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PRIMO PIANO. Ratisbona, Abu Dhabi e una “favola buddista”

PRIMO PIANO. Ratisbona, Abu Dhabi e una “favola buddista”

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 8 del 02/03/2019

Il dialogo tra le culture e tra le fedi è questione complessa. Implica livelli di confronto e di apertura assai difficili. Tanto più che le fedi sono provocate da un mondo che vive secondo stili civili, sociali e culturali in cui la “indifferenza religiosa” è sempre più accentuata. Ma in questi modelli di vita la libertà di coscienza e la fratellanza, la tolleranza e il rispetto per il diverso, per quanto formalizzate ed talora anche svuotate, hanno effettivamente acquisito un peso di grande rilevanza, che non può essere sottovalutato.

Allora è chiaro che, nel momento in cui la tradizione cristiana e quella musulmana firmano comunemente un testo come quello di Abu Dhabi, questo implica che il dialogo a cui si espongono ha saputo elaborare una visione “interna” di qualità superiore, non perché abbia rinunciato a qualcosa di sé, ma perché ha potuto meglio comprendere il proprio compito e il messaggio di cui è portatrice “in rapporto agli altri”. Se gli uomini e le donne “altro credenti” diventano interlocutori privilegiati (e non nemici di cui diffidare o infedeli da convertire) questo indica una profonda rielaborazione della identità, che si è potuta “esporre” alla modernità senza lasciarsi catturare da ruoli predeterminati.

Può essere utile considerare ciò che è accaduto ad Abu Dhabi, facendo un confronto di ciò che avvenne a Ratisbona, 13 anni fa, nel 2006, ma tenendo d’occhio anche un discorso, tenuto a Parigi, esattamente 20 anni fa.

I diversi contesti, la obiettiva evoluzione In primo luogo, è bene distinguere con cura i due diversi “contesti” da cui emergono posizione inevitabilmente differenziate. Altra cosa è una “lezione universitaria” – piena di affetti e di memorie – in cui papa Benedetto affrontava il tema “fede e ragione”; altra cosa è un contesto esplicitamente dialogico, diplomatico, interreligioso e politico, in cui si firma un “documento comune” tra tradizioni religiose e civili diverse. La prevalenza di un registro “teologico” a Ratisbona, e di un registro “politico” a Abu Dhabi non deve però far perdere di vista la profonda interferenza precisamente tra questi registri: molta politica discende dalla teologia, e molta teologia dalla poli tica. Anzi, io direi che la prima cosa che deve essere notata è proprio una caratteristica “strutturale” del pensiero e della azione di papa Francesco: ossia la “radicazione culturale” del discorso teologico, che in tal caso acquisisce nozioni della “cultura civile” e le fa diventare decisive per la prospettiva teologica: uguaglianza, fratellanza, libertà e democrazia diventano “nozioni-chiave” per il discorso papale. Qui, a mio avviso, la recezione dell’approccio del Concilio Vaticano II raggiunge nel discorso di Abu Dhabi la sua massima evidenza. Il documento comune inizia con queste parole: «La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare».

Questione fede/ragione, ragioni storiche e politiche della fede

L’impostazione del discorso di Ratisbona si confrontava con la tradizione islamica in modo “obliquo”, come “caso specifico” di un rapporto tra fede e ragione che faceva riferimento alla tradizione musulmana solo come “exemplum” di una tendenza che poi veniva identificata, nel cuore della tradizione cristiana, come “deellenizzazione”. Il protestantesimo, la teologia liberale e infine la “inculturazione” erano considerate, in quel discorso, come “onde” con cui avveniva una presa di distanza tra la fede biblica e cultura razionale greca. La via del dialogo, per Benedetto XVI, passava invece attraverso una nuova alleanza tra fede e ragione, che ampliasse il concetto stesso di ragione. Poiché l’esempio tratto dalla tradizione musulmana conteneva la citazione di un giudizio pesantemente critico nei confronti di Maometto, ciò diede origine, per molti anni, a posizioni esasperate di ostilità verso la cultura musulmana, e da parte della stessa cultura, che cercavano e indirettamente trovavano un appoggio nel discorso del 2006.

Ad Abu Dhabi ci troviamo in tutt’altro registro. Il centro del discorso non è la questione astratta del rapporto tra fede e ragione, ma la concreta vocazione alla pace delle diverse religioni. Perciò tutto il discorso utilizza riferimenti biblici di sfondo e lavora con concetti “politici” che trovano nelle diverse tradizioni religiose il loro contesto di giustificazione e di promozione. Così alla vocazione alla pace i diversi popoli rispondono con una radicale confessione di “fratellanza”, con il riconoscimento della eguale dignità di tutti gli uomini, senza che vi siano padroni o schiavi; riconosce che la propria identità deve avere il “coraggio dell’alterità”, per lasciarsi arricchire dall’incontro con il diverso, del quale si deve onorare la originaria libertà; dialogare e pregare si implicano a vicenda; educazione e giustizia sono le ali su cui la colomba della pace può librarsi in alto; ogni popolo, se vuole la pace, deve restituire la parola guerra alla sua miserevole crudezza. Con tanta parrhesia si è espresso Francesco. E non da solo.

Dalla diffidenza/autorità alla fratellanza/libertà di coscienza

Ciò che deve essere considerato il progresso più significativo è il “rischio della fraternità”. Lo chiamo rischio perché impone, al papato come anche a tutta la Chiesa, una grande conversione. Chi ha messo con benevolenza in luce i rischi e le stranezze della operazione (mi riferisco alle belle considerazioni sui “punti grigi” del viaggio papale di F. Strazzari, http://www.settimananews.it/re portage-interviste/il-papa-adabu- dhabi-punti-grigi/) deve riconoscere che qualcosa di pro- fondo è mutato. Si imposta il rapporto con le altre tradizioni religiose sulla base di “evidenze comuni”, le quali costringono ad una profonda revisione le singole Chiese e religioni, al loro interno e al loro esterno. Assumere le categorie della politica moderna (eguaglianza, libertà e fraternità) come “luoghi di evidenza” tra tradizioni depositarie addirittura della “autorità di Dio” costituisce una novità sorprendente e di grandissima importanza. In un certo senso, la grande svolta che il Concilio Vaticano II ha elaborato con la Costituzione Gaudium et spes e con la Dichiarazione Dignitatis humanae diventa centrale in un rinnovato rapporto di alleanza e di collaborazione tra fede cristiana e fede islamica. La autorità di Dio si rivela nella dignità di ogni uomo e la libertà dell’uomo, in comunione col prossimo e con Dio, diviene la via con cui si manifesta la grazia di Dio e il dono della pace.

Prima di Abu Dhabi e di Ratisbona: Parigi 1999 e la “favola buddista” sui ciechi e l’elefante.

Per capire meglio la novità di questa svolta possiamo, alla fine, tornare ad una favola, alla quale si ispirò J. Ratzinger, alcuni anni prima di diventare papa, quando a Parigi, 20 anni fa, nel 1999, parlò agli scienziati della Sorbona. La favola del re indiano, che si diverte a interrogare i ciechi sulla natura dell’elefante, era stata utilizzata come immagine del rapporto tra cristianesimo e verità. E tutte le questioni istituzionali, etiche e relazionali discendevano, in quella conferenza, dalla possibilità di identificare il cristianesimo come “religio vera”. Venti anni dopo, il testo di quella conferenza, che per certi versi anticipava le parole di Ratisbona, segnano anche i termini di un approccio che appartiene ad una impostazione da rivedere. La riduzione intellettualistica di tutte le questioni “istituzionali” ad un rapporto con la verità definiscono la sostanziale irrilevanza della contingenza rispetto alla verità. Proprio su questo punto il discorso di Abu Dhabi segna una svolta di grandissimo rilievo, per la cultura cattolica. Non perché pretenda di rimuovere tutte le giuste preoccupazioni che emergono dal testo di Parigi e di Ratisbona. Ma perché rilegge diversamente “il rapporto con l’elefante”. La conoscenza della verità, infatti, non coincide con la definizione giusta di elefante. L’insieme di “visioni prospettiche”, nella loro parzialità, attingono alla verità. Non vi è più un re che ride dei ciechi, ma una pluralità di esperienze che costituiscono il grande corpo della Chiesa.

Nella misura in cui si accede alla verità per la mediazione di questa pluralità intrinseca alla tradizione, allora il “coraggio della alterità” diventa strutturale e persino necessario. In questa differenza di prospettiva sta la distanza tra Abu Dhabi e Ratisbona, tra società aperta della dignità e società chiusa dell’onore, tra paradigma della complessità e pretesa di semplicità. A Ratisbona il principio di autorità ha cercato una evidenza. Ad Abu Dhabi il principio di libertà ha cercato nuova autorità.   

* Andrea Grillo è liturgista e docente di Teologia dei sacramenti e Filosofia della Religione a Roma, presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo e Liturgia a Padova, presso l’Abbazia di Santa Giustina.  

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