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Il clima sommo bene comune e la leva di Archimede

Il clima sommo bene comune e la leva di Archimede

Tratto da: Adista Documenti n° 42 del 07/12/2019

C’era ancora tempo, allora... Quarant’anni fa si tenne a Ginevra la prima Conferenza mondiale sul clima, ovvero sul «più fondamentale dei beni comuni, essenziale e indivisibile», per dirla con l’organizzazione Global Commons Institute e con il suo fondatore Aubrey Meyer, musicista diventato volontario per il pianeta. Su questa base, egli elaborò la strada maestra della Contraction&Convergence (Contrazione e convergenza, C&C): ridurre le emissioni globali e redistribuirle equamente, superando la grande ingiustizia per la quale i popoli meno responsabili dell’aumento della temperatura ne subivano maggiormente le spese.

Nel 1991, mentre l’Occidente andava in direzione opposta con la guerra del Golfo per il petrolio, C&C cominciò a proporre l’idea in sede Onu. Nel 1992 fu adottata la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (Unfcc) che entrò in vigore nel 1994, avviando una lunga serie di negoziati annuali, le Copconferenze delle parti.

Un percorso a ostacoli, decenni quasi perduti a colpi di minutissimi impegni e grossi dietrofront. E adesso, arrivati alla Cop 25 (dicembre 2019, a Madrid), «l’umanità è di fronte a una minaccia catastrofica» e, senza cambiamenti profondi per superare un sistema insostenibile, «indicibili sofferenze umane» saranno inevitabili: parola di 11mila scienziati provenienti da 153 nazioni, sottoscrittori di una documentatissima dichiarazione di emergenza climatica curata da una quarantina di loro colleghi e pubblicata il 5 novembre 2019 dalla rivista BioScience con il titolo “World Scientists’ Warning of a Climate Emergency”. Preoccupano in particolare i potenziali punti di non ritorno, con «reazioni a catena capaci di distruggere ecosistemi, società, economie, e di rendere inabitabili ampie aree del pianeta».

Reazioni a catena a parte, le conseguenze del caos climatico sono già una corona di spine: eventi climatici estremi (tempeste e inondazioni alternate a siccità e ondate di calore), scioglimento dei ghiacciai e delle calotte polari (con l’incubo della liberazione del metano che intrappolano), alterazione del regime delle piogge, perdita secca di biodiversità, scarsità idrica, danni all’agricoltura, innalzamento del livello dei mari, migrazioni ambientali (dal 2008, 265 milioni di sfollati), morte delle barriere coralline…

Tutto perché, come riassume il dossier Cambiamenti climatici. Cause e rimedi a partire da noi, curato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo, a causa dei principali gas serra di origine antropica – ovvero anidride carbonica, prodotto di rifiuto di ogni combustione, metano, protossido di azoto e altri –, dal 1850 a oggi la temperatura terrestre è aumentata di 1°C. Colpa di molti settori: industria, trasporti, abitazioni ed edifici, allevamenti, agricoltura.

Nel 2018 abbiamo superato la concentrazione di 410 ppm (parti per milione) di CO2; nel 1990 era a poco più di 350. L’80% delle emissioni antropogeniche è causata dalla combustione di carbone, petrolio e gas. Le tonnellate di gas serra emesse annualmente a livello globale sono 42 miliardi. Con la fotosintesi clorofilliana ne vengono assorbiti 20 miliardi, il resto si somma in atmosfera. Quanto alle emissioni pro capite, sono pari a 6,7 tonnellate all’anno, ma molto iniquamente distribuite.

Secondo il Rapporto speciale riscaldamento globale di 1,5°C (del 2018), redatto dagli scienziati dell’Ipcc (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, creato nel 1988), occorrono in pochi anni «cambiamenti senza precedenti e lungimiranti in ogni aspetto del vivere sociale – uso della terra, energia, trasporti, industria, costruzioni, città –, così da limitare il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto all’era preindustriale». Per rispettare questo numero magico, indispensabile anche se non sufficiente, già abbozzato nell’Accordo di Parigi (alla Cop21 del 2015: gli Stati Uniti hanno da poco annunciato il loro ritiro), le emissioni globali nette di gas serra dovranno scendere del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2010, per arrivare a zero netto nel 2050.

Un dato chiave è il carbon budget o bilancio del carbonio. Come ha riassunto l’attivista sedicenne svedese Greta Thunberg: «Se vogliamo avere un 67% di possibilità che la temperatura globale rimanga al di sotto di 1,5°C, abbiamo un carbon budget molto risicato: nel 2018 erano 420 miliardi di tonnellate, oggi ancor meno. Il problema è che produciamo 42 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno». In pochi anni lo esauriremmo.

E dunque che fare? Intanto, “non è troppo tardi”, sperano gli 11mila scienziati. Per i quali, se sono scioccanti le iperboli dell’incremento demografico (più 200mila umani ogni giorno), dei voli aerei, della produzione di carne, non mancano i segni incoraggianti: accresciuto interesse da parte delle popolazioni e in particolare dei giovani (il 2019 è l'anno di giganteschi scioperi per il clima), impegni di governi e imprese, crescita delle energie rinnovabili e i disinvestimenti dal settore fossile. Da parte di tutti gli attori, governi a ogni livello, cittadini, mondo della produzione occorrerà uno sforzo titanico, il quale però porterebbe innumerevoli vantaggi collaterali: «Più giustizia sociale ed economica per tutti e un ben maggiore benessere».

La proposta è percorrere sei cammini. Efficienza energetica, basta con l’estrazione di nuovi combustibili fossili, stop ai sussidi alle fonti di energia climalteranti, freno all’estrazione di minerali e metalli. Riduzione degli agenti inquinanti atmosferici. Stabilizzazione della popolazione con un approccio etico e l’educazione delle ragazze. Ottimizzazione delle risorse alimentari: mangiare meno carne (gli allevamenti provocano il 14% delle emissioni di origine antropica) e ridurre gli sprechi di cibo. Dire addio al mito del Prodotto Interno Lordo per abbracciare un’economia carbon-free. Stop alla distruzione della natura, recupero degli ecosistemi terrestri e acquati ci, foreste, praterie, torbiere, mangrovie, barriere coralline, fitoplancton, alghe…

Ecosistemi protetti proteggono il clima: come spiega un rapporto della Fao (Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura delle Nazioni Unite), l’agro-silvicoltura e la protezione delle foreste mitigano i cambiamenti climatici, e il miglioramento della salute dei suoli degradati oltre ad aumentare la produzione di cibo può rimuovere fino a 50 miliardi di tonnellate di carbonio rilasciate nell’atmosfera.

Certo, da parte del business e di tanti governi, molte sono le false soluzioni avanzate per non dover abbattere le emissioni «lorde» ma piuttosto catturarle con marchingegni, così da non dover uscire davvero dalla follia consumistica e dai combustibili fossili dei quali le emissioni sono micidiale effetto collaterale. Il «capitalismo verde» è un ossimoro, insiste Brian Tokar nel libro Toward Climate Justice, allertando sulle geo-ingegnerie, fantasiose o dall’impatto inquietante, sul nucleare, sul commercio dei diritti di emissione, sui biocombustibili e le piantagioni in monocoltura, sulle varie forme di «compensazione» (offsets) tramite rimboschimenti (che hanno un potenziale importante ma limitato): acquisti di indulgenze a cui si dedicano perfino le majors petrolifere per darsi la vernice verde «emissioni nette zero».

Avverte poi Daniel Tanuro (autore de L’impossibile capitalismo verde) su Jacobin: la transizione post-estrattivista richiede molta energia, e per fabbricare le attrezzature delle energie rinnovabili occorre estrarre e lavorare metalli e minerali da mezzo mondo. Insomma, «per una vera soluzione occorre produrre di meno, condividere di più, soddisfare solo bisogni reali e non perseguire il lucro». Più in dettaglio: sopprimere le produzioni dannose (in primo luogo le armi e i loro derivati: le guerre), uscire dal modello auto e aereo, rendere davvero ecologici gli edifici, dire addio all’agribusiness e (quasi) al consumo di carne, rendere pubbliche energia e finanza, meno mercato, ricchezza redistribuita, riconversione totale del lavoro. E abolizione del debito del Sud del mondo, il quale ha anche diritto a più spazio climatico. Già: nella ricerca di mitigazione dei cambiamenti climatici e di adattamento a quelli ormai inevitabili, non si può dimenticare l’equità. Purtroppo, invece di restituire il maltolto, i Paesi storicamente grandi emettitori, «debitori climatici», hanno il braccino corto: è fermo a 7,5 miliardi di dollari il Global Climate Fund, canale multilaterale destinato a finanziare energie non fossili e sistemi agricoli resilienti nei Paesi più poveri del pianeta.

Nel suo libro Il clima è (già) cambiato, il docente di mitigazione dei cambiamenti climatici Stefano Caserini spiega che per la transizione verso un nuovo sistema energetico, decarbonizzato, non esiste un’unica soluzione miracolosa, un silver bullet contro il Dracula climatico: tante e diverse azioni e tecnologie a tutti i livelli possono permettere di far fronte ai bisogni energetici mondiali nei prossimi decenni senza aumentare le emissioni climalteranti. Molte sono già prassi corrente qui e là.

Alle soglie del nuovo millennio, venti anni fa, lo State of the World 1999 del centro di ricerca ambientale WorldWatch Institute spiegava l’urgenza di un cambiamento drastico. Leggi, tecnologie, riconversione globale, ma anche impegno personale: come spiega il Centro Nuovo Modello di Sviluppo, puntare sulle rinnovabili, diventando “prosumatori” di energia, cambiare alimentazione (filiera corta, meno carne), passare alla mobilità dolce, costruire meno e meglio; e avvicinare, rallentare, condividere. Meno, diverso, condiviso.

A prenderla davvero sul serio, la spada di Damocle che ci pende sulla testa potrebbe diventare una leva di Archimede?  

Ecopacifista, giornalista, saggista e lavoratrice manuale, Marinella Correggia si occupa di giustizia ambientale e climatica, lotta contro la fame, per il rispetto dei viventi, stili di vita ecoequi, prevenzione dei conflitti. Collabora con Altreconomia, il manifesto, Adista e altre testate.

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