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PRIMO PIANO. Torna e ritorna

PRIMO PIANO. Torna e ritorna

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 45 del 28/12/2019

Da qualche settimana, di fronte casa mia è venuta ad abitare una coppia di migranti. Una coppia giovane, felice perché dopo tanto vagare sono sbarcati in un quartiere accogliente. Felici anche perché aspettavano un bambino: moderni Maria e Giuseppe, che per una volta “hanno trovato posto nell’albergo”. Sembrava la favola da raccontare per il Natale che stava per venire. Invece, dopo qualche giorno, ci siamo resi conto che lei stava male, e lui era ovviamente preoccupato. Quando ho indicato loro una ginecologa amica, speravamo che tutto si sarebbe risolto; invece si è scoperto con tristezza che il bambino era morto da giorni e, se non si interveniva subito, la mamma rischiava la setticemia: è stato sconvolgente scoprire che, suo malgrado, la donna, anziché vita, portava  morte dentro di se. Colpa del caso, o più probabilmente, delle privazioni vissute negli ultimi mesi, del viaggio faticoso, della reclusione in Libia, della traversata rischiosa del Canale di Sicilia, della preoccupazione, della paura. Quella che poteva diventare la favola natalizia, si è trasformata in un incubo! Ma forse è proprio questa la triste metafora di Natale. Ormai celebriamo ogni anno la nascita di un Dio “ucciso” dalla nostra ipocrisia, schiacciato da tutto quello che abbiamo “inventato” appesantendo il Natale. Il nostro presepe quest’anno avrebbe dovuto avere la mangiatoia vuota!

Per riempire la mangiatoia vuota, la notte di Natale del 1223 San Francesco a Greccio “inventò” il presepe, per avvicinarsi il più possibile all’esperienza unica del primo Natale. Il presepe, da allora, racconta la povertà (e come potrebbe raccontare altro!); parla di noi e dell’impoverimento che colpisce tutti, ma soprattutto i più poveri tra noi. Il presepe oggi dovrebbe parlarci degli effetti nefasti della globalizzazione dei mercati e del neoliberismo sfrenato che assomiglia sempre più ad un ingranaggio folle che stritola e umilia le nostre esistenze.

Nel vangelo di Marco si racconta di un padrone che parte per un viaggio dopo aver affidato la propria casa ai suoi servitori, e raccomanda di vegliare «perché giungendo all’improvviso, non li trovi addormentati». Vediamo attorno a noi cristiani che si sono stancati di attendere, che hanno appesantito le palpebre o, peggio, hanno pensato di fare a meno del padrone, si sono organizzati per conto proprio; servitori che hanno trovato di che arrangiarsi in assenza del padrone e che alla fine dei conti non se la passano neanche male: cristiani preoccupati della carriera e del potere che, anziché vegliare, hanno trasformato la casa loro affidata da Dio in un bordello o in un mercato; che, in assenza del padrone di casa, ormai sono sicuri di essere diventati loro i gestori della salvezza, tanto da guardare con distacco e disprezzo tutti gli altri; che sono pronti ad emettere verdetti di condanna e a sancire l’esclusione degli altri, talmente sicuri di avere Dio dalla loro parte, da essere poi incapaci di riconoscerlo quando Egli si manifesta all’improvviso, nelle situazioni più assurde e nelle persone più impensabili. Il resto, i servi rimasti svegli e fedeli, dovrebbero trovare la forza di non gettare la spugna, di rimanere come sentinelle sveglie nella notte in attesa del mattino, di resistere continuando a invocare il ritorno di Dio.

Ma l’Atteso non è forse il già venuto? In realtà è già molte volte tornato e molte volte torna ancora. Torna come straniero scacciato, come bambino sfruttato, come donna o uomo dal volto sfigurato, come emarginato, disoccupato, escluso, povero, detenuto, calpestato, irregolare, clandestino; torna come bambino di strada, come tribolato, come straccione, come donna violentata e ammazzata da chi dovrebbe amarla. È già tornato e tante volte torna ancora in coloro che vivono negli scantinati della storia e nelle periferie del mondo, in coloro che subiscono ingiustizie, in coloro che pagano perché non si adeguano; torna come voce fuori dal coro, come dissidente, perdente, perseguitato, disobbediente, scomunicato, crocifisso.

È tornato e caparbiamente torna. Spesso senza essere riconosciuto proprio dai suoi. E non perché viene di soppiatto, sotto mentite spoglie, ma perché torna trasformato dal viaggio. Anche per il padrone il viaggio non è stato senza frutto: il viaggio lo ha incarnato, lo ha rivestito delle carni dell’uomo: si è fatto uomo. Mentre noi “aspettiamo” ogni anno il Natale di un bambino, lui è già diventato uomo.

Partendo il padrone ha lasciato nelle mani dei suoi servitori ogni cosa: la dispensa e le chiavi della porta di casa. Porta che però non si apre, dispensa che non si dischiude al padrone che torna non riconosciuto. Non lo riconosciamo, forse perché Dio sceglie di nascere straccione tra gli straccioni! E che il Bambino Straccione di Betlemme, figlio di straccioni, sia anche il figlio di Dio urta contro la nostra “sensibilità” e contro la nostra troppo unilaterale idea di Dio. In fondo, è più comodo considerarci a “immagine e somiglianza” di un dio potente che del Dio Straccione, e forse proprio per questo facciamo tanta fatica a vedere Dio nel povero, nell’emarginato, nel diverso, nell’escluso, nello scartato.

«Non date mai ai poveri ciò che è vostro; semplicemente restituite loro ciò che gli appartiene e che gli avete rubato. Perché ciò di cui vi siete appropriati fu dato da Dio per l’uso comune di tutti. La terra è stata data a tutti, non solo ai ricchi». Con queste parole sconvolgenti di Sant’Ambrogio, raccolte da papa Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio del 1967, la Chiesa sceglieva chiaramente di stare dalla parte dei poveri. Accettare fino in fondo il Vangelo e l’insegnamento della Chiesa, essere attenti alla testimonianza di papa Francesco, ci deve portare a denunciare fermamente l’imperante ondata di egoismo che schiaccia inesorabilmente i poveri e ci deve far andare controcorrente.

Noi cristiani dovremmo essere portatori di novità, anche se troppo spesso assomigliamo più a dei fossili di cristianesimo: ripetiamo gesti, liturgie, teologie e, soprattutto, parole che non dicono più nulla a chi si aspetta parole e gesti nuovi, che parlino alle donne e agli uomini di oggi.

Di fronte alla fame nel mondo, sbiascichiamo parole e gesti poco credibili, solo pietosi; di fronte ai problemi legati alla salvaguardia del creato pronunciamo parole e gesti che nascondono disperazione e poca convinzione di ciò che diciamo; di fronte alle migrazioni disperate di milioni di sorelle e fratelli non abbiamo il coraggio di dire parole e gesti di accoglienza e di denuncia; di fronte alle problematiche legate al nostro tempo: la bioetica, l’eutanasia, gli OGM, le coppie di fatto, l’accoglienza delle diversità, proponiamo parole e gesti disumani e da impreparati; e di fronte alle nuove povertà facciamo altrettanto.

Il subcomandante Marcos, dal Chiapas ripete: il Vecchio Antonio aveva scritto: «Se non puoi avere la ragione e la forza, scegli sempre la ragione e lascia che il nemico si tenga la forza. La forza può vincere in molti combattimenti, ma in tutta la lotta solo la ragione può prevalere. Il potente non potrà mai cavare la ragione dalla sua forza, noi sempre potremo ottenere la forza dalla ragione». E più in basso, in lettere molto piccole: «Felice anno nuovo!».   

Vitaliano Della Sala è parroco a Mercogliano (AV) e vicedirettore della Caritas diocesana di Avellino  

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