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Il “sultano” e la strategia del dialogo

Il “sultano” e la strategia del dialogo

Tratto da: Adista Notizie n° 6 del 17/02/2018

Un incontro singolare, obbligato, per certi aspetti surreale nella sua conclusione. Quando, dopo 50 minuti di colloquio a quattr’occhi, Francesco ha salutato Erdogan e sua moglie con le parole: «Pregate per me». E il Sultano, autore della più grande retata di giornalisti dell’epoca contemporanea e della persecuzione di migliaia di oppositori, ha replicato: «Anche noi aspettiamo una preghiera da voi».

I pontefici, quando indossano il manto di capi di Stato, parlano con tutti. Era mezzo secolo che un presidente turco non entrava in Vaticano (Celal Bayar ai tempi di Giovanni XXIII). Dunque una visita politicamente gradita, nonostante la forte manifestazione nei dintorni di Castel Sant’Angelo, indetta per condannare le violenze anticurde del presidente. Diritti umani, legalità internazionale, pace in Medio Oriente, garanzie per le comunità cristiane, status di Gerusalemme sono stati gli argomenti dell’incontro comunicati in maniera scarna. È chiaro qual era l’interesse di Erdogan nell’incontrare il papa: mostrare di non essere isolato. Continuare il suo equilibrismo tra Putin, la Nato, Bashar Assad e gli Stati Uniti, facendo dimenticare la sua offensiva spietata contro l’enclave curda in Siria. Più interessante cercare di capire la linea di Francesco. Il primo elemento è la strategia di fondo del dialogo con tutte le leadership, che contano nel mondo musulmano. Religiose e statali. Ecco allora il dialogo a tutto campo con lo sceicco di Al Azhar, Tayyeb, con il presidente dell’Iran Rohani, con il presidente turco Erdogan. Ciò che conta per il Vaticano è di approfondire la politica di un contatto continuo per non dare spazio alle forze che vogliono a tutti i costi uno scenario di scontro di civiltà tra Occidente e Islam. In questo senso è da notare il ringraziamento di Erdogan per l’impegno di Francesco a favore dei Rohingya, dimostrato nel corso del suo viaggio in Myanmar e Bangladesh. Il papa, che prende le parti di una minoranza musulmana (come Giovanni Paolo II prese le parti dei bosniaci musulmani contro i cristiani croati e serbi, cattolici i primi, ortodossi i secondi), è qualcosa che lascia una traccia nell’opinione pubblica islamica. Il secondo punto che il papa ha voluto approfondire è la necessità di un lavoro internazionale congiunto per portare la pace in Siria e Iraq dopo la sconfitta del Califfato-Isis. Anche a Washington di fronte al Congresso Usa Francesco denunciò nel settembre 2015 la dannosità delle iniziative unilaterali. La “Terza guerra mondiale a pezzetti” si sconfigge solo, nella sua visione, con iniziative sotto l’egida delle Nazioni Unite (in cui le superpotenze lavorino insieme e non cerchino di strappare vantaggi unilaterali). L’Angelo della pace che strangola il Demone della guerra – come inciso sulla medaglia regalata dal papa a Erdogan – significa questo. Terzo tema cruciale della visita è stato indubbiamente Gerusalemme, l’unico forse in cui si possa riscontrare una reale convergenza tra Vaticano e Turchia. Francesco intende rafforzare il fronte internazionale delle nazioni che rifiutano la politica di occupazione – con la forza bruta delle armi – attuata dai nazionalisti israeliani ai danni dello Stato palestinese (già riconosciuto come osservatore all’Onu) e dello status di Gerusalemme. Ciò che Trump e Netanyahu presentano come accettazione della “realtà” è una violenza ripetutamente condannata dalle Nazioni Unite, che porta Israele a “ingoiare” la parte araba di Gerusalemme e la maggior parte dei territori palestinesi. La linea di Francesco è di opporsi a un’ingiustizia storica.    

* Marco Politi  è giornalista e saggista, già vaticanista del Messaggero e poi di Repubblica; collabora da alcuni anni con Il Fatto Quotidiano.

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