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PD oltre se stesso?

PD oltre se stesso?

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 4 del 01/02/2020

Dopo la bruciante sconfitta del PD alle politiche del 2018, a mio avviso, il PD, inchiodato dal veto di Renzi, commise un errore strategico nel rifiutarsi di interloquire con i 5 stelle. Non già per fare un governo insieme, ma per fare partire un esecutivo pentastellato di minoranza grazie a un sostegno esterno. Del resto, ancorché battuto, il PD era pur sempre uscito dalle urne come seconda forza parlamentare e, disponendo di un gruppo dirigente certo assai più sperimentato di quello grillino, avrebbe potuto, con il tempo, fare ciò che invece è riuscito a Salvini: nell’arco di un solo anno, invertire i rapporti di forza elettorale con i partner di governo. Ancora oggi si sconta quell’errore che ha fatto lievitare a dismisura il consenso e la forza di Salvini.  

Ripeto: ho sempre pensato che, a fronte di una destra tanto problematica per qualità e quantità, PD e M5S dovessero in qualche modo cooperare. E tuttavia confesso di avere nutrito perplessità (e ancora oggi mi interrogo) su tempi e modi con i quali, nell’estate scorsa, si è frettolosamente allestito il Conte 2. Riconosco che vi fosse e vi sia, a sostegno di tale soluzione, un argomento di assoluto rilievo: scongiurare elezioni che quasi certamente avrebbero consegnato il paese a Salvini.

Ma anche a sostegno dell’opposta soluzione militavano buone ragioni: accettare una sfida elettorale aperta mettendo in campo un largo fronte antagonista alla destra capeggiata da Salvini, un fronte del quale il PD di Zingaretti, dopo il sorpasso dei 5stelle alle europee, sarebbe stato il perno aggregante. Una sfida che, anche in caso di sconfitta, avrebbe dato slancio al PD, consentendogli altresì di dotarsi di nuovi gruppi parlamentari ancora largamente fedeli a Renzi. I vistosi limiti di una maggioranza e di un governo estemporaneamente allestiti tra partner entrambi non in salute e a lungo in acerrimo conflitto, con alla testa il medesimo premier, facevano presagire i problemi che puntualmente si sono manifestati. Problemi ai quali si è aggiunta la machiavellica scissione di Renzi, il quale, con un cinico colpo di teatro, ha propiziato e quasi imposto la nascita del Conte 2 esattamente al fine di poterlo fare ballare sin dal giorno dopo. Letteralmente: operando la rottura con il PD nelle stesse ore dell’insediamento del governo. Sino alla scorrettezza di immettere nella squadra di Conte ministri e sottosegretari suoi ma computati in quota PD. Su queste basi, come stupirsi delle difficoltà che segnano la vita del Conte 2? Come sorprendersi se la evocata e invocata discontinuità dal Conte 1 stenta a manifestarsi? Complice anche il travaglio e la disarticolazione dei 5stelle, che meriterebbero una riflessione parallela a parte.

Ora tuttavia, sperando che le elezioni in Emilia non facciano saltare PD e governo, il partito di Zingaretti non può che procedere lungo il cammino intrapreso ma operando due scatti in avanti. Primo: adoperandosi per fare evolvere il rapporto con il M5S da mera ed emergenziale collaborazione di governo a patto politico stabile e strategico. Solo a questa condizione si può ragionevolmente sperare che, per un verso, l’azione di governo acquisti qualità e respiro e, per altro verso, esso (governo) si configuri quale laboratorio di un’alleanza politica alternativa alla destra-centro guidata da Salvini, altrimenti destinata a una egemonia incontrastata, senza reali competitor. In breve, applicandosi a dare vita a un nuovo bipolarismo, in assenza del quale la democrazia stessa corre rischi. Secondo scatto: impegnandosi il PD a cambiare se stesso. Zingaretti, su La Repubblica, ha illustrato un proposito ambizioso: quello di un PD che vada oltre se stesso, una sorta di rifondazione del partito. Forse dovrebbe essere ancor più esplicito e coraggioso: impegnare il PD a partecipare, insieme e al pari di altri, al cantiere di un soggetto politico davvero nuovo a tutti gli effetti, con forze civiche, sociali, ambientaliste. Vi è un fermento diffuso, vi sono risorse partecipative nel campo democratico e progressista – le Sardine ne sono un significativo esempio – che tuttavia difficilmente aderirebbero a un PD che semplicemente si allarga o anche si rifonda.

Tuttavia tale, ambiziosa prospettiva non sarebbe a costo zero per il PD. Esso dovrebbe mettersi interamente in gioco e fare ciò che ancora non ha fatto dopo la disfatta delle elezioni politiche. Esemplifico: fare ammenda di una stagione che di sicuro ha scavato un solco tra il PD e il popolo democratico e di sinistra, il quale lo ha visto e vissuto come il partito dell’establishment (ricordiamo lo “sto con Marchionne, non con i sindacati”); riallacciare il filo interrotto delle relazioni con le forze sociali e i corpi intermedi, che è elemento cardine delle forze laburiste e riformiste; disegnare il volto di una sinistra nuova e moderna, non riproponendo vecchie ricette e forme politiche desuete (quelle della “ditta”), il che tuttavia, a sua volta, non comporta la subalternità al paradigma neoliberale e tardo-blairiano in un tempo semmai dominato da una diffusa domanda di protezione sociale; operare un profondo ricambio del gruppo dirigente che, nella sua quasi interezza, ha condiviso la sindrome governista e la responsabilità di un deragliamento dal solco dell’Ulivo. Vasto programma, si direbbe, ma forse non impossibile.

Franco Monaco è stato Presidente dell’Azione Cattolica ambrosiana ai tempi del card. Carlo Maria Martini, presidente dell’associazione “Città dell’uomo”, fondata da Giuseppe Lazzati, parlamentare del Partito democratico, già membro della Commissione esteri della Camera e della delegazione parlamentare Osce

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