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Verso il nuovo Governo. L’impasse della nostra democrazia

Verso il nuovo Governo. L’impasse della nostra democrazia

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 21 del 09/06/2018

Il nuovo Governo frutto dell’intesa fra il Movimento pentastellato e la Lega è dunque fallito dopo un avvio difficile e faticoso segnato da luci e ombre e bersagliato da duri e pregiudiziali attacchi di un’opposizione preventiva e rabbiosa che, dimentica dei guasti provocati dagli ultimi governi, si è esibita in sdegnose condanne e in allarmate esortazioni a fermare la svolta. Un’opposizione dirompente e frenetica di aree e interessi da sempre in sintonia con i dettami del sistema economico-sociale dominante e di quei centri di potere politico-amministrativo che da esso promanano. Un percorso che non è andato in porto per una decisione senza precedenti del presidente Mattarella il quale ha negato la sua firma alla nomina di Paolo Savona come ministro dell’Economia con conseguente rinuncia al mandato da parte del presidente del Consiglio incaricato Conte. Una scelta discutibile se si tiene conto che l’art.92 della Costituzione per la nomina dei ministri così si esprime: «Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri». La proposta del presidente del Consiglio costituisce quindi una scelta che egli compie sotto la sua responsabilità che si perfeziona dal punto di vista formale con la nomina del capo dello Stato il quale non svolge al riguardo alcuna funzione selettiva di carattere politico. Ne è conferma l’art. 95 dello stesso Statuto il quale afferma che «il Presidente del Consiglio dei Ministri dirige la politica generale del Governo (e quindi anche la politica economica, ndr) e ne è responsabile ». E a tale riguardo va sottolineato che il presidente del Consiglio incaricato aveva dato pubblicamente, subito dopo aver ricevuto il mandato, al presidente della Repubblica le più ampie rassicurazioni sulla continuità della politica europea del nascente governo. Si è molto discusso in dottrina sulla possibilità o meno del presidente della Repubblica di determinare o influenzare la nomina dei ministri col risultato, secondo l’opinione in dottrina largamente prevalente, che l’esercizio di questo potere gli è consentito solo se qualche ministro prescelto non ha quei requisiti previsti dalla legge per accedere alle cariche pubbliche (ad esempio per condanne penali o per difetto della onorabilità richiesta dall’art. 54 dello Statuto) e quando la nomina sia in aperto contrasto con il quadro politico che emerge dalle consultazioni (ad esempio soggetto non gradito dalla maggioranza delle forze parlamentari) col rischio di compromettere l’esito positivo del voto di fiducia. Tutti casi quindi di incompatibilità previsti dalla legge o determinati da prevalenti indirizzi parlamentari fuori dai quali il presidente della Repubblica può solo svolgere quel collaborativo tentativo di convincimento denominato “moral suasion”. Alla luce poi della logica e dei dettami costituzionali è assai problematico che il capo dello Stato possa dar vita a un “Governo del presidente” destinato a non ottenere la fiducia in presenza di una ben delineata maggioranza parlamentare composta da forze politiche che hanno concordemente indicato le personalità alle quali affidare gli incarichi ministeriali. Un’assurdità perché dopo qualche mese dal voto si rischia di andare a nuove elezioni non perché non c’è, una maggioranza parlamentare ma perché la scelta di un ministro concordemente voluto dalla medesima non è gradita al capo dello Stato. L’auspicio è che il presidente Mattarella e gli esponenti delle forze di maggioranza trovino l’indispensabile intesa per superare la grave “impasse” nell’interesse superiore del Paese.

Un’“impasse” assai grave ove si consideri che l’avviato “Governo del presidente” sarebbe apprezzato dall’area politica che ruota intorno al PD a guida renziana e alla destra di osservanza berlusconiana, l’uno e l’altra uniti dal responso elettorale e legati sin dall’inizio della scorsa legislatura da quel “patto del Nazareno” che, sciolto formalmente a seguito di dissensi insorti in occasione dell’elezione del presidente Mattarella, ha continuato nei fatti a perseguire i suoi obiettivi per le affinità politiche dei rispettivi leader. Una comune inclinazione a fare delle proprie formazioni politiche due partiti sempre più “personali” e a trasformare la nostra democrazia, concepita dalla Costituzione come partecipativa, in una democrazia maggioritaria funzionale a un’economia spiccatamente di mercato che non disdegna ma accetta le disuguaglianze sociali pensando di poter trarre da esse energia ed efficienza. Un patto fra renzismo e berlusconismo che, non avendo potuto sfociare per l’esito elettorale in una intesa di governo, intraprende oggi ogni via per rinsaldarsi e riemergere.

Si diano allora una calmata i “profeti di sciagure” di oggi non meno angoscianti dei “gufi” di renziana memoria di ieri. Piaccia o meno, una maggioranza giallo-verde c’è e, se le forze che la compongono non possono andare oggi al governo, i sondaggi dicono che risulteranno comunque rafforzate nelle prossime elezioni: una consultazione che, nella situazione venutasi a creare, dovrà essere assai vicina perché lo esigono la logica della democrazia e il comune buon senso. E c’è anche un programma politico elaborato da questa maggioranza che non è certo immune da lacune e da deprecabili misure (come l’estensione della legittima difesa domiciliare superando la proporzionalità fra aggressione e reazione e l’esclusione dall’asilo nido gratuito dei figli di immigrati), ma che contiene anche alcuni impegni i quali, se attuati, segnerebbero una significativa svolta. Di apprezzabile rilievo sono invero il reddito in favore di cittadini in stato di bisogno funzionale al reinserimento nella vita sociale e lavorativa previo il potenziamento degli uffici per l’impiego; la riforma del sistema tributario con due sole aliquote del 15 e del 20 per cento per famiglie e imprese a condizione che siano previste esenzioni e deduzioni tali da assicurare la progressività del sistema tributario costituzionalmente sancita; la revisione della riforma pensionistica Fornero prevedendo il pensionamento per i lavoratori che raggiungono la cosiddetta quota cento (fra anni di età e di contribuzione); la confermata collocazione europea internazionale dell’Italia con la richiesta di una maggiore attenzione agli interessi del nostro Paese e all’esigenza di politiche economiche più espansive; la traduzione in riforme urgenti e concrete degli impegni allo stato generici per una lotta senza quartiere alla corruzione e all’evasione fiscale.

Se per sinistra si intende un insieme di impegni e di scelte che puntano alla riduzione delle inique disuguaglianze sociali e a una più equa distribuzione della ricchezza con serie politiche intese a combattere le vecchie e nuove povertà, si deve allora riconoscere che tra i punti programmatici della nuova maggioranza ci sono, anche se non inserite in un organico progetto, alcune scelte chiaramente di sinistra mentre risulta arduo trovarne di simili negli Esecutivi che si sono susseguiti negli ultimi anni. E questo spiega l’emigrazione di larga parte dell’elettorato di sinistra verso le due formazioni politiche premiate dal voto del 4 marzo scorso come dimostrano diversi studi dei flussi elettorali che assegnano ai Cinquestelle e alla Lega rispettivamente un 50% e un 30% di consensi provenienti da tale elettorato.

Ma dov’è la sinistra della lotta alle disuguaglianze sociali? Perché, frustrata e confusa, si sta condannando all’impotenza divisa fra chi vuole ancora fare da sponda al declinante renzismo e chi attende le novità che essa non contribuisce a determinare? Come mai non sceglie di sostenere migliorandoli i punti programmatici di segno progressista della nuova maggioranza e di contrastare con la massima determinazione quelli regressivi o iniqui? E perché, più in generale, non si adopera per favorire l’evoluzione del Movimento pentastellato nella direzione indicata da quegli esponenti di tale formazione che insistentemente innalzano il vessillo dei diritti economici e sociali sanciti dalla prima parte della nostra Costituzione? E per quale ragione non tenta anche di incoraggiare, per quanto ardua possa apparire l’impresa, un’analoga evoluzione di quella Lega che oggi ottiene il consenso di una parte rilevante dell’elettorato popolare progressista e che forse con qualche ragione nel 1995 un qualificato esponente della sinistra definiva «una costola del movimento operaio»?   

* Michele Di Schiena è presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione

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