PRIMO PIANO. Una manovra dal respiro corto
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 43 del 14/12/2019
Lo scorso 15 ottobre il Consiglio dei Ministri presieduto da Giuseppe Conte ha approvato la legge di Bilancio 2020 e poi con essa pure il Decreto Fiscale collegato, che dovrà essere convertito in legge. La legge di bilancio ha lo scopo di disegnare la manovra economica da cui deriveranno i conti pubblici per l’anno successivo e gli obiettivi finanziari dei prossimi 3 anni. Essendo la prima manovra del governo costituito a fine estate dalla nuova maggioranza 5 Stelle–PDLeU- IV, l’interesse e la curiosità suscitati non sono indifferenti, sia nel Paese ma soprattutto nei vertici dell’Unione Europea, perché indicano la direzione delle politiche economiche e fiscali che l’Italia intende perseguire nel breve e medio termine Tenendo conto che il Governo Conte precedente a questo è stato fatto cadere, durante l’estate, precipitosamente e in maniera quasi inspiegabile da Matteo Salvini – probabilmente perché egli non era in grado di fornire il suo assenso a una manovra economica che mantenesse le promesse fatte durante il primo anno di direzione congiunta 5 Stelle-Lega –, di sicuro le aspettative sulla recente manovra non erano particolarmente ottimistiche. Infatti bisognava dapprima evitare che scattassero le clausole di salvaguardia necessarie a far quadrare i conti al fine di rispettare i rigidi parametri dell’Unione Europea in materia di deficit e debito pubblico (tra cui il temuto aumento dell’IVA, imposta indiretta che colpisce indistintamente poveri e ricchi, perché applicata a beni e servizi, anche di largo consumo). Gran parte della manovra prevede un’immissione, nell’economia, di risorse per 30 miliardi, tra minori entrate e maggiori uscite, equivalenti a 1,65 punti di Pil nel 2020 (dati del Ministero dell’Economia). Il grosso della manovra è rappresentato, come appena accennato, dalla disattivazione delle clausole di salvaguardia, cioè l’annullamento dell’aumento dell’IVA e altre imposte previste dal primo gennaio 2020 dal precedente governo. A questo compito sono stati destinati oltre 23 miliardi, 1,27% di Pil, il 77 per cento del totale delle risorse previste. Non si tratta di immissione di denaro, ma solo dell’esclusione del rischio recessione. La manovra prevede anche una parte di sterilizzazione degli aumenti IVA previsti per gli anni successivi (2021 e 2022). Questo significa che il prossimo anno lo stesso problema tornerà a galla, con nuovi aumenti di imposte indirette assolutamente da evitare. C’è quindi ben poco di strutturale. Escluse quelle necessarie a evitare l’aumento dell’Iva, le altre risorse immesse nell’economia sono quasi 7 miliardi. Di questi, oltre 3 miliardi servono a ridurre il cuneo fiscale, che è un indicatore che esprime il rapporto tra le tasse pagate da un qualunque lavoratore medio e il costo del lavoro per un datore di lavoro, e il super-ticket sanitario (200 milioni per il 2020). Gli altri 3,7 miliardi vanno in maggiori spese: quasi un miliardo è destinato a rinnovare politiche esistenti (cosiddette Missioni di Pace, operazione “strade sicure”, emergenza sisma, rinnovo contratti Pubblica Amministrazione) con finanziamenti in scadenza. Poi c’è poco più di mezzo miliardo per assegni a supporto della natalità e contributi agli asili nido e 0,7 miliardi per un’ulteriore spinta agli investimenti infrastrutturali (infrastrutture “fisiche, energetiche e sociali”, compreso un piano periferie). Le coperture previste, cioè maggiori entrate e minori uscite, per finanziare la manovra ammontano a oltre 13 miliardi e mezzo (0,75 punti % di Pil), si tratta di poco più del 40 % del totale delle risorse che dovrebbero essere reperite senza aumentare il deficit per non superare gli stretti vincoli europei, anche se compito di questo governo era pure fare un po’ di deficit per sostenere l’economia che è praticamente stagnante e attivare quindi i benèfici effetti del moltiplicatore dei consumi in beni e servizi e soprattutto dell’acceleratore applicato agli investimenti. Sempre per quanto concerne le coperture, le maggiori entrate dovrebbero venire, come troppo spesso si dice e non si fa, da una dura lotta all’evasione. Era questa inizialmente una bandiera di questo governo, con addirittura la possibilità concreta e seria del carcere per gli evasori fiscali, ma poi le divergenze tra le posizioni più oltranziste dei Cinque Stelle e quelle più morbide del PD e IV, sembrano rendere vano il tentativo di trovare una posizione comune, o almeno una buona sintesi tra i due maggiori schieramenti della coalizione di governo, al punto che ogni giorno che passa contraddice il precedente e la chiarezza svanisce. Questo anche perché determinate questioni importati e cruciali per il Paese aggiornano l’agenda del governo facendo crescere i punti di frizione ed emergere le dicotomie di visione tra i presunti alleati. Solo per citarne alcuni: l’Ilva, l’Alitalia, la riforma del processo penale con il blocco della prescrizione dopo il primo grado, il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità o ex Fondo Salva Stati), la concessione ai Benetton di Autostrade per l’Italia, la questione immigrazione, il destino dei due sciagurati decreti sicurezza di Salvini (votati comunque anche dai Cinque Stelle).
Tornando alle coperture, tra le minori spese c’è la solita spending review, il cavallo di battaglia di Carlo Cottarelli – figura ormai mitica di capo di un eventuale governo tecnico che incombe ciclicamente su ogni coalizione che prova ad amministrare l’Italia. Si tratta naturalmente di tagli di bilancio ai ministeri per quasi due miliardi e mezzo. Non manca una rimodulazione, verso il basso, di deduzioni e detrazioni, alcune mascherate sotto la seducente denominazione di green new deal, per aumentare la qualità ambientale colpendo consumi inquinanti. Tutto ciò rischia però di esser percepito dai cittadini come una sorta di aumento di tasse se pensiamo per esempio a una diminuzione delle detrazioni per gli interessi sui mutui o sulle spese sanitarie. L’impressione generale è quella di una manovra poco coraggiosa, che tira a campare per provare a scongiurare, non si sa per quanto tempo ancora, il rischio delle elezioni politiche che consegnerebbero il Paese alle destre poco rassicuranti di Salvini e Meloni. Insomma manca come al solito una visione se non a lungo, almeno a medio termine. Invece si continua a ragionare a breve, alle prossime elezioni, qualunque esse siano, in una perenne campagna elettorale che non permette di programmare misure e cambiamenti strutturali di cui tanto avrebbe bisogno l’Italia. Servirebbero invece seri e costosi investimenti nella scuola e nell’università, un investimento che avrebbe ricadute importanti e preziose per il futuro. Non dimentichiamo che c’è il 40% della popolazione che ha difficoltà a comprendere un semplice testo da leggere in cui ci si può imbattere nello svolgersi della vita quotidiana, il cosiddetto analfabetismo funzionale.
Infine un Governo di uno Stato serio e degno di questo nome non deve aver timore a nominare la parola tasse. Infatti la gran parte dei cittadini è certa che in questo Paese si paghino troppe tasse, ma andrebbe spiegato loro che una parte di italiani paga tantissimo e soprattutto paga pure per tanti altri che non contribuiscono quasi per nulla; infatti poco più del 41% dei contribuenti versa l’88% di tutte le imposte, una condizione insostenibile per un Paese che non cresce e che sta progressivamente perdendo il concetto di coscienza civile e il ruolo di ogni cittadino coi suoi diritti e doveri.
Pierstefano Durantini giornalista, aderente al movimento Noi Siamo Chiesa
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