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Silenzio, unico stile del dissenso?

Silenzio, unico stile del dissenso?

Tratto da: Adista Notizie n° 4 del 01/02/2020

La Chiesa ha bisogno del ministero di una buona teologia. E il teologo esercita il suo ministero con la parola. Può certo accadere che anche il silenzio diventi prezioso. Ma di solito il teologo parla: parla con modestia e con libertà, criticamente e gioiosamente. La sana tradizione chiede al teologo di esercitare la sua funzione, proprio perché la tradizione può ammalarsi. E la cura esige che la cattedra pastorale e la cattedra accademica collaborino in modo stretto. Questo equilibrio, tuttavia, ha subìto, negli ultimi 100 anni, molte gravi alterazioni: se da un lato vi è stata la tentazione di configurare un “magistero pastorale autosufficiente”, che non ha più bisogno di un pensiero teologico libero e critico, vi è stato, inevitabilmente, anche un esercizio del pensiero teologico che si è compreso al di fuori di ogni responsabilità ecclesiale e comunitaria.

La tradizione teologica italiana, che ha conosciuto entrambe queste vie estreme, tende oggi a restare per lo più in silenzio: esprime l’eventuale dissenso in un rigoroso e profondo tacere. Ma questa non è una soluzione del problema, bensì un problema nel problema. Perché i passaggi ecclesiali universali e nazionali, con la loro complessità e con le loro novità, non solo rendono possibile, ma esigono una presa di parola responsabile e libera da parte dei teologi. Che la discussione teologica sia “di scandalo” è una comoda ricostruzione, che di fatto paralizza il ministero dei teologi. Come ha segnalato W. Böckenförde, il codice di diritto canonico del 1983, pur essendo postconciliare, ha di fatto ristretto l’ambito di libertà della parola teologica, quasi facendo del “silenzio” l’unica forma legittima del dissenso. E anche questa, a modo suo, è la traccia dell’affermarsi di quel “dispositivo di blocco” della tradizione che, a partire dagli anni ‘80 – e il nuovo codice è proprio del 1983 –, ha preteso di negare ogni “autorità di rinnovamento” alla Chiesa, spesso anche vietando che questo principio venisse discusso sul piano teologico. Così sul ministero femminile, della liturgia riformata, del ruolo del diacono e della forma comunitaria della ecclesia, di fatto, il dibattito è stato congelato. E il silenzio è diventato lo stile del dissenso. Oggi è chiaro che questa non è una soluzione. Anzi, la cosa si è fatta tanto più chiara nel momento in cui un papa non europeo, un papa figlio del Concilio, ha assunto positivamente il compito di continuare quella riforma della Chiesa che il Concilio Vaticano II aveva annunciato e impostato, e che il tempo del postconcilio aveva realizzato solo parzialmente, talora marginalmente, talora solo formalmente. Se il “dispositivo di blocco” – predisposto dal una parte del magistero pastorale e irresponsabilmente accettato da una parte del magistero teologico – si affermasse definitivamente, la Chiesa troverebbe la propria tradizione solo nel passato. Ma se così fosse la Chiesa sarebbe già finita, prima ancora di accorgersi della propria fine. D’altra parte non è sufficiente che il magistero pastorale cambi passo, cambi linguaggio, ritorni al Concilio. Non è sufficiente che sia il papa a uscire dalla consegna del silenzio. Anche la teologia deve accompagnarlo, deve confortarlo e deve anche anticiparlo. Tra le cose più sorprendenti e strane di questo tempo è infatti che al magistero pastorale del papa si chieda sempre di “fare la lepre” e che i teologi, come cani fedeli, inseguano il precursore. Dovrebbero essere anche i teologi a svolgere il compito della lepre. Non per essere un “magistero parallelo”, ma perché la Chiesa esige strutturalmente una polarità pastorale/teologica per trovare la giusta distanza dalle questioni e elaborare al meglio le risposte. Se poi la “malattia del silenzio” contagia a tal punto i teologi, che alla pubblicazione di un testo tanto debole come Dal profondo del nostro cuore solo pochi trovano la forza di dire una parola di chiarezza, allora è evidente che la questione si è fatta seria e il recupero di autorevolezza della teologia reclama una urgente priorità. Con i migliori argomenti, i teologi debbono parlare. Restando modesti e restando critici, ma con tutta la libertà e la gioia del loro ministero.   

Andrea Grillo è docente di Teologia dei Sacramenti e Filosofia della Religione al Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma; insegna Liturgia presso l’Abbazia di Santa Giustina, a Padova; saggista e blogger (www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non/)

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