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Russia-Ucraina. Banco di prova per un’Europa che non c’è

Russia-Ucraina. Banco di prova per un’Europa che non c’è

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 43 del 15/12/2018

Siamo sempre più disabituati alla lettura e alla comprensione della politica internazionale. Viviamo di spot e di slogan e, talvolta senza neppure accorgercene, quando alziamo lo sguardo verso il mondo guardiamo con le lenti di altri. Invece la politica internazionale è essenziale, è il macro-contesto nel quale ciascuno di noi si muove. Ed è lo spazio che orienta, con la forza delle sue ragioni stringenti, molte delle scelte che compiamo. Il conflitto tra Russia e Ucraina è specchio di questo ragionamento, quasi un caso di scuola.

La verità è che non riusciamo a capire che siamo mossi – buona parte del nostro mondo politico e dell’informazione – da un pregiudizio anti-russo che è la persistente (e velenosa) eredità della scelta atlantista imposta all’Europa occidentale a Yalta e all’Europa intera dopo la fine della Guerra fredda.

Si badi bene: non si tratta di rispolverare il campismo a parti invertite, agire in nome di un pregiudizio filo-russo, tifare per Putin, il suo stile autoritario di governo, il suo opaco sistema di potere, le sue scelte in materia economico-sociale o nel campo dei diritti civili. Sarebbe un atteggiamento specularmente ed egualmente sbagliato. Anzi: contro l’innalzamento dell’età pensionabile voluto in questi mesi da Putin si sta mobilitando – per fare soltanto un esempio – un’opposizione interna, popolare e di sinistra, cui guardiamo con simpatia e speranza.

Si tratta, piuttosto, di rivendicare, oltre a un po’ di semplice onestà intellettuale, una posizione di equilibrio e di autonomia. Soltanto attraverso un approccio autonomo l’Europa potrà essere credibilmente protagonista di una nuova fase di apertura nella politica internazionale. E soltanto un’Europa libera dai retaggi ideologici della cortina di ferro e da un atlantismo anacronistico può diventare player significativo nella costruzione di un avvenire di pace e di benessere di un mondo multipolare. Un mondo che appunto è cambiato, grazie alla crescita esponenziale, sul piano economico, politico e militare di Paesi che nel Novecento pativano una posizione di subalternità o di marginalità e che oggi rivendicano spazio e dignità nuovi.

Lo stretto di Kerch è lì, tra il mar Nero e il mare d’Azov, in quella Crimea contesa, al confine tra due Stati, due mondi, due macro-regioni che o riprendono un dialogo o sono destinati ad acuire il loro scontro. E l’Europa nello stretto di Kerch o affonda o riemerge, con equilibrio, diplomazia, spirito di verità. Alcuni pezzi di questa verità, allora.

1. Non sappiamo con precisione quel che è successo il 25 novembre scorso, perché le fonti russe e quelle ucraine non coincidono. Sappiamo però con certezza che tre navi della marina militare ucraina sono state intercettate e sequestrate dalla guardia costiera russa dopo avere violato il confine russo nello stretto di Kerch. E sappiamo con certezza – perché lo hanno detto i servizi segreti russi ma lo ha ammesso anche il presidente dei Servizi di Sicurezza ucraini (Sbu), Vasyl Hrytsak – che alcuni agenti degli Sbu erano a bordo delle tre imbarcazioni militari di Kiev. Non è inverosimile pensare, allora, che si sia trattato di una azione decisa scientemente dal governo di Petro Poroshenko. A quale scopo? Non servono dietrologie ma solo l’analisi fattuale di ciò che è successo dopo.

Poroshenko ha immediatamente firmato un decreto, ratificato poi dal Parlamento, con cui ha istituito la legge marziale. Un provvedimento mai imposto neppure nei quattro anni di guerra civile nel Donbass e che ora gli riserva per un mese il potere assoluto di chiudere le frontiere, controllare i mezzi di informazione, vietare scioperi o manifestazioni di protesta, sciogliere partiti di opposizione e persino sospendere referendum ed elezioni. Tutto questo, non casualmente, a quattro mesi dalle elezioni del marzo 2019, in vista delle quali i sondaggi accreditano Poroshenko di non più dell’8% dei consensi.

2. Ma che Paese è questa Ucraina che istituisce la legge marziale? Non è un Paese democratico, almeno a partire dal colpo di Stato che nel 2014 esautorò l’allora presidente Viktor Janukovich e il Parlamento eletti quattro anni prima con procedura «efficiente, trasparente e onesta» (Osce, 2010) cominciando una guerra civile non ancora conclusa. Un colpo di Stato che fu fomentato e finanziato dagli Stati Uniti con lo scopo di insidiare ancora più da vicino – dopo l’installazione delle basi Nato nel Baltico e dei missili statunitensi in Romania e Polonia – la sovranità territoriale della Russia. Ma l’Ucraina, oltre a non essere un Paese democratico, ha un governo frequentato e sostenuto da partiti nazionalisti ed esplicitamente neo-fascisti. Il Partito nazionalsocialista ucraino è uno di questi e il suo leader Andrij Parubiy, che recentemente ha definito nel corso di una trasmissione televisiva Hitler «un grande democratico», è Segretario del Consiglio della Sicurezza nazionale e della difesa ucraino. L’Ucraina, oltre a questo, è anche un Paese in preda a una corruzione dilagante. In un ottimo saggio per linkiesta.it (da cui abbiamo attinto anche altri dati), Fulvio Scaglione ricorda che, secondo il Centro anticorruzione nazionale, 11 persone detengono il 25% di tutte le licenze per l'estrazione di gas e petrolio. A livello economico, il governo Poroshenko ha prodotto disastri. Oltre a causare in tre anni il crollo del PIL da 183 a 93 miliardi di dollari e l’aumento del debito estero da 300 a 1.233 miliardi di grivne, ha fatto sì che – sempre in tre anni – la percentuale di popolazione sotto la soglia di povertà aumentasse dal 12 al 60%. A ciò si aggiunge quel che il governo sta apertamente sostenendo sul terreno religioso: una frattura all’interno della Chiesa ortodossa (il via libera da parte del patriarca Bartolomeo all’autocefalia della Chiesa di Ucraina, sotto la giurisdizione canonica del patriarcato russo dal 1686, ha portato alla separazione della Chiesa ortodossa russa dal patriarcato di Costantinopoli) che segna una svolta storica e gravida di conseguenze negative per tutto il mondo cristiano [v. Adista Notizie nn. 33, 37/18].

3. L’Europa cosa fa? Continua – è questo il terzo dato di fatto da mettere in evidenza – a sostenere questa Ucraina. Non bastano le sanzioni contro la Russia decise dopo l’annessione della Crimea, che fanno perdere ogni anno all’economia europea, e segnatamente alle piccole e medie imprese che non hanno la forza politica per eluderle, diversi miliardi di euro (la Coldiretti ha quantificato per la sola Italia una perdita di 3 miliardi di euro annui). Non bastano i prestiti e gli aiuti: dal 2014 a oggi 3,8 miliardi di euro in prestiti di assistenza macro-finanziaria e circa 0,6 miliardi di aiuti per il Donbass, l'innovazione tecnologica e l'ammodernamento della pubblica amministrazione. Non bastano la firma nel giugno del 2014 dell’accordo di libero scambio e, complessivamente, dell’accordo di Associazione che prelude, anche se in tempi non certi, all’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea. Dopo il 25 novembre scorso, l’Unione Europea ha infatti già deciso l’aggravamento delle sanzioni contro la Russia. Ha già deciso ancora una volta come e con chi schierarsi. Ricapitoliamo e concludiamo. Abbiamo un episodio, quello del 25 novembre scorso, con molte ombre che imporrebbero grande cautela. Abbiamo un Paese, l’Ucraina, vittima di una spirale autoritaria, sotto legge marziale, incubatore di progetti neo-nazisti e sempre più corrotto. E abbiamo una Unione Europea che lo protegge, finanzia e sostiene, pagando l’ennesimo tributo al dominus statunitense. Perché garantire e stabilizzare l’integrazione dell’Ucraina nell’area dell’Ue e favorire il suo ingresso nella Nato significa contrastare la Russia, i suoi interessi legittimi e le sue (a sua volta pericolose) ambizioni di potenza imperiale.

Sarebbe sensato che l’Europa separasse gli uni dalle altre e li favorisse. Esattamente come sarebbe sensato che frenasse le ambizioni di potenza imperiale degli Stati Uniti, invece di assecondarle. Dicendo per esempio, con grande nettezza, una cosa semplice: che la Nato si è trasformata da alleanza difensiva in alleanza offensiva e che ciò è molto pericoloso. Basterebbe rileggere Tucidide. Come la prima Lega delio-attica, la lega navale sotto la guida di Atene nel V secolo a.C., quando l’egemonia si trasforma in dominio, quando l’autonomia dei singoli membri dell’alleanza non viene rispettata, quando questi sono costretti a condividere integralmente la politica estera dell’egemone, muta il senso della lega. E si prepara la guerra del Peloponneso.

Dopo l’allargamento nel 2000 dell’UE a 27 (un allargamento voluto dagli Stati Uniti ma anche – sul piano strettamente economico – dalla Germania, che poté avvantaggiarsi dell’espansione verso est del proprio mercato), dopo l’installazione nel 2008 dei missili Usa in Romania e Polonia (orientati a est e giustificati con la scusa di un rischio di aggressione all’Europa da parte dell’Iran); e soprattutto dopo lo smembramento della Jugoslavia, la guerra dei Balcani, l’Iraq e la Libia è lecito nutrire dei dubbi.

E se è vero che dal marzo 2020 gli Stati uniti cominceranno a schierare in Italia, Germania, Belgio, Olanda le prime bombe nucleari a guida di precisione del loro arsenale, le B61-12, i rapporti con la Russia saranno più tesi di quanto non siano ora. Soprattutto se alcuni dei più grandi Paesi europei continueranno a spendere per la Difesa più di quanto non faccia la Russia (Francia 67 miliardi di dollari, Regno Unito 70 miliardi di dollari, Russia 61 miliardi di dollari) e gli Stati Uniti, ancora loro, spenderanno più di dieci volte tanto (700 miliardi di dollari).

Basterebbe nutrire qualche dubbio. Correggere l’orientamento strategico, politico e militare dell’Europa. Prima di una ultra-moderna nuova guerra del Peloponneso. 

* Simone Oggionni è membro di Articolo 1 - Movimento Democratico Progressista  

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