
PRIMO PIANO. Gli infami pennivendoli della democrazia
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 41 del 01/12/2018
Che insulti e minacce fossero la cifra stilistica con la quale è nato il codice genetico della maggioranza che sostiene questo governo, è cosa nota. Non c’è da meravigliarsi, perciò, delle ultime uscite dei leader pentastellati che hanno inveito, dopo la sentenza di assoluzione della sindaca di Roma Virginia Raggi (perché il fatto c’è, e ne hanno parlato i giornali, ma non è reato: politicamente, però, qualche responsabilità è data o no?), contro gli “infami pennivendoli”. E altro di peggio.
Ormai è chiaro a tutti (meno che al presidente Conte) che non è una questione di lessico e stile, ma di vera e propria essenza della democrazia: che vive di libertà d’informazione (pur con regole e limiti) o non vive.
Ma gli alfieri della democrazia stanno trasformando, e in fretta, il loro modello di pensiero perché ora sono al potere. Anzi, sono il potere. E piano piano stanno scoprendo che tre luoghi comuni che fondano molti dibattiti degli osservatori di politica oggi, sono – a mio avviso – non totalmente fondati. Primo: che ormai siamo sull’onda lunga della deriva di destra in Occidente ed è un percorso irreversibile. Secondo, che la maggioranza degli elettori vota con la pancia e non con la testa quindi è inutile fornir loro dati, informazioni, fatti e quant’altro fonda il corretto giornalismo. Terzo, che la verità non esiste e che tutto si veicola con la narrazione, lo storytelling, l’immaginario collettivo. Intendiamoci: non che siano argomenti infondati, c’è purtroppo tanto di vero in queste tesi: ma sembrano le classiche profezie che si autoavverano, percorsi mentali che trascurando i successi governativo (nulli), a vantaggio delle parole (tante, troppe), lavorano affinché si sedimenti nelle teste dei cittadini la convinzione che non si può fare diversamente. Tutto è già scritto.
E invece a mio avviso la grammatica comunicativa, che si traduce poi in voti, non può prescindere dalla buona informazione. Ergo, se non è “con noi”, su questo modello di pensiero, è contro di noi: va abolita, minacciata, impaurita, estirpata se possibile. Altrimenti il gioco delle tre carte si svela e – nella trasparenza tante volte invocata e abusata – emerge la forza dell’inganno. Ed è purtroppo difficile pensare che (qualsiasi sia il colore politico), ci sia qualcuno esente da questa mala pratica.
«Una commissione governativa per le ricerche scientifiche da divulgare? Inquietante». Hanno risposto Rai, Fnsi e Usigrai alla proposta di chi vorrebbe gestire “politicamente” l’informazione scientifica del servizio pubblico. “Un tribunale del popolo” per processare politici, industriali, giornalisti. «Intanto se ne trovi uno ordinario», a Grillo risponde il direttore del TG7, infamato per essere tacciato di «fabbricatore di notizie false». E così passando di ingiuria in ingiuria. Di risposta in risposta.
«Il giornalismo è diventato uno dei più pericolosi mestieri del mondo», ha detto Frane Maroevic, direttore dell’Uffico dell’Osce che si occupa della libertà di stampa, che nel suo recente progetto Index of Censorship dal 2014 ha registrato più di 3.000 attacchi contro i giornalisti in 35 Paesi europei (dall’omicidio alla violenza fisica, dalle minacce verbali allo sputo): in cima alle aggressioni corporee risulta l’Italia (85 casi su 445). Per non parlare della diffusa pratica di intimidazioni attraverso le denunce e la violenza verbale via social. (Per inciso: secondo Reporters sans frontières, nel rapporto 2018 sulla libertà di stampa l’Italia risulta alla 46.ma posizione sui 180 Paesi esaminati).
È bene tenere presente (come si legge nel prezioso lavoro fatto dall’Associazione Ossigeno per l’Informazione (acronimo di: OSservatorio Su Informazioni Giornalistiche E Notizie Oscurate) che «La maggior parte delle minacce e intimidazioni sono rese possibili da questi fattori: l’impunità di chi intimidisce i giornalisti; l’isolamento e l’oscuramento dei minacciati; l’uso strumentale della legge sulla diffamazione; i processi civili per richieste illimitate di danni; il riconoscimento parziale del segreto professionale; la mancata copertura delle spese legali per molti giornalisti, e in particolare per coloro che svolgono lavoro precario. Per affrontare questi problemi sono necessarie, fra l’altro, riforme legislative sulle quali si discute da molti anni. Riforme a costo zero», ma che, a differenza della proposta madre di tutte le proposte (l’abolizione dell’Ordine dei giornalisti), puntano piuttosto a migliorare la qualità dell’informazione oggi offerta dalle testate italiane, e non a ucciderla definitivamente. Perché di qualità dell’informazione di casa nostra (associata a libertà, autorevolezza, competenza e perché no, empatia ed eticità) c’è sicuramente bisogno.
Ed è infatti grazie al lavoro cosciente della parte più avveduta della categoria, che si sta lavorando per andare in questa direzione. Agli inizi di ottobre, infatti, è nato un Manifesto promosso dall’Associazione Articolo 21 e dalla rivista San Francesco per lanciare principi ispiratori, indicazioni, vie maestre che devono trovare nella coscienza e nella professionalità di ogni comunicatore terreno fertile per la pratica quotidiana. Il cuore del Manifesto di Assisi è semplice e in pochi punti: Scriviamo degli altri quello che vorremmo fosse scritto di noi; Non temiamo di dare una rettifica quando ci accorgiamo di aver sbagliato; Diamo voce ai più deboli; Impariamo il bene di dare i numeri giusti; Le parole sono pietre, usiamole per costruire ponti; Diventiamo scorta mediatica della verità; Non pensiamo di essere il centro del mondo; Il web è un bene prezioso: viviamolo anche come bene comune; Connettiamo le persone; Diamo corpo alla notizia, portiamola nelle piazze digitali.
Illusione? Parole al vento? Forse: ma ammetto di essere stanco del cinismo imperante di chi dice che “loro” (i barbari…) sono più forti e non si arrestano con le parole. E allora con cosa vorremmo farlo? Con le armi? No, penso piuttosto che se vogliamo davvero che la nostra amata e malata democrazia non sparisca a breve, dovremmo essere più capaci di “rimetterci” personalmente, spendendo e pagando di tasca nostra. E non solo in metafora. Cominciamo, intanto, dal sostenere materialmente tutte quelle riviste che continuano a fare libera e corretta informazione (oso dire: a cominciare da questa che leggete ora): abbonamenti, promozioni, donazioni e quant’altro. Un primo concreto impegno affinché non muoiano di stenti, visto che dal governo (ancora loro…) arrivano proposte di cancellazioni tombali dei fondi per l’editoria (gli ultimi rimasti sono proprio quelli delle piccole testate del mondo dell’associazionismo e del Terzo settore).
E poi spendere del tempo per vedersi faccia a faccia e parlare con le persone, in gruppi, in associazioni, in parrocchie… in tutte quelle formazioni (intermedie, cioè poste tra il “popolo tutto”, indistinto e anonimo, e il leader ben consapevole della solitudine del singolo nella massa) che fanno, esse sì, “comunità e non community”, creando relazioni vere e durature (quando sono disinteressate e accoglienti), in grado di vincere quell’anomia contemporanea che rende più facile, da un canto la disinformazione e dall’altro la forza prepotente del capo di turno.
Ecco perché avanzo proposte semplici ma praticabili. Rivitalizziamo gli ambienti troppo facilmente dichiarati superati e sconfitti da una società liquida che nel web troverebbe l’unica piazza frequentata e frequentabile, facciamo conoscere realtà informative come, chessò, cartadiroma.org; redattoresociale.it; openpolis.it; articolo21.org, organizziamo incontri su incontri che rendano palese la strada necessaria sebbene faticosa e lenta della conoscenza diretta e condivisa (con-de-visu) della verità.
Utilizziamo – ad esempio – le Giornate mondiali o internazionali come il 25 novembre per l’eliminazione della violenza contro le donne; 5 dicembre del volontariato; 10 mondiale dei diritti dell’uomo; 20 dicembre della solidarietà umana; 27 gennaio: internazionale della memoria, per ribadire temi e contenuti forti e nostri. Ossia di coloro che ancora credono che la strada della convivenza civile (e quindi proficua per il benessere di tutti) non possa che passare dal rispetto concreto dei diritti di ciascuno, in primis, propedeutico di tutti gli altri, quello di «manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure» (art. 21 della Costituzione).
* Vittorio Sammarco fa parte della rete di cattolici democratici C3dem-Costituzione Concilio Cittadinanza
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