
Un programma per la Sinistra. La resistenza civile di cui abbiamo bisogno
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 45 del 29/12/2018
Con l’editoriale pubblicato da la Repubblica del 24 novembre scorso dal titolo “È arrivato il tempo della resistenza civile”, Gustavo Zagrebelsky afferma che «Chi vuole destabilizzare la Costituzione democratica, per poi rovesciarla e costruirne una nuova su altre basi, sa bene che deve incominciare dalla società». Elenca poi, citando uno scritto di Umberto Eco sul “fascismo eterno” pubblicato sullo stesso quotidiano il 2 luglio 1995, le inclinazioni (identità aggressiva, tradizionalismo reazionario, decisionismo, razzismo, pensiero unico e via dicendo) che caratterizzerebbero le «società chiuse di cui il modello primordiale è la tribù». Dopo aver affermato che tutti i fascismi sono tribalisti ma non tutti i tribalismi sono fascisti, il noto costituzionalista così si esprime sul da farsi: a chi pretende di parlare a nome degli «italiani», si opponga il dissenso; a chi esalta la forza, si oppongano il rispetto e la mitezza; a chi burocratizza la scuola per trasformarla in avviamento professionale, si opponga la cultura; alle illegalità, si reagisca con la denuncia; alla discriminazione e alla violenza, si contrapponga la solidarietà; agli «ignoranti» che usano la vuota e spesso oscena neo-lingua, si contesti il loro linguaggio «fino al limite della resistenza ai soprusi e della disobbedienza civile».
Con l’articolo dianzi sintetizzato l’eminente giurista dice cose per le quali gli devono essere grati tutti coloro che si riconoscono nella Costituzione da lui con autorevolezza difesa nella fase preparatoria del referendum del 4 dicembre 2016. Ma se sono pienamente condivisibili tutti gli spunti di riflessione offerti da Zagrebelsky non lo è, almeno per lo scrivente, quella che appare una inspiegabile lacuna nel tessuto del suo intervento e non certo nel suo pensiero. Egli infatti, dopo aver elencato i mali sociali che minano la «società democratica» per destabilizzare la Costituzione, non indica quei comportamenti che colpiscono il lavoro considerato dallo Statuto il valore informativo dell’intero ordinamento, e ledono i diritti sanciti dallo stesso Statuto nel titolo III della seconda parte di esso, quello dedicato ai «rapporti economici». Comportamenti sociali e politici che sembrano non tenere in alcun conto quella stella polare della nostra democrazia che è l’art. 3 della Costituzione il quale proclama il principio dell’uguaglianza e poi, per evitare che questo principio si consumi in una enunciazione non seguita da applicazioni concrete, obbliga la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che di fatto limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini.
Per rispondere compiutamente alla domanda che lo stimato studioso si pone e pone sul da farsi per contrastare «gli elementi del tribalismo» presenti nella nostra società, andrebbero aggiunte alle indicate sollecitazioni quelle della lotta alle povertà, dell’abbattimento della disoccupazione e, più in generale, dell’impegno a superare, per dirla con le parole di papa Francesco, quella «economia dell’esclusione che uccide e provoca rifiuti e avanzi ». E non si dica per giustificare la indicata lacuna che la «resistenza agli abusi» e la «disobbedienza civile » sono da Zagrebelsky invocate solo in funzione della salvaguardia della nostra democrazia perché quando vengono disconosciuti e mortificati diritti sociali fondamentali siamo di fronte a scelte regressive che mettono in pericolo la convivenza democratica e feriscono al cuore la Costituzione repubblicana.
Ne discende che la partita decisiva che si sta giocando nella presente stagione politica è quella fra le forze che accettano il sistema economico dominante e le istanze di liberazione e di riscatto che lo vogliono superare per costruire in Italia, in Europa e nel mondo un modello di economia più umano e più giusto. Un compito questo che dovrebbe essere la carta di identità di quella sinistra che aveva acceso grandi speranze nel cuore dei lavoratori e dei cittadini più deboli facendo fare ad essi significativi passi avanti (lavoro dignitoso, assistenza sanitaria, istruzione, previdenza) e che oggi, imbrigliata come appare nella rete del liberismo, predica e pratica un riformismo che fa il verso alla destra neoliberista. Una sinistra che rischia di disperdere il patrimonio di speranze, di ideali e di lotte del movimento operaio e degli altri movimenti di emancipazione sociale. Un patrimonio destinato a incontrarsi con la domanda di giustizia della cultura laica di segno progressista e con le istanze di liberazione del solidarismo cristiano secondo il quale, come ebbe a dire il papa polacco Giovanni Paolo II, «è inaccettabile l’affermazione che la sconfitta del socialismo reale lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica» (Enciclica Centesimus annus, 10 maggio 1991). Il mondo ha bisogno di un fecondo incontro fra forze progressiste di cultura diversa che vogliono con lo strumento della partecipazione rivitalizzare le democrazie svuotate dal “pensiero unico” e costruire un modello di economia che combatta le disuguaglianze sociali e ponga al centro delle sue logiche la libera soggettività del lavoro.
Non è accettabile l’idea liberista che concepisce la libertà solo come “deregolamentazione del mercato”. Tocca allora alle forze della sinistra progressista comunque etichettate e ovunque presenti elaborare un modello di economia tale da favorire il progressivo superamento del capitalismo “reale”. E lo si dovrebbe fare partendo dal rilancio della nostra Costituzione che fonda la Repubblica democratica sul lavoro, che promuove la partecipazione dei lavoratori alla organizzazione politica ed economica del Paese, che fa carico allo Stato di rendere effettivo il diritto al lavoro, che all’art. 38 stabilisce che «i lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita» non solo nell’eventualità di malattia e altre invalidità ma anche in caso di «disoccupazione involontaria» (una norma questa che sancisce la doverosità di tale misure). Ed ancora una Costituzione che riconosce la proprietà privata, ma ne sottolinea la funzione sociale indicando l’obiettivo di renderla accessibile a tutti, che afferma la libertà dell’iniziativa economica privata ma indirizzata a fini sociali, che riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità, che riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione dell’azienda, che tutela il risparmio in tutte le sue forme e favorisce l’accesso «del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e all’investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese». Certo, in tempi di imperversante neoliberismo è arduo rilanciare le direttive della Costituzione in campo economico-sociale ma lo si deve fare perché è questo il terreno sul quale si deve misurare l’adeguatezza e l’efficacia della invocata «resistenza civile».
* Michele Di Schiena è presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione
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