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Costituzione: i fuorilegge e i difensori

Costituzione: i fuorilegge e i difensori

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 26 del 13/07/2019

Sul caso Sea Watch 3 il punto di vista del giurista viene percepito come uno dei tanti e, pertanto, destinato inevitabilmente a soccombere dinanzi agli slogan e alla propaganda in cui oggi prevalentemente si esprime la politica. Una politica che, anzi, in nome della difesa dei confini e della sicurezza nazionale – la nuova ragion di Stato – rivendica a sé il diritto di poter legiferare sul fenomeno migratorio in assoluta discrezionalità. Sarà forse il caso, allora, di ricostruire le regole, innanzi tutto costituzionali, che disciplinano la condizione giuridica dello straniero; quelle regole che, per riprendere una efficace espressione, ci siamo dati da “sobri” per ricordarcene nei momenti, come gli attuali, in cui i più paiono “ubriachi”.

Cominciamo, allora, col ricordare che, nel disciplinare «la condizione giuridica dello straniero», il legislatore non è libero perché deve conformarsi alle consuetudini ed ai trattati internazionali (art. 10.2 Cost.). Tale limite, esteso nel 2001 a tutta la legislazione statale e regionale (art. 117.1 Cost.) fu stabilito dal costituente fin dal 1948 per evitare in una materia simile «un intollerabile sfasamento circa la realizzazione “domestica” di principi universalmente affermati e, dunque, patrimonio comune delle genti» (C. cost. 129/2008). Pertanto, la legislazione sugli stranieri che non rispetta le fonti internazionali, incluse oggi quelle dell’Unione europea, è incostituzionale. Inoltre, sempre la Costituzione, superando la classica distinzione tra cittadini e stranieri, riconosce e garantisce a questi ultimi le libertà ed i diritti fondamentali inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.), non perché quindi partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani (C. cost. 105/2001). Se un tempo, quindi, era lo status del soggetto (cittadino o straniero) a determinare i diritti, oggi, al contrario, sono i diritti che prevalgono perché attribuiti a ogni essere umano, indipendentemente dal suo status. Grazie anche alla giurisprudenza costituzionale, la posizione dello straniero – non solo se regolarmente soggiornante ma anche quando clandestino comunque presente nel territorio – si è andata progressivamente assimilando a quella del cittadino, sicché gli unici due campi in cui sussistono significative differenze riguardano la libertà di circolazione e soggiorno (ovviamente) e il diritto di voto.

La Costituzione, però, non si preoccupa solo di assicurare allo straniero i diritti inviolabili spettanti ad ogni persona, ma gli attri buisce in più lo specifico diritto di asilo. Difatti, «lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge» (art. 10.3; v. anche art. 14 Dichiarazione dei diritti dell’uomo approvata dall’ONU il 10 dicembre 1948). Lo straniero, quindi, ha diritto d’asilo politico se le condizioni oggettive del Paese di provenienza siano tali da impedirgli di esercitare in modo permanente, complessivo e di fatto le stesse libertà di cui si sostanzia la nostra democrazia. Pur in assenza della relativa legge attuativa, il diritto soggettivo all’ottenimento dell’asilo trova oggi fondamento in forza dell’applicazione diretta del citato art. 10.3 Cost., quale disposizione non programmatica ma immediatamente precettiva. Per questo motivo, esso è oggi attuato e regolato tramite tre istituzioni di protezione:

1) il diritto al rifugio politico spettante agli stranieri per i quali esiste il fondato timore di persecuzioni personali per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica;

2) la protezione sussidiaria e temporanea per gli stranieri che, se rimpatriati nel Paese d’origine o di provenienza, correrebbero il rischio effetto di subire un grave danno come pena di morte, tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante o minaccia grave e individuale alla propria vita a causa di violenze indiscriminate in situazioni di conflitto armato o internazionale;

3) i permessi di soggiorno temporaneo che il decreto legge n. 113/2018 (c.d. decreto sicurezza) ha circoscritto a casi speciali, dovuti più a ragioni sociali che alla protezione internazionale, abrogando i precedenti permessi di soggiorno rilasciati per seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali del nostro Stato.

I primi due istituti rientrano nella c.d. protezione internazionale mentre il terzo è previsto ma non imposto dall’Unione Europea. La difesa dei confini, che è certo compito ineludibile dello Stato (C. cost. 353/1997) non può, quindi, essere opposta per respingere gli stranieri che invocano e dimostrano di avere i requisiti per ottenere la protezione internazionale. Consentire, infatti, tale protezione solo agli stranieri presenti nel suolo italiano significherebbe di fatto vanificarla. Respingere collettivamente alla frontiera gli stranieri, senza dar loro modo di esercitare il diritto di asilo, significa dunque violare la Costituzione e gli obblighi internazionali, come confermano le sentenze di condanna del nostro Paese emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (19.1.2010 Hussun e altri c. Italia; Grande Camera, 23.2.2012 Hirsi Jamaa ed altri c. Italia).

Piuttosto, secondo il c.d. regolamento di Dublino III, è obbligo dello Stato dell’UE di primo ingresso o registrazione esaminare tali domande di protezione internazionale e consentire, nelle more, allo straniero di rimanere nel territorio nazionale, in condizioni che il citato c.d. decreto sicurezza ha notevolmente peggiorato, vietando loro d’iscriversi alle anagrafi comunali e di accedere al Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR). Un regolamento – quello di Dublino – che certo, quale Paese di primo ingresso, ci penalizza ma che le attuali forze di governo non hanno fatto nulla per modificare, disertando e votando contro le iniziative di modifica avviate dal Parlamento europeo nella trascorsa legislatura.

Alla luce di quanto sopra è evi- dente che la decisione di limitare o vietare l’ingresso e la sosta nelle acque territoriali delle navi con a bordo stranieri, senza verificare se hanno effettivo diritto alla protezione internazionale, oltreché eticamente discutibile, è a mio parere giuridicamente contraria alla Costituzione e al principio internazionale di non respingimento (non refoulement). A tale conclusione non osta la recente sentenza della stessa Corte di Strasburgo che ha respinto il ricorso della Sea Watch 3 solo perché, in sede di urgenza, non ha rinvenuto nel caso specifico l’esistenza di un «reale rischio di danno irreparabile» per i migranti a bordo. Nulla quindi che abbia legittimato la politica dei porti chiusi.

Nel nostro ordinamento, poiché il singolo non può fare ricorso diretto alla Corte costituzionale per lamentare la violazione di un proprio diritto fondamentale, occorre che egli violi la legge che ritiene in contrasto con la Costituzione, così da instaurare un processo nel corso del quale sollevare l’eccezione d’incostituzionalità. Sarà a quel punto la Corte – e solo essa – a decidere se chi vi abbia disubbidito sia un fuorilegge oppure un difensore della Costituzione.  

Salvatore Curreri è professore in Diritto costituzionale Libera Università degli studi di Enna “Kore”.

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