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Mons. Lorefice: «Noi siamo i predoni dell’Africa!»

Mons. Lorefice: «Noi siamo i predoni dell’Africa!»

Tratto da: Adista Notizie n° 28 del 28/07/2018

39461 PALERMO-ADISTA. Ai palermitani l’invito a non farsi dominare dalla mafia e dalla mentalità mafiosa. Agli italiani – ma anche agli europei – l’appello a prendersi cura della casa comune di tutti e tutte e non solo della propria. Alla Chiesa l’incoraggiamento a declinare la fede non come «devozione individuale » ma come «fraternità», e a schierarsi sempre dalla parte degli ultimi.

Sono i contenuti principali del lungo discorso di mons. Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, in piazza Marina, lo scorso 15 luglio 2018, festa di santa Rosalia, patrona della città, che – dice Lorefice – «deve rappresentare per noi un momento di gioia, di condivisione, ma non di evasione e di estraneazione dalla realtà», perché «non è tempo di dormire, ma di stare svegli», guardando «con gli occhi ben aperti a quelli che papa Giovanni XXIII chiamava “i segni dei tempi”».

L’intervento dell’arcivescovo segue l’immagine della nave, quella del carro a forma di barca con il quale la statua della santa viene portata attraverso le vie della città, ma anche le barche dei migranti che attraversano il Mediterraneo e la “barca di Pietro”, la Chiesa.

L’inizio è per Palermo, «la nave di Palermo». «Quanto si avverte la fatica della navigazione su questo nostro veliero – dice Lorefice –. Il mare è perennemente agitato, e ci sentiamo come i discepoli sulla barca sorpresa dal turbine durante la traversata verso l’altra riva, mentre Gesù se ne sta tranquillamente in un cantuccio, a dormire». Ma «non è della paura che dobbiamo avere paura», anche se, «è vero, siamo impauriti qui, in questa nostra patria meravigliosa, perché il lavoro manca, drammaticamente e, a volte, tragicamente; perché i nostri giovani perdono la speranza e si sentono costretti a partire, privandoci della loro presenza, della loro giovinezza forte e creativa; perché nelle nostre periferie cresce il disagio, aumentano i poveri»; perché «il giogo della mafia e di tutte le mafie, penso alla malavita, alla mentalità mafiosa, stringe il nostro territorio, penetra nelle nostre case, inquina la vita sociale, si incunea nella politica, persino in alcuni ambienti ecclesiali, con una tracotanza che ci lascia attoniti ». Allora, prosegue l’arcivescovo, dobbiamo guardare «in faccia la paura, poiché il vero grande pericolo non è la paura, ma è la rabbia, è la rassegnazione, è l’evasione. Se infatti assumiamo da adulti le nostre paure, potremo assieme costruire qualcosa, anzitutto riconoscendo chi punta a cavalcarla questa paura, ad approfittarne per il suo misero successo personale». E ai giovani dice che «ad aiutarvi nella verità non è il politico che vi promette favori, il prete che vi raccomanda, il potente che vi chiede in contraccambio il sacrificio della vostra libertà, non è chi vi dice che risolverà in modo semplicistico e sommario i vostri problemi», ma «coloro che vi dicono che un mondo diverso è possibile e che la forbice tra chi ha e chi non ha può essere annullata da un pensiero di autentica condivisione. Care palermitane, cari palermitani, alziamoci in piedi! Non restiamo curvi, perché la nostra terra avrà un futuro se avremo la pazienza, il coraggio, la forza di costruirlo assieme. Questo deve significare “Palermo capitale della cultura”. Dobbiamo essere il baluardo della cultura, della nostra grande tradizione, contro l’anti-cultura della mafia che scommette sul fatto che la Sicilia, come temeva e gridava Leonardo Sciascia, sia “irredimibile”».

Da Palermo, all’Italia e all’Europa. «La logica del “prima noi” (tanto cara a Salvini, ndr) mostra in questa Europa tutta la sua fallacia. Rischiamo fratture insanabili proprio perché ogni Paese europeo comincia a ritenere che il suo benessere venga prima, senza capire che se la casa comune si distrugge tutti resteremo all’addiaccio, privi di un tetto». La “stella polare”, secondo Lorefice, è Giorgio La Pira, «nostro conterraneo, nato a Pozzallo», che «faceva delle “attese della povera gente” il suo faro e la sua guida, contro ogni esaltazione del mercato senza regole, dell’individualismo economico», e che oggi «ci inviterebbe a guardare alle tante navi che dirigono la loro prua verso l’Europa come alle navi della speranza. La speranza della povera gente che cerca protezione e vita buona, ma soprattutto la nostra speranza. Perché se fermiamo le navi dei poveri, se chiudiamo i porti, siamo dei disperati. Disperiamo della nostra umanità, disperiamo della nostra voglia di vivere, del nostro desiderio di comunione ». L’arcivescovo alza i toni: «Tutti dobbiamo sapere che lungo i decenni e soprattutto in questi ultimi trent’anni l’Africa, che è il continente più ricco del mondo, è stata sfruttata dall’Occidente, depredata delle sue materie prime. Ce le siamo portate via, anzi le multinazionali l’hanno fatto per noi, senza pagare un soldo. E abbiamo tenuto in vita governi fantoccio, che non fossero in grado di difendere i diritti della gente. Le potenze occidentali mantengono inoltre in Africa una condizione di guerra perenne che rende più facile lo sfruttamento e consente un fiorente commercio di armi». Allora «siamo noi i predoni dell’Africa! Siamo noi i ladri che, affamando e distruggendo la vita di milioni di poveri, li costringiamo a partire per non morire». È «un esodo epocale» che «si abbatte sull’Europa», che però «ha deciso di non rilasciare più permessi per entrare regolarmente nel nostro continente. E allora questo esercito di poveri, che non può arrivare da noi in aereo, in nave, in treno, prova ad arrivarci sui barconi dei trafficanti di uomini, dopo due anni di viaggio allucinante nel deserto e di detenzione in Libia. Cari cittadini, devo gridare stasera questa verità: quelli che vengono chiamati centri di smistamento, di detenzione, quei centri che i nostri governi sollecitano e finanziano per bloccare il flusso migratorio, spesso richiamano i campi di concentramento. E se settant’anni fa si poté invocare una mancanza di informazione, oggi no. Non lo possiamo fare, perché ci sono le prove, nella carne martoriata di questa gente, nei filmati, nei reportage di giornalisti coraggiosi». Prosegue Lorefice: «Non è questione di accoglienza, non si tratta di essere buoni, ma di essere giusti. Non di fare opere buone, ma di rispettare e, se necessario, ripensare il diritto dei popoli», «è questa la forma del Vangelo che deve diventare sostanza viva, e che proprio in Italia lo è diventata, settant’anni fa, nei principi fondamentali della nostra Costituzione».

Infine la Chiesa, che «non può restare in silenzio», «perché è stata collocata dal suo Signore accanto ai poveri e ai derelitti della storia, e tutte le volte che è uscita, e quante volte è successo – nota l’arcivescovo – è uscita da quel posto per mettersi accanto ai forti, ai ricchi, ai potenti, ha perso il senso stesso del suo essere».

Mons. Corrado Lorefice, arcivescovo metroplita di Palermo, in una foto [ritagliata] di Syrio del 2016 - tratta da wikimedia commons, licenza Creative Commons

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