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DENTRO LE MURA / 10: Nell’umanità, la sacralità dell’esistere

DENTRO LE MURA / 10: Nell’umanità, la sacralità dell’esistere

Dentro le mura

È qui che siamo. Tutti dentro le mura, ospiti forzati delle nostre case per il più alto bene comune, la vita: la dobbiamo proteggere da noi stessi, tutti possibili vettori di un virus che troppo spesso non perdona chi non “sa” resistergli. Costretti i nostri corpi a muoversi lungo perimetri brevi e immodificabili, sono libere le nostre menti di spaziare e sondare profondità che raramente frequentiamo, per mancanza di tempo, di silenzi, di piccole solitudini. Voli di cui ci giungono tracciati sotto forma di testi, riflessioni, lettere, e ai quali Adista apre qui un luogo virtuale perché vi facciano nido, fecondino altre menti, portino pensieri, empatie, confidenze. Il nido non ha porte. Depositate qui i vostri pensieri, li metteremo in rete. Scrivete a info@adista.it mettendo in oggetto “Dentro le mura”. Vi attendiamo!

Nell’umanità, la sacralità dell’esistere

Giuseppina D'Urso

Rifiuto gli eroi, appartenenti a una mitologia distante dalla realtà che è fatta di tenera o cruda (ognuno sceglierà) sofferenza, e spesso morte. Inutile indulgere in falsa retorica, per tornare a essere solo umani. Anche se i miti in cui immedesimarci alimentano il nostro ego e ci trasportano in una dimensione altra in cui dimenticare le nostre fragilità e superare le paure.

I gesti di cui spesso si parla sono bellissimi (i sacrifici del sacerdote che dona il respiratore o di operatori sanitari), ma a volte vorrei rimanessero nell'intimo di chi li ha compiuti, che sicuramente non desiderava pubblicità. Ma solo gratuità. Anche se il confine fra il giusto riconoscimento da tributare loro e l'intimità da salvaguardare rimane sottile. Forse nel caso del sacerdote, c’è stata anche un’enfasi superiore per l'abito che indossava. Ma io credo che egli l'abbia fatto soprattutto per umanità. E che quell'abito venga dopo, e sia solo una personale scelta di come esprimere quell'umanità. Che si può manifestare in tanti modi. Un particolare credo religioso non conferisce maggiore sacralità ai gesti: questi hanno un valore in sé.

Le paure rimangono, perché se chi si trova quotidianamente ad affrontare (sotto varie vesti) il dolore o ha la fortuna di amare un operatore sanitario comprende cosa sia dolore, per chi non vive nessuna di queste situazioni, rimane spesso prevalente la dimensione della paura e della perdita di una “normalità” che era fin troppo considerata come “scontata” e non vissuta nelle mille sfaccettature delle possibilità che offriva, ora precluse.

Pervaso dalla paura forse quest’ultimo “chi” non percepisce pienamente quella del dolore. Se non quando ne viene investito in prima persona. Vede tante immagini, sente mille suoni, legge miriadi di parole. Tanti numeri.

E alla fine se forse non avrà vissuto quella sofferenza, dei morti rimarrà soprattutto l’elenco dei numeri. E un generico “buonismo”. La perdita sarà nelle, presunte, certezze che costituivano la sua vita (anche la stessa “eternità” della vita), per tornare a una dimensione di inquietudine, che dovrebbe essere più propria dell’essere umano. Perché dimensione di consapevolezza e speranza di futuro diverso. Perché quelle morti non siano vane, e generino una rinnovata umanità.

Preferisco parlare sempre di umanità piuttosto che di amore. Amore è una parola impegnativa. Anche se i due termini possono esprimere lo stesso contenuto. Credo che l'umanità sia quella fede che abbraccia tutti. La medesima barca su cui navigare, e sulla quale salvarci.

Personalmente non sono rimasta colpita dall’immagine solitaria del papa. Certo era un uomo solo (emblema della condizione esistenziale presente), claudicante, e le sue parole sono apparse sincere. Inoltre il rito, in quanto tale, ha una forte e direi atavica capacità di infondere energia. Ma ho visto ancora intorno al papa, e in tutta la cerimonia, una solennità e una regalità che non mi appartengono. Se vogliamo, la giornata piovosa e la ricercata lentezza delle riprese hanno contributo a creare una scenografia immaginifica. In cui nell’immagine dell’uomo solo e sofferente era possibile rivedere il carattere dell’eroe che, come accennato inizialmente, non apprezzo. Penso che nella semplicità, che nasconde tutta la complessità di cui l’uomo e la vita sono portatori, dei gesti di ogni giorno, di gesti di cura e di attenzione, anche minimi, si manifesti la sacralità dell’esistere. Ognuno donerà alla vita ciò che sarà in grado di donare. Il proprio invisibile talento.

*Foto di Imtiyaz Quraishi, tratta da Pixabay, immagine originale e licenza

 

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