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Spiritualità ecologica, terreno d’incontro tra le fedi

Spiritualità ecologica, terreno d’incontro tra le fedi

Tratto da: Adista Documenti n° 42 del 07/12/2019

Problema oggi particolarmente delicato, su scala planetaria, quello che ecumenicamente, negli ultimi trent’anni, ci siamo abituati a chiamare salvaguardia del creato. Rispetto al quale, in effetti, anche le tradizioni religiose sono chiamate a farsi carico di promuovere una cultura della cura della casa comune affidata da Dio all’uomo perché la custodisca e ne faccia, da terra splendida ma minacciata, un giardino sul modello di quello originario, posto in Eden (Gen 2), dove regni il più possibile l’armonia tra Dio e le sue creature. È l’etica della responsabilità globale a convocare le religioni a impegnarsi non in una sterile competizione, ma a far fronte comune sulle grandi lotte per la giustizia, per la pace e l’ambiente. Cosa che non sempre accade, purtroppo: eppure su questo impegno comune si può misurare il valore del pluralismo religioso.

L’enciclica di papa Francesco Laudato si’ (24/5/2015) è già stata abbondantemente commentata da diverse prospettive: teologiche, politiche, filosofiche ed economiche. Meno evidenziata, invece, una sua lettura in chiave ecumenica e interreligiosa. Vale la pena, perciò, di sondare, a partire dall’analisi proposta dal vescovo di Roma «a ogni persona che abita questo pianeta», la spiritualità ecologica delle religioni per capire se questo può essere un terreno, non solo in senso metaforico, di incontro tra i diversi mondi religiosi. In vista di un dialogo ipotizzato dallo stesso Bergoglio quando auspica di «entrare in contatto con tutti riguardo alla nostra casa comune» (LS 3).

«Il mondo è qualcosa di più che un problema da risolvere, è un mistero gaudioso che contempliamo nella letizia e nella lode» (LS 12): il creato è nelle nostre mani. È sempre più vero che «le previsioni catastrofiche non si possono più guardare con disprezzo e ironia. Potremmo lasciare alle prossime generazioni troppe macerie e sporcizia» (LS 161). Sono almeno quattro le minacce che gravano sulla nostra casa comune. La prima è legata allo stile di vita moderno: quando la terra non è vissuta come generatrice di vita, ma come baule pieno di risorse cui attingere. Tale paradigma ha prodotto una crisi sociale (i poveri privati delle risorse) oltre che ecologica (impoverimento degli ecosistemi). La seconda è rappresentata dalle armi di distruzione di massa, pratica che regge sullo spirito competitivo del chi vince e chi perde e non su quello cooperativo del vincono tutti. Una terza minaccia riguarda la carenza di acqua potabile, con lo stile di vita consumista che trasforma l’acqua da bene comune a merce da comprare. L’ultima è il riscaldamento del pianeta. Dentro il dogma della crescita risulta impossibile pensare di fermare il surriscaldamento della terra: per farlo, bisognerebbe assumere il paradigma della decrescita caratterizzato dal ridurre, riusare, riciclare, riforestare e, in sintesi, dal rispettare il creato e i suoi abitanti. Siamo chiamati a una conversione radicale. L’ecologia di cui abbiamo bisogno è di tipo integrale, in grado di opera- re una critica profonda al sistema mondiale e coraggiosa nel dare priorità alla funzione sociale della proprietà.

«Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri» (LS 49). Occorre leggere la realtà dalla fine del mondo. Guardare la realtà da sud, dalle periferie, dalla parte delle vittime del progresso, smaschera la verità della crisi ecologica: che è anche un problema sociale. Come colse già durante la seconda guerra mondiale il teologo luterano D. Bonhoeffer: «Resta un’esperienza di eccezionale valore l’aver imparato a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi, in una parola, dei sofferenti» (da Resistenza e resa). Così: «Il riscaldamento causato dall’enorme consumo di alcuni Paesi ricchi ha ripercussioni nei luoghi più poveri della terra, specialmente in Africa, dove l’aumento della temperatura unito alla siccità ha effetti disastrosi sul rendimento delle coltivazioni» (LS 51). Con la crisi ecologica, i poveri diventano, se possibile, ancor più poveri. L’opzione per essi è un impegno anche in ordine alla cura della casa comune.

La Bibbia è stata accusata di un antropocentrismo esasperato, avendo Dio posto l’essere umano come vertice, signore della creazione, con l’ordine di soggiogare la terra. Anche per questo le religioni di stampo biblico sono invitate a reinterpretare il proprio racconto e a ricordare che la creazione non si completa con l’essere umano, ma con l’istituzione del settimo giorno, la legislazione dello shabbat: «Quelli che coltivavano e custodivano il territorio dovevano condividerne i frutti, in particolare con i poveri, le vedove, gli orfani e gli stranieri» (LS 71). Questo il senso dell’istituzione del Giubileo, anno della liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti (Lv 25,10). «…il riposo del settimo giorno non è proposto solo per l’essere umano, ma anche “perché possano godere quiete il tuo bue e il tuo asino” (Es 23,12). Così ci rendiamo conto che la Bibbia non dà adito a un antropocentrismo dispotico che non si interessi delle altre creature» (LS 68). Oltre a sapere che il creato è nelle nostre mani e a leggere la storia a partire dai poveri, è necessario decostruire la visione antropocentrica che ancora ci accompagna. Se, come ricorda la Bibbia e decenni addietro ci rammentò Giovanni Franzoni, La terra è di Dio, e noi l’abitiamo come stranieri e inquilini (Lv 25,23), allora ogni proprietà, biblicamente parlando, è sotto ipoteca: prima che proprietaria, infatti, qualsiasi persona è ospite di una terra che le è stata comunque data. Non ne è il fine, né il centro; l’uomo, invece, abita uno spazio ospitale. La vocazione umana narrata dalla Bibbia è un potenziale antidoto contro ogni forma di antropocentrismo fine a se stesso, e contro ogni forma di violenza accaparratrice.

La visione delle religioni tradizionali in Africa e in America Latina, basti pensare alle mitologie indigene sulla pachamama, non è di tipo antropocentrico, ma cosmo-umano, dove ciò che è sacro non lo è perché separato dal profano-umano, ma in quanto pieno di vita e strumento di vita. Le antiche religioni orientali, a loro volta, insistono sul fatto che l’Anima universale (Atman o Brahma) abbraccia l’intero universo esistente, mentre le tradizioni abramitiche leggono la natura nei termini di creazione, come ricorda l’enciclica: «Per la tradizione giudeo-cristiana dire creazione è più che natura, perché ha a che vedere con un progetto dell’amore di Dio, dove ogni creatura ha un valore e un significato» (LS 76). In definitiva, pur prendendo le mosse da evidenti differenze interpretative, tutte le religioni convergono sul senso della cura, su una cultura del rispetto verso il creato-natura. Il tema del creato- natura-universo, allora, può diventare (e in parte, almeno per l’esperienza ecumenica, lo è già) uno spazio di dialogo tra le tradizioni religiose.

Come fare, allora, perché questa visione religiosa della natura si faccia tema capace di penetrare nella riflessione politica e pubblica? Possono le religioni favorire la fondazione di un nuovo paradigma non più antropocentrico, ma Gaiacentrico?

Provando a indicare alcuni possibili compiti per le religioni, secondo un’auspicabile teologia interreligiosa della cura della casa comune, segnalo una serie di urgenze:

- Ripensare la teologia della creazione per passare dall’antropocentrismo dispotico all’apologia del mondo: esso è di Dio e noi lo abitiamo in qualità di ospiti.

- Suscitare una cultura ecologica di contemplazione e di cura della natura favorendo il recupero di un senso del mistero che abbracci tutte le manifestazioni della vita, mai dominabile e misurabile come una certa interpretazione scientifica ha pensato.

- Fare proprio il senso di sostenibilità della vita ripensando l’intera economia, gli stili di vita, il contributo della tecnica nei parametri della sobrietà.

- Dare spazio celebrativo e rituale alla nuova ecologia integrale come linguaggio ordinario delle comunità credenti.

- Impegnarsi per una teologia pubblica interreligiosa sui temi dell’ecologia capace di aiutare nella riflessione etica e politica delle nazioni.

- Fondare una teologia dell’ospitalità (e non solo una pratica dell’ospitalità) capace di rispondere alla crisi ecologica e sociale che stiamo vivendo.

Chiudo con un’ultima domanda scomoda, che l’enciclica stessa ci pone. Si tratta di un passaggio lirico, delicato e pieno di speranza e di tristezza a un tempo, racchiuse nel punto interrogativo finale: «L’autentica umanità sembra abitare in mezzo alla civiltà tecnologica, quasi impercettibilmente, come la nebbia che filtra sotto una porta chiusa. Sarà una promessa permanente, nonostante tutto, che sboccia come un’ostinata resistenza di ciò che è autentico?» (LS 112). 

Saggista, esperto di dialogo ecumenico e interreligioso, Brunetto Salvarani è docente di Teologia del Dialogo alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna. 

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