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Donna e teologa: doppio slalom per la laicità

Donna e teologa: doppio slalom per la laicità

Tratto da: Adista Documenti n° 12 del 30/03/2019

Sono laica e donna, docente di Storia della Chiesa in una facoltà teologica. Nella mia istituzione accademica, una piccola percentuale di donne che esercitano la docenza è presente da varie decine di anni; già nell’anno accademico 1997-98, si contava circa un 13% di donne docenti. In questo anno accademico 2018-19, su un totale di 82 docenti a vario titolo (stabili, incaricati, invitati, assistenti), 16 sono donne, tra cui anche qualche religiosa. Una minoranza, certamente esigua, ma storica.

Solo lentamente e faticosamente dopo il Vaticano II i laici in generale e le donne in particolare hanno fatto il loro ingresso come studenti e poi come docenti nelle facoltà teologiche. Il ricordo va alle donne che fecero parte di questa prima generazione pionieristica, come Rosemary Goldie, che partecipò al Concilio Vaticano II tra le auditrices e che, pur senza possedere – per forza di cose – titoli accademici, diventò la prima docente stabile alla Pontificia Università Lateranense, presso l’Istituto di teologia pastorale. O come Maria Luisa Rigato, che nel 1965 riuscì ad ottenere l’ammissione al Pontificio Istituto Biblico, divenendo poi docente e biblista affermata, non senza aver dovuto tenacemente lottare per ottenere, in un mondo rigorosamente maschile, il giusto riconoscimento. O, ancora, come Nella Filippi, che nel 1970 conseguì all’Angelicum il titolo accademico che le diede l’accesso alla cattedra di Cristologia.

La laicità, intesa come condizione laicale, ha inciso negativamente sulla possibilità di intraprendere studi e percorsi accademici in teologia. Chi ha percorso fino in fondo l’iter ha dovuto attraversare, e attraversa ancora oggi, una serie di difficoltà. Frequentare la facoltà di teologia, infatti, anche attualmente, rappresenta una scelta coraggiosa e rischiosa poiché chi è destinato a sostentarsi con il proprio lavoro trova pochissimi sbocchi lavorativi, essenzialmente gli stessi di chi consegue il Magistero in scienze religiose. Si può dire, anzi, che questa divaricazione dei percorsi accademici ha reso il conseguimento dei titoli in Sacra Teologia più facile per gli aspiranti chierici e per i religiosi, destinando ai laici un percorso “alternativo”, che sotto molti aspetti viene ancora considerato di qualità inferiore. Le laiche e i laici che riescono a conseguire i gradi accademici in Teologia impiegano molto più tempo dei loro colleghi che appartengono al clero o a ordini e congregazioni, dovendosi nel frattempo occupare della propria autonomia economica. Questo vuol dire che solo laici fortemente motivati e convinti che la teologia non sia una riserva clericale riescono nell’intento. La separazione degli studi, inoltre, incide negativamente anche sulla formazione di chierici e religiosi, come degli stessi laici: una convivenza formativa, infatti, contribuisce a far maturare una coscienza di comune appartenenza, di collaborazione e di condivisione, contrasta quel senso di separatezza clericale, mai veramente morto, che tende a rivitalizzarsi nella Chiesa e che lo stesso papa Francesco in moltissime occasioni e in tanti modi combatte e stigmatizza come antiecclesiale.

La laicità, intesa come presenza dei laici e delle donne in particolare nelle facoltà di teo logia andrebbe dunque favorita e incoraggiata, invece che disincentivata, come accade quando si guardano le cose da una prospettiva clericale e non si comprendono le necessità dei laici stessi, le loro differenti condizioni di vita. Declericalizzare la teologia vuol dire in primo luogo rimuovere ostacoli materiali ben precisi.

In secondo luogo, ancora è diffusa la mentalità che occuparsi di teologia o anche di storia religiosa, sia qualcosa di destinato agli addetti ai lavori, che si tratti di sviluppare una “professionalità di casta”, insomma una cosa da preti, quindi, in fondo, anche una roba da uomini, visto che i preti sono di sesso maschile. Si coltiva, in questo modo, la paradossale condizione in cui la religione considerata ancora da tanti una cosa da donne (si pensi alla significativa maggioranza di donne che frequentano con assiduità l’Eucarestia rispetto agli uomini, o che fanno le catechiste formando i più piccoli per la prima comunione) vede però i maschi come gestori del sacro e del sapere teologico. Essere donne che si occupano di discipline teologiche in contesti accademici vuol dire contribuire a scardinare un’egemonia che non ha fatto certo bene alla Chiesa. Quanto questo legame clero-teologia sia stato storicamente forte, ce lo ricorda – quasi cifra emblematica – la storia della prima donna che compì, nel 1678, l’intero corso degli studi teologici; si chiamava Elena Lucrezia Cornaro Piscopia e non poté conseguire il dottorato in teologia poiché i titoli teologici non si potevano disgiungere dalla condizione clericale.

Bisogna dire che il conseguimento dei titoli accademici più elevati, l’attività di ricerca, la produzione teologica laicale e femminile, non corrisponde alla presenza nelle istituzioni accademiche. Una ricerca che conducemmo nove anni orsono, all’interno di un seminario dell’Istituto di Storia del Cristianesimo della nostra facoltà e che pubblicammo con il titolo Teologhe in Italia. Indagine su una tenace minoranza (a cura di Anna Carfora e Sergio Tanzarella, il pozzo di Giacobbe, Trapani 2010), mise appunto in evidenza questo divario: a fronte di un alto livello di istruzione teologica e di attività di ricerca, si rivela un numero ancora ridotto di accademiche e, di queste ultime, solo una minoranza è stabile; la maggior parte delle laiche è incaricata o invitata, dunque “precaria” e costretta ad una forma di part time teologico per guadagnarsi altrimenti da vivere. Questo dato appare confermato da una ricerca di stampo sociologico pubblicata cinque anni fa (Carmelina Chiara Canta, Le pietre scartate. Indagine sulle teologhe in Italia, Franco Angeli, Milano 2014). Non mi risultano, al presente, dati in significativa controtendenza.

La costituzione apostolica di Giovanni Paolo II, Sapientia christiana è stata per circa quarant’anni la magna charta delle università e facoltà ecclesiastiche. In questo documento si affermava esplicitamente che le università e facoltà teologiche sono destinate a chierici e laici, senza introdurre ulteriori distinzioni. Tuttavia la sola presenza di laici e laiche non basta. Si avvertiva sempre più nettamente che questo documento aveva fatto il suo tempo e che la vita delle istituzioni accademiche finiva per risultare ingabbiata. Veniamo, infatti, da anni di restaurazione ecclesiastica e di difficoltà per la parola teologica, quando non addirittura di afasia. Il referente dei teologi è stato troppo spesso la Congregazione per la Dottrina della Fede, che rappresenta emblematicamente la strettoia nella quale viene a trovarsi la teologia. La questione della laicità non è, evidentemente, soltanto quella dei laici e delle donne nelle facoltà teologiche, ma è anche la questione della laicità della teologia stessa, ossia della possibilità di ricercare per davvero, di uscire, ancora una volta, dall’orizzonte clericale, che costituisce una delle malattie ecclesiali di cui parla papa Francesco.

Lo stesso Francesco, nel 2018 ha promulgato la Veritatis gaudium, che va a sostituire la costituzione precedente. Nel proemio di questo documento si individuano diversi punti che offrono la possibilità di un cambiamento di rotta. Il papa parla in termini di rivoluzione culturale che la teologia deve realizzare. Mi sembra che un fattore non trascurabile di questa possibile rivoluzione culturale stia nell’oggetto della riflessione teologica che Veritatis gaudium propone, costituito da temi che riguardano tutta l’umanità come il degrado dell’ambiente, i poveri, l’economia e la società; dunque alcuni esempi di tematiche “laiche” affrontate con «un’ermeneutica evangelica». Presa sul serio, questa potrebbe essere un’autentica rivoluzione copernicana. A questa proposta si collega quella di un «dialogo a tutto campo, non come mero atteggiamento tattico, ma come esigenza intrinseca», con chiunque, quali che siano la sua fede o le sue convinzioni. Tutto ciò richiede, per essere realizzato, condizioni di libertà e serenità nella ricerca, non facili da realizzare. È lo stesso documento, in realtà, a far sorgere qualche perplessità. Si osserva, infatti, una differenza di impostazione tra il proemio e il corpo del documento che nella normatività che lo caratterizza pare normalizzare ciò che il proemio ha destabilizzato. Se per un verso il rischio di reazioni gattopardesche è elevato, contemporaneamente non mancano coloro che agitano lo spettro della dissoluzione del cattolicesimo e dell’apostasia dalla fede. Penso, invece, che questo esprima la paura di una frantumazione identitaria, vera ossessione del nostro tempo. Laicità teologica, allora, vuol dire anche sottrarsi alla cattura di una declinazione identitaria della fede.  

Anna Carfora è docente di Storia della Chiesa presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale (Sezione San Luigi).

Parte inferiore del fronte di copertina del libro di Anna Carfora e Sergio Tanzarella Teologhe in Italia

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