
Una minaccia per il pianeta. Bolsonaro affossa la lotta contro il riscaldamento globale
Tratto da: Adista Notizie n° 39 del 17/11/2018
39566 BRASILIA-ADISTA. Il sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos lo aveva espresso chiaramente alla vigilia del secondo turno delle presidenziali in Brasile: le democrazie possono anche morire in maniera democratica. E certamente, già in agonia a partire dal golpe bianco contro Dilma Rousseff nell'agosto del 2016, seguito dalla persecuzione mediatico-giudiziaria contro Lula e dalla sua illegale esclusione dalla competizione elettorale, la democrazia brasiliana è morta, democraticamente, nelle urne, in mezzo a una campagna di fake news senza precedenti, tra dichiarazioni misogine, omofobiche e razziste e un'ondata di intimidazioni e violenze per le strade e persino nelle università invase dalla polizia federale e militare, dove la rimozione di striscioni inneggianti all'antifascismo, in quanto "propaganda elettorale", è apparsa l'ammissione definitiva del carattere fascista della candidatura dell'ex capitano.
E, a completare il quadro, non poteva mancare lui, Sérgio Moro, il discusso simbolo dell’inchiesta Lava Jato responsabile dell’accanimento giudiziario contro Lula, il quale, calpestando ogni regola di decenza, ha accettato l'invito di Bolsonaro a presiedere un "superministero" che riunirà la Giustizia e la Sicurezza Pubblica. E come se la nomina non sembrasse già di per sé una ricompensa per aver spazzato via Lula dal processo elettorale, il vicepresidente Hamilton Mourão ha anche reso noto che tale invito era stato rivolto a Moro già durante la campagna elettorale, cioè mentre il giudice, a meno di una settimana dal primo turno, rendeva pubbliche le denunce rivolte contro Lula dal suo ex ministro dell’Economia Antonio Palocci (malgrado la sua deposizione fosse stata respinta dal pubblico ministero per mancanza di prove) per pregiudicare la campagna del Pt.
Quello che dunque attende ora il Brasile ha tutti i contorni di un incubo. Malgrado gli sforzi della stampa oligarchica di normalizzare in senso democratico il profilo del nuovo presidente, Bolsonaro, nelle sue prime interviste dopo la vittoria, non è arretrato di un centimetro, ribadendo in sostanza, in maniera appena edulcorata, le parole pronunciate pochi giorni prima del ballottaggio nei confronti degli oppositori politici: li aveva minacciati di spedirli tutti "para a ponta da praia", come i militari chiamavano, durante la dittatura, la base militare della marina a Restinga da Marambaia, a Rio de Janeiro, uno dei più terribili centri di sterminio del regime militare. E tornando ad attaccare il Movimento dei Senza Terra e il Movimento dei Senza Tetto, le cui azioni, ha spiegato, saranno considerate come atti di terrorismo, l'ex capitano ha nuovamente negato che in Brasile vi sia stata una dittatura: «Oggi – ha detto – gran parte della popolazione è consapevole del fatto che il periodo militare non è stato una dittatura come la sinistra ha sempre sostenuto».
Né esiste il minimo dubbio sul carattere ultraneoliberista del prossimo governo, in cui a dettare la linea economica – nel segno del controllo della spesa pubblica e delle privatizzazioni – sarà il "Chicago boy" Paulo Guedes, alla guida di un ministero che accorperà quelli dell'Economia, della Pianificazione e dell'Industria e del Commercio con l'Estero. Ma sarà ancora il governo Temer, in carica fino a dicembre, a consacrare – d'accordo con Bolsonaro – la cessione definitiva del pré-sal alle imprese petrolifere straniere, considerata essenziale da Guedes per la riduzione del deficit.
E intanto è stata già annunciata, il 30 ottobre, la decisione di fondere il ministero dell'Agricoltura (storicamente legato agli interessi dell'agribusiness) con quello dell'Ambiente, primo atto di quella che è stata già definita come "bolsocalipse" ambientale.
Gli obiettivi di Bolsonaro sono infatti chiarissimi: indiscriminato sfruttamento dell'Amazzonia e sostegno incondizionato all'agribusiness, allentando controlli e multe e trasformando aree protette e terre indigene in pascoli per l'allevamento del bestiame, latifondi di soia e miniere.
Un programma ottimamente riassunto dalla dichiarazione del presidente della Unione democratica ruralista (una sorta di braccio armato dei latifondisti) Nabhan Garcia: «Se un qualunque produttore rurale vuole comprare mille ettari di terra, si trova nell'impossibilità di disboscare solo perché loro parlano di "deforestazione zero"? È un'assurdità».
A fare le spese di tali politiche saranno ovviamente, oltre i senza terra, i popoli indigeni, che, dopo l'elezione di Bolsonaro, hanno già sofferto intimidazioni e aggressioni, compresi attacchi con armi da fuoco, in Mato Grosso do Sul e in Pernambuco: «Nemmeno un centimetro quadrato in più agli indios», ha peraltro già garantito Bolsonaro. E ugualmente tragico è il destino che attende l'Amazzonia: se la deforestazione – che a settembre ha registrato un aumento dell'84% rispetto allo stesso mese dell'anno precedente – oltrepasserà la soglia del 25% (oggi è al 19%), la foresta, secondo gli scienziati, sarà condannata a trasformarsi in una savana.
Su questo la scrittrice e documentarista Eliane Brum aveva già messo in guardia la comunità internazionale: chi crede che un Brasile «governato da un uomo dichiaratamente razzista, misogino e omofobo sia appena una bizzarria dell'America Latina non ha compreso come, in tempi di riscaldamento globale, la minaccia abbia già bussato alla sua porta».
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