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Le donne, da Giovanni Paolo II a papa Francesco

Le donne, da Giovanni Paolo II a papa Francesco

Tratto da: Adista Documenti n° 12 del 28/03/2020

Durante gli anni ‘60 del secolo scorso, l’apertura alle donne della Chiesa Cattolica, sembra muoversi in una linea storica. Giovanni XXIII, infatti, nella Pacem in terris, definisce un segno dei tempi il riconoscimento dell’importanza e del ruolo svolto dalle donne. Quando nel documento il pontefice affronta la questione dei segni dei tempi, infatti, fa riferimento a tre fenomeni che contraddistinguono la modernità: la questione socio-economica, con il ruolo anche politico svolto dalla classe dei lavoratori; «l’ingresso delle donne nella vita pubblica » e l’autodeterminazione dei popoli. A proposito di donne Giovanni XXIII afferma: «Nella donna, infatti, diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria dignità. Sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come strumento; esige di essere considerata come persona, tanto nell’ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica» (Pt 22). In questa linea si pone, nell’immediato, anche Paolo VI quando, nel Messaggio alle donne, a chiusura del Concilio, parla di “un’ora”: «l’ora, l’ora è venuta, in cui la vocazione della donna si svolge con pienezza, l’ora nella quale la donna acquista nella società una influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto».

Il taglio storico, però, deve ben presto fare i conti con l’interpretazione di questo segno dei tempi, cioè con il bisogno di definire l’essenza della donna. E l’interpretazione è in grande misura di tipo teologico dottrinale, per cui diventeranno prevalenti non tanto l’apertura e gli spazi di libertà per le donne nella Chiesa quanto, piuttosto, un’istanza di definizione. In altri termini prevarrà la lettura dall’alto, piuttosto che a partire dall’osservazione concreta della realtà e dalla sua trasformazione dal basso. Ci si muoverà soprattutto sul piano dell’antropologia teologica, alla quale ci si sforzerà di dare un taglio biblico; o, in altri termini, si pratica una certa “curvatura” teologica nell’esegesi del testo biblico. La linea storica farà, fino al presente, molta fatica a affermarsi, restando, tutto sommato, marginale.

La Mulieris dignitatem, che Giovanni Paolo II promulga il 15 agosto 1988, è stata salutata a suo tempo con grandi entusiasmi anche fuori dal mondo ecclesiastico, si pensi al volume curato da Maria Antonetta Macciocchi, Le donne secondo Wojtyla. Ventinove chiavi di lettura della Mulieris dignitatem, pubblicato dalle Paoline nel 1992. Va detto che la Mulieris dignitatem è il documento pontificio che per primo più compiutamente si sforza di applicare un’esegesi paritaria uomo-donna ai racconti della Genesi, così come in esso si incontra l’affermazione che Dio non è maschio né femmina, ma che il linguaggio analogico della Bibbia si riferisce a Dio tanto come uomo quanto come donna. Il testo mostra poi che il modo in cui Gesù si rapportava alle donne non autorizza alcuna discriminazione, anzi appare notevolmente aperto rispetto al momento storico e agli ambienti in cui Gesù visse ed operò. Bisogna osservare, però, che nella Mulieris dignitatem, dove la polarità si muove tra dignità e vocazione, dunque tra qualcosa che deve essere riconosciuto alle donne e rispettato e qualcosa che dica il senso e il perché del fatto che ci sia la donna, si parte da Maria, cifra del femminile nella storia della salvezza: la Theotókos, la madre di Dio, e dunque la generatività che salva, grazie al fiat, cioè al sì, paradigma della disponibilità indicata come caratteristica propria della donna. Nonostante si affermi che tutto questo riguarda tanto gli uomini quanto le donne, risulta del tutto evidente che l’essenza della donna si esplica tra Eva e Maria. Nell’approccio al testo biblico si ha non poche volte l’impressione che si trasformino paragoni e analogie, a cui la Scrittura ricorre, in vere e proprie ontologie.

La lettera apostolica di Giovanni Paolo II rappresenta una sorta di paradigma nel cui alveo si è dispiegato il suo pontificato e che ancora oggi, a distanza di oltre trent’anni, impronta non poco sentire ecclesiastico/ ecclesiale, la cui ristrettezza appare palese e ingiustificabile. Provo a indicarne alcuni aspetti. L’uso eccessivo del riferimento alla donna, al singolare, piuttosto che alle donne, concrete e plurali. Si avverte, in questo, una necessità preliminare di definire la donna, un bisogno di inquadrare, di cogliere un’essenza, quindi di circoscrivere. Appare, ancora oggi, a mio parere, insistito il bisogno di sapere chi sia la donna; un’istanza, questa, che non ha un corrispettivo per il maschile. Non mi risulta, al di là dell’antropologia cosiddetta duale, un interesse così spiccato nel definire che cosa sia l’uomo (maschio schio). Sospetto alla base di tutto ciò il perdurare di un’esigenza difensiva. Ciò vale, in fondo in fondo, anche quando si enfatizza la figura femminile o si richiama il cosiddetto “genio femminile”. Questi elementi si manifestano anche indipendentemente dalla volontà consapevole di chi procede in questa maniera, mostrando quanto siano ancora radicati, pervasivi ed ubiqui determinati atteggiamenti, stereotipi e pregiudizi verso le donne e di quanta strada ci sia ancora da percorrere prima che si giunga ad una parità metabolizzata nel profondo e accettata a tutti i livelli.

Un altro aspetto, anch’esso duro a trapassare, è legato ai diritti delle donne: certamente più facile riconoscerli per quanto riguarda l’accesso a ruoli e compiti nella vita sociale, molto più problematico per quanto riguarda ciò che viene elaborato nell’ambito degli studi di genere e nella vita ecclesiale. L’esigenza di porre dei distinguo rispetto a quanto si era andato e si andava via via elaborando “fuori dal recinto” in tema di donne, appare marcatamente nella Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla collaborazione dell'uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo della Congregazione per la dottrina della fede del 31 maggio 2004. La lettera esprime la distanza rispetto ad alcuni modi di intendere l’emancipazione femminile, che legge come antagonismo verso il maschile e teme la confusione delle identità di genere; l’antropologia biblica viene ribadita in funzione di contrasto rispetto a queste temute minacce. Queste paure emergono anche a proposito dell’autorità delle donne nella Chiesa e della partecipazione ai ministeri.

Lo stesso pontificato di Benedetto XVI ripropone, sostanzialmente, la scelta di porre la questione femminile sub specie antropologica, sebbene egli abbia avuto più “a cuore” le donne intellettuali nella storia, a cui ha dedicato diversi dei suoi discorsi in occasione delle udienze generali.

In tutto questo tempo, in cui ci si muoveva nell’ambito della teologia della donna, l’effettivo progresso dell’emancipazione femminile nella Chiesa si è mosso a rilento, in non pochi casi ostacolato, generalmente eterodiretto, ossia subordinato alle scelte e alle decisioni maschili. Gli esempi possono essere anche molto banali, ma significativi: si pensi al lungo ostruzionismo nei confronti delle chierichette: una diffidenza tuttora riscontrabile verso il servizio all’altare delle donne. Si pensi anche, considerando un settore in cui forse della strada è stata percorsa, quello dell’accesso delle donne alla teologia, come sia schiacciante la maggioranza di teologi maschi che insegnano le discipline “di peso” (teologia morale, sacramentaria, ecclesiologia...) rispetto alle donne inserite in ambito accademico per discipline più collaterali. Si pensi alle religiose ancora “sotto tutela” e generalmente senza voto, nel perdurante misconoscimento del loro diritto di contare.

Con papa Francesco, però, alcune dinamiche sembrano essersi messe in movimento. La linea storica riprende un poco quota. È vero, anche Francesco ha più volte mostrato, soprattutto nei suoi discorsi “a braccio”, di non essere pienamente informato su alcune questioni relative al genere, di cadere in luoghi comuni sul femminile o di indulgere ad una certa retorica sull’eterno femminino. Ma nell’Evangelii gaudium, ad esempio, nonostante non vi siano novità su tante questioni di fondo, Francesco guarda al concreto e riconosce che «c’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa» (103) e che «le rivendicazioni dei legittimi diritti delle donne, a partire dalla ferma convinzione che uomini e donne hanno la medesima dignità, pongono alla Chiesa domande profonde che la sfidano e che non si possono superficialmente eludere» (104). Nessun pontefice prima di lui aveva posto con tanta urgenza il problema del clericalismo nella Chiesa come espressione di un potere di casta e con Francesco è cresciuto, come mai prima d’ora, il numero di donne che occupano dei posti di rilievo, nei dicasteri o in altri organismi: segno di una volontà di compiere azioni concrete piuttosto che intessere peana teologici sule donne che mantengono lo statu quo. A dare più spazio alle donne ci sta veramente provando, ma il tempo della parità compiuta non si profila neanche sulla linea dell’orizzonte.  

Anna Carfora è saggista, docente di Storia della Chiesa presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale.  

* Domenico Ghirlandaio, Nascita della Vergine (affresco 1486-1490); fonte foto: Web Gallery of Art, tratta da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza

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