso: l’opzione per i poveri», perché tale opzione «non è un’invenzione di alcuni teologi latinoamericani, ma la struttura fondamentale della Chiesa di Gesù Cristo». E se questa opzione va declinata in tutte le diverse forme della povertà e dell’esclusione proprie dei contesti europei, dalla disoccupazione alla violenza di genere, dal razzismo alla xenofobia, si deve anche tener conto di quella fusione dei contesti locali e globali che chiama in causa necessariamente le responsabilità del Vecchio Continente, in relazione tanto allo sfruttamento capitalista e all’imperialismo neocoloniale quanto al cambiamento climatico e alla distruzione degli ecosistemi.

Tutto questo senza dimenticare altre due sfide importanti che la Teologia della Liberazione in Europa è chiamata a raccogliere: quella legata alla crescita dell’estrema destra e del fondamentalismo, «tanto nella religione quanto nella società, spesso tra loro interconnesse», e quella relativa alla necessaria autocritica rispetto al «peso doloroso dell’eurocentrismo nella nostra filosofia e nella nostra teologia». Di seguito, l’intervento di Franco Barbero (fondatore, nel 1974, della comunità cristiana di base di Pinerolo, quindi, nel 2014, della comunità di base “Casa dell’Ascolto e della Preghiera”), e, in una nostra traduzione dallo spagnolo, le riflessioni di Santiago Villamayor (della comunità di base di Saragozza, Spagna) e del teologo spagnolo naturalizzato nicaraguense José María Vigil

* Dipinto di Maximino Cerezo Barredo, per gentile concessione dell'autore

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