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PRIMO PIANO. Fare democrazia

PRIMO PIANO. Fare democrazia

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 35 del 10/10/2020

La partita tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta è controproducente per la buona politica e, alla fine, per la stessa democrazia. L’inveterato attacco di Beppe Grillo contro il Parlamento («irriducibilmente ostinato» perché già si era pronunciato altre volte in questo senso, ricordate «l’apriremo come una scatoletta di tonno»?) è uno dei motivi per i quali i sostenitori del No hanno contrastato il taglio lineare del numero dei parlamentari nel recente referendum. Perché si presentava come uno schiaffo alla democrazia cosiddetta rappresentativa (come l’hanno pensata e disegnata i costituenti), basata cioè su organismi istituzionali che consentono al popolo di esercitare la sovranità prevista secondo caratteristiche, modalità e tempi prevedibili...  ...e verificabili dalla Carta fondamentale. Gli elettori (al netto di coloro che hanno votato con rabbia e di coloro che non lo hanno fatto) hanno detto Sì, con una maggioranza considerevole, anche se non schiacciante. Quindi saranno 600 tra deputati e senatori i componenti delle prossime Camere.

Rappresentanza o coinvolgimento? No all’alternativa secca

Ora, però, non si può ridurre il tema ad un’alternativa secca. Sarebbe sbagliato, ad avviso di chi scrive, sia l’uno che l’altro estremo: da una parte, difendere ostinatamente le istituzioni rappresentative (Parlamento e Consigli degli enti locali), definendoli unici soggetti in grado di mediare conflitti e interessi di parte in un’ottica di tutela generale e collettiva; aggiungendo, (i più intransigenti) che la competenza, le conoscenze, la capacità di studiare i problemi, l’avrebbero pochi esperti e non la massa ignorante; e all’altro estremo i sostenitori della “saggezza delle folle”, quelli che il popolo “ha sempre ragione” per cui chiamarlo a votare direttamente e ripetutamente (visto che gli strumenti digitali lo consentono) è il modo migliore per correggere il meccanismo ormai definito logoro di mandati che non rispettano la reale volontà del rappresentato.

Forse è vero, come ha scritto il direttore di Repubblica Maurizio Molinari che il 22 settembre, sia nel confronto sulla riforma costituzionale, sia in quello per le elezioni regionali, si è in qualche modo dimostrato che «la pandemia ha portato gli italiani ad essere aggrediti da questioni impellenti, basilari, che hanno genera to un voto ragionato e non di protesta». Ma è bene considerare che l’afflato di protesta contro il sistema consolidato c’è, cova sopito solo dall’attesa del mare di soldi europei e si esprime con diverse modalità: la delegittimazione di ogni forma di rappresentatività (“nessuno mi rappresenta perché nessuno è capace di risolvere i miei problemi”, sfiducia nella classe dirigente); “cedo a chi mi offre di più, visto le condizioni in cui mi trovo”; la tecnica funziona meglio della politica; i problemi sono più ampi del nostro orticello quindi non è il caso di affannarsi per partecipare quando le soluzioni passano sopra le nostre teste; ben altri sono i problemi; ben altri sono i poteri (soprattutto quelli forti), e così via contestando. In un quadro di pensieri siffatti, quale senso può avere la periodica consultazione popolare vuota però di sostanza partecipativa? Le tradizionali forme della democrazia sembrano essere assolutamente inadatte a funzionare, delegittimate ad esistere perché non funzionali o, perlomeno, disfunzionali. In più, come scrive Marta C. Nusbaumm, nel suo recente La monarchia della paura (Il Mulino): «La paura erode quell’uguaglianza nei rapporti, quella reciprocità, che è necessaria alle democrazie per sopravvivere. E conduce alla rabbia retributiva, che divide quando invece ciò che serve è un approccio costruttivo e cooperativo verso un futuro incerto».

Essere parte prima che prendere parte

Per un approccio attrezzato alla cooperazione e in grado di essere fecondo, in grado di rispondere alla rabbia generata dalla paura, occorre che si riprenda il filo di una narrazione (non fuffa affabulatrice, ma reale dibattito diffuso e condiviso, fondato su un insieme di valori, criteri, storie, pratiche, parole, concetti e persino design, questa è vera “narrazione”, cioè tessuto connettivo, linguaggio comune…) che torni a far presa su una strategia generale, messa in atto da individui, gruppi e associazioni. Oggi c’è bisogno di un di più di democrazia, più nel metodo che nel merito. Bisogna avere il coraggio di pensarla e di lavorarci su. Convinti che è proprio la difficoltà che vive nella presente stagione a richiederlo.

Scrive Michele Sorice in Partecipazione democratica (Mondadori): «La democrazia partecipativa può persino affiancarsi alla democrazia rappresentativa e, ibridandola, aumentarne le potenzialità di partecipazione attiva dei soggetti». Condivido, anche perché la vera partecipazione è fondata sull’essere parte intesa come senso di appartenenza e solidarietà a un gruppo di riferimento, non un semplice prendere parte. Ecco il necessario salto di qualità che individua Sorice: «La partecipazione ha una notevole portata emancipativa e l’inclusione di fasce sempre più ampie di popolazione può costruire un elemento importante per giungere a una situazione di giustizia sociale».

Attraverso la cura, la pratica della democrazia

Bisogna scommettere su un deciso rilancio, altrimenti nell’agonia si può soltanto arretrare e temere una fine già vista. Con coraggio si può e si deve intraprendere una via diversa e integrativa della pura e semplice rappresentanza istituzionale: quella della “democrazia diffusa” (non semplicemente diretta, puro calcolo maggioritario di voti). È «una forma nuova di partecipazione alla vita pubblica che, ponendosi all’estremo opposto rispetto alle oligarchie che anche in Italia dominano la vita pubblica, costituisce un arricchimento del tasso complessivo di democrazia del nostro Paese», scrive Gregorio Arena in I custodi della bellezza (ebook sul sito labsus.org). La democrazia diffusa e partecipata è vivificante, il contrario esatto dell’oligarchia: «è impegno solidale e responsabile di molti a vantaggio di tutti, è la capacità di far coincidere gli interessi privati con l’interesse generale, è l’uso di risorse private per procurare vantaggi a tutti, prendendosi cura dei beni di tutti… con i patti di collaborazione migliaia di persone hanno imparato ad organizzarsi, a gestire delle risorse, ad interloquire con l’amministrazione comunale e con altri soggetti, in una parola hanno imparato a fare politica». Non utopia, ma realtà, checché se ne pensi comunemente.

Ma è un percorso lungo e accidentato che ha bisogno di sostegno continuo, anche grazie a particolari “integratori”. Provo in sintesi, ad elencarne alcuni. Vanno aggiornate le parole che la comunicano: provvedendo sì, a spurgarle da odio e arroganza, ma anche rigenerandone i significati e rendendole comprensibili ai più. Vanno trovati strumenti nuovi di partecipazione che non siano fittizi o sedicenti tali: le piattaforme per prendere decisioni ci fanno storcere il naso per certi versi, ma per altri, se ben regolate, sono utili. Vanno rilanciati i corpi intermedi che servono a preparare il terreno per una partecipazione inclusiva, ragionata, alimentata, consapevole e condivisa. E poi la democrazia non può essere soltanto la nostra: le questioni internazionali (Bielorussia, Cina, Corea del Nord, Ungheria, Usa, Brasile, solo per fare qualche esempio), devono interessarci: non c’è sicurezza per la nostra democrazia se non ci occupiamo di quella di tutti. La democrazia è pratica, concreta, quotidiana e multilivello: per questo la gestione condivisa di Beni comuni è strategica e non piccolo cabotaggio. La democrazia si insegna a scuola: non solo con l’ora di Educazione civica, ma condividendo progetti, con fiducia reciproca, valutando i risultati e mettendosi in discussione; e apprezzando e sostenendo l’informazione libera e responsabile.

«O i cittadini vengono considerati e trattati come una risorsa oppure finirà per avere ragione chi vede nel nostro futuro solo dittature tecnologiche», scrive Giovanni Moro, su East di settembre, rispondendo alla domanda: da dove ripartire per ricostruire la fiducia, nel post-Covid? I rischi che corriamo, forse, sono anche più gravi. E dagli Usa, il 3 novembre, potrebbe arrivarci una prima risposta. Speriamo in meglio.

Giornalista, Vittorio Sammarco è membro della redazione di C3dem-Costituzione, Concilio Cittadinanza  

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