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Contro la teologia  del mercato

Contro la teologia del mercato

Tratto da: Adista Documenti n° 9 del 10/03/2018

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Una nuova religione? 

Agli inizi degli anni Venti del secolo scorso Walter Benjamin – eclettico pensatore tedesco (i suoi interessi spaziano dalla politica alla teologia, dall’estetica alla letteratura) – stende alcuni appunti di lavoro intorno a un saggio che non prenderà mai forma. Il titolo assegnato a queste note è: Kapitalismus als Religion, vale a dire Capitalismo come religione  (su questi argomenti vedi anche Il capitalismo divino, a cura di Marc Jongen, Mimesis, 2011, contenente, oltre al testo di Benjamin, contributi di autori contemporanei come, ad esempio, Slavoj Žižek e Peter Sloterdijk). Alla base delle osservazioni di Benjamin c’è innanzitutto un testo, apparso un po’ di anni prima e che in seguito diventerà un classico, ad opera di Max Weber: L’Etica protestante e lo spirito del capitalismo

Weber si propone di studiare la genesi del pensiero capitalista moderno. In breve: la riforma protestante, in particolare il calvinismo, ha costituito la precondizione, sul piano culturale, dell’affermarsi della visione del mondo capitalista. Mentre nelle società pre-capitalistiche l'economia è intesa come il modo per produrre beni da impiegare per scopi non economici (soddisfare i propri bisogni, consolidare il potere, ostentare con il lusso lo status sociale raggiunto, coltivare la bellezza, ecc.), nello spirito capitalistico invece questi fini legati a valori extra-economici diventano secondari, in primo piano passano il lavoro e il profitto. Il capitalista è colui che ottiene la massima soddisfazione proprio dal lavoro e dal conseguimento del profitto in sé. Fu Lutero, ad esempio, nella sua traduzione della Bibbia in lingua tedesca, a introdurre la parola Beruf (lavoro) nel tedesco dell’epoca, utilizzando appositamente un termine che solitamente stava a indicare la vocazione religiosa, facendo divenire il lavoro una sorta di vocazione laica in cui realizzarsi. 

Tutto ciò secondo Weber. Ma Benjamin nel suo breve scritto parte da Weber per poi differenziarsi subito, giungendo a sostenere che il capitalismo stesso, sviluppatosi «parassitariamente sul cristianesimo», ha assunto le sembianze di una religione sui generis, in quanto «serve essenzialmente all’appagamento delle stesse ansie, pene e inquietudini alle quali un tempo davano risposta le cosiddette religioni». La sua religiosità si distende lungo alcune direttrici, che possiamo sintetizzare in quattro punti: 1) il capitalismo è una religione totalmente cultuale, in esso non è rinvenibile alcuna riflessione teologica o dogmatica specifica, poiché ogni sua espressione si riduce nell’esecuzione di un culto, vale a dire in una sequenza di azioni simboliche (in parole semplici: in tutto ciò che può concorrere al processo di produzione e di circolazione del capitale); 2) il rito capitalista è senza fine, essendo stata soppressa dal suo calendario la separazione fra sfera sacra e sfera profana (la totalità del tempo di vita partecipa alla valorizzazione capitalista); 3) l’esecuzione del culto non garantisce appagamento, consolazione o redenzione, ma si avvita su se stessa generando Schuld (termine ricorrente con frequenza nel testo che in tedesco sta a significare sia "colpa" che "debito"); 4) il Dio del mondo capitalista è un Dio nascosto, non offre possibilità di redenzione (quest’ultima viene continuamente differita, spostata più oltre, al punto che la visione ultima della divinità viene spinta al limite, in una lontananza radicale da cui non è contemplata possibilità alcuna di salvezza); detto altrimenti: il capitalismo non può arrestare la sua espansione, pena il suo stesso fallimento, ma deve essere in grado di generare altro capitale attraverso una continua colonizzazione e mercificazione del tempo e dello spazio. 

Sembra che Benjamin, nel momento in cui scrive il frammento, avesse letto poco di Marx; eppure i passi marxiani che tratteggiano già i lineamenti del “capitalismo come religione” non sono pochi. Qui ci limitiamo a segnalare un passaggio dal primo libro del Capitale, laddove si parla del carattere di feticcio della merce: «A prima vista, una merce sembra una cosa banale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici». Tale slittamento metafisico che conduce la merce ad assumere un valore «sovrasensibile», «mistico», «arcano» (sono tutti termini adoperati da Marx) è imputabile al fatto che nella società capitalista il prodotto della mano dell'essere umano - la merce - prende un’esistenza indipendente che cela i reali rapporti sociali esistenti tra di loro al punto che si ha conoscenza solo della superficie (ad esempio il prezzo di un prodotto o il salario quale generico equivalente delle prestazioni lavorative), senza riuscire a percepire la realtà delle relazioni sociali che si celano dietro.

Debito e colpa

Fin qui Benjamin, con Marx e Weber. Ma, domandiamoci, tutte queste parole hanno da dire qualcosa oggi, a quasi un secolo di distanza, agli uomini e alle donne che stanno vivendo la crisi iniziata nel 2007, una crisi economica ma non solo, oppure la sua rilettura è soltanto un esercizio di pedanteria intellettuale? 

A rammentare quanto possano essere attuale le riflessioni di Benjamin, basta andare indietro di qualche anno: quando, nel 2015, i giornali tedeschi riportarono le notizie sul debito greco, adoperarono (e non potevano fare altrimenti) il termine Schuld, parola che appunto finiva per alludere tanto al debito economico quanto a una colpa morale sottostante al primo: la popolazione greca era in debito/colpa. Qui vediamo ritornare con tutta la sua forza la relazione tra il debito e la colpa, da un lato, e il culto del lavoro e del profitto come unica forma di salvezza (una salvezza peraltro, come si è già detto, continuamente procrastinata), dall’altro. Yanis Varoufakis, all’epoca ministro delle finanze greco, ebbe a sottolineare come nella sua lingua venga stigmatizzata la nozione di interesse che uno è chiamato a pagare sui propri debiti. Per secoli – afferma Varoufakis – il cristianesimo ha ritenuto «una colpa gravissima il prestito a fronte d'interessi. Ci sono interi volumi che descrivono il parto del denaro come qualcosa che avviene nel ventre del serpente che ha indotto al peccato Adamo ed Eva» (in greco "parto" è toketòs e "interesse" tòkos, le due parole posseggono una comune etimologia: l’interesse è così il “parto del denaro”; Yanis Varoufakis, È l’economia che cambia il mondo, Rizzoli, 2015, p. 51-52.).

Soffermiamoci ancora un attimo sulle suggestioni provenienti dalla lingua greca. Giorgio Agamben (che è stato supervisore dell'opera completa in italiano di Benjamin), commentando il testo sul capitalismo come religione ha osservato che la parola pistis, termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per "fede", viene usata oggi in Grecia in riferimento alle banche: Trapeza tes pisteos vuol dire "banco di credito". «Fede è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo» (Giorgio Agamben, Il capitalismo come religione. Un commento oggi, “Lo straniero”, n. 155, maggio 2013, p. 9). Infatti, quando nella Lettera agli ebrei (11,1) si afferma che «la fede è sostanza di cose sperate e prova di quelle che non si vedono», si vuol dare realtà a qualcosa che non c’è ancora ma in cui crediamo e abbiamo riposto fiducia; in qualche modo il futuro irrompe nella nostra vita, ma a condizione che la fede sia tale da dare sostanza alle speranze che la animano.

Il problema, purtroppo, è che oggi il credito lo andiamo a cercare soprattutto presso le banche, la fede è nel denaro che pare tutto possa comprare. Il capitalismo attuale, che è soprattutto finanziario e di cui le banche sono l'organo principale, funziona proprio sul credito, cioè sulla fede, che le persone sono disposte ad attribuire loro. Questo oggi vuol dire Benjamin: le banche con i loro funzionari hanno ormai preso il posto delle Chiese e dei loro officianti, e, governando il credito, manipolano e gestiscono le speranze degli uomini e delle donne del nostro tempo. Senza che ce ne rendiamo conto, la nostra società, che si crede laica e razionale, sta vendendo le proprie anime e i propri corpi alla più mistificante e irrazionale delle religioni. E questo, se non lo si è ancora compreso, è la questione antropologica del presente, è un problema non solo politico ma anche religioso.

Lavoro e colpa

A ben vedere il tema della colpa non riguarda solo la condizione di indebitamento progressivo dell’essere umano. Non solo si è in colpa perché, non disponendo del denaro richiesto per condurre lo stile di vita veicolato dai media, ricorriamo al debito, ma la colpa investe anche la dimensione del lavoro. Il mondo protestante, come ha mostrato Weber, ha sviluppato non solo un’etica incentrata sul profitto, ma anche sul lavoro come valore in sé e quest’etica lavorista continua a far sentire la sua voce. La società odierna, dell’informatizzazione e della delocalizzazione, è la società in cui il lavoro viene sempre più frammentato, ridimensionato, polverizzato, ma, pur scarseggiando, continua a essere propugnato come un valore. Si è allora in colpa perché si lavora poco o si lavora troppo, perché non si ha lavoro e quindi si è dipendenti da altri, oppure perché si continua a lavorare togliendo opportunità di impiego ai più giovani. E così via. Non è un caso se il dibattito sulla proposta di un reddito di base incondizionato e universale continui ad aleggiare nei cieli dell’utopia.

Non solo. Sarebbe opportuno ricordarsi, oggi che il lavoro è soprattutto precario, che anche la parola "precario" proviene da un contesto religioso: sta a significare – originandosi dal latino precarius, "ottenuto con preghiere, concesso per grazia", qualificando così il lavoro in termini di provvisorietà, instabilità, insicurezza – una condizione ottenuta per favore, permessa temporaneamente dietro supplica, senza garanzia o diritto di permanenza. Il lavoratore precario (ma con le trasformazioni in atto nelle relazioni lavorative più o meno tutti ci stiamo trasformando in precari!) è un soggetto privo di diritti, obbligato a rendersi flessibile per rispondere alle richieste del mercato e potenzialmente colpevole in quanto marginalizzato dal mondo del lavoro.

È stato il sociologo e teologo (peraltro protestante) francese Jacques Ellul ad avvertire la necessità di separare lavoro e religione, denunciando come non sia in realtà rinvenibile alcun testo biblico che presenti il lavoro come un valore, un bene o una virtù. Scrive Ellul: «È un punto sul quale ritengo si debba essere molto chiari. Negli scritti biblici, a parte qualche raro testo, il lavoro è innanzitutto presentato come una necessità, una costrizione, una sofferenza» (jacques Ellul, Lavoro e religione, Verona, Centro Studi Campostrini, 2015, p. 27). E ancora: «Nell’ebraismo e nel cristianesimo il lavoro è considerato una punizione. Si dice una menzogna quando si sostiene che il cristianesimo ha valorizzato e dato dignità al lavoro». Del resto il teologo e rabbino Heschel, in un suo celebre saggio, aveva già affermato che, mentre per Aristotele e tutta la tradizione occidentale il riposo e? descritto in funzione del lavoro e della produttività, per la sensibilita? biblica il sabato e? stato creato per amore della vita: non per accrescere l’efficienza produttiva, ma per realizzare il culmine del vivere, il quale non si realizza nel processo lavorativo ma nella gratuità e nell’inoperosità (Abraham Joshua Heschel, Il Sabato, Milano, Rusconi, 1972).

Sempre secondo Ellul, dopo la rottura tra Dio e l’essere umano (v. Genesi 1,3) non è possibile vivere senza costrizione e nella spontaneità ludica e il lavoro si manifesta allora per quello che è: non un’attività che reca felicità, realizzazione o compimento, ma necessità e sofferenza. Per questo l’intera storia della società umana può essere descritta come un lungo cammino di emancipazione dal lavoro. Solo nel mondo moderno il lavoro ha cominciato a essere considerato un’attività da privilegiare, generando infelicità e insoddisfazione. Può sembrare un paradosso ma, osserva Ellul (non a caso viene considerato uno dei principali precursori della teoria della decrescita), la società attuale è la società maggiormente produttrice di penuria e scarsità: mentre siamo intenti a produrre sempre più beni da immettere sul mercato, causiamo al contempo un’immensa penuria di beni naturali, acqua, aria, materie prime, alterando definitivamente gli ecosistemi; il tutto per offrire un inutile appagamento con prodotti che divengono presto obsoleti, generando un costante senso di insoddisfazione. E intanto il mercato domina sovrano.

Dogmatica del mercato

Torniamo allora al mercato. Benjamin diceva che il capitalismo era privo di una dogmatica, essendo solo una pratica cultuale. In realtà è possibile far emergere dalla superficie delle chiacchiere del discorso economico una dogmatica capitalistica. Si tratta di una serie di postulati che agiscono tacitamente, che funzionano proprio in quanto silenti. È come se all’interno della nostra società secolarizzata si fosse formato un nucleo sacrale intorno a cui, nostro malgrado, gravitano le vite di ciascuno. Il fenomeno della secolarizzazione ha più a che fare allora con lo spostamento di impulsi, simboli e storie sacri da un’istituzione all’altra, piuttosto che con la loro scomparsa definitiva. E non è un caso se a svelare tutto ciò abbia contribuito l’analisi di un teologo noto per i suoi studi sulla secolarizzazione. Il riferimento va ad Harvey Cox, teologo battista statunitense (noto negli anni Sessanta per un saggio sulla secolarizzazione) e a un suo recente libriccino intitolato Il mercato divino (Bologna, EDB, 2017. Il suo saggio La città secolare, Firenze, Vallecchi, 1968, fu all’epoca un best seller, tradotto in diverse lingue, raggiungendo circa un milione di lettori).Secondo Cox, la società capitalista ha sviluppato un vero e proprio sistema di credenze che vanno ben al di là delle teorie economico-politiche enunciate: «ha la sua mitologia, una dottrina della creazione, della caduta, della redenzione, persino una forma di escatologia che ci rassicura sul fatto che la storia stia procedendo nella direzione giusta». 

Vediamo insieme alcuni di questi dogmi individuati da Cox. Il mercato è onnisciente, ha sempre e comunque ragione perché possiede una vista più lunga di ogni essere umano e per questo bisogna affidarsi a lui, concedendogli sempre l’ultima parola. Il mercato è onnipotente, per mezzo suo qualsiasi cosa, grande o piccola, materiale o immateriale, può e deve essere trasformata in merce se si vuole perseguire il benessere generale. E attraverso la mercificazione di ogni cosa il mercato diventa onnipresente, si riproduce insinuandosi in ogni piega del vissuto e del quotidiano, affinché nulla debba rimanere fuori.

Non basta: il mercato ha anche i suoi solerti missionari pronti a diffondere in ogni angolo del globo il suo messaggio di salvezza, che può essere espresso in una parola-chiave: crescita. È all’opera una sorta di escatologia: il mercato deve costantemente crescere e crescere, se smette di espandersi è la distruzione per tutti. Per far ciò non si è limitato a colonizzare l’intero pianeta, ma è dovuto penetrare nella nostra intimità, governando la nostra fede, influenzando i nostri desideri più segreti, per formarli, plasmarli, rendendoli così ricettivi alle sue offerte.

Forse, di fronte a questo scenario, messo a nudo accostando e ibridando il campo della teologia e quello dell’economia, è utile ripartire dal significato originario del termine economia (oikonomia), che deriva da due parole greche, oikos: “casa, ambiente” e nomos: “legge, norma”. Non una scienza fredda, volta alla massimizzazione degli utili o alla minimizzazione dei costi, un’economia che  celebra il profitto in quanto tale, come molte scuole di pensiero propongono, ma un costruire insieme a tutti gli uomini e le donne, e con tutto il mondo animale, vegetale e minerale, un sapere e un sapore in grado di occuparsi della gestione e della cura della casa comune in cui viviamo, quindi per condividere e celebrare non il denaro o il profitto ma la vita, affinché - come ebbe a dire Jakob von Uexküll, uno dei fondatori dell’ecologia - il mercato e il denaro tornino a essere i servi e non i padroni della nostra visione e dei nostri valori. 

Particolare del dipinto di Jan van Eyck, Madonna del Cancelliere Rolin (1434-'35), foto di Saiko (Museo del Louvre, Parigi, 2013), tratta da Wikimedia Commons, licenza Creative Commons

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