
Il giorno dopo
Tratto da: Adista Notizie n° 40 del 14/11/2020
Nel filone di filmografia postapocalittica l’espressione “il giorno dopo” indica il tempo successivo a un’apocalisse nucleare (The Day After, 1983), oppure a quella ecologica (The Day After Tomorrow, 2004), a seconda dei timori collettivi del momento. Il mio timore, lo confesso, era quello di un’apocalisse elettorale. Che, per fortuna, non c’è stata.
Due giorni dopo la tornata elettorale si stanno ancora contando i voti, ma la matematica sembra indicare la vittoria di Biden: una vittoria sofferta, che arriva a spizzichi e bocconi, Stato dopo Stato (aspettiamo da un’ora all’altra il sorpasso in Georgia), con un sistema di conteggi reso più lento dai meccanismi di voto anticipato o per posta messi in atto a causa del Covid. Poiché i democratici, per paura del contagio, hanno in genere votato in anticipo o per posta, mentre i repubblicani sono andati in massa a votare il 3 novembre, i risultati hanno oscillato in modo impressionante a seconda di come sono stati contati i voti: per esempio, in Ohio hanno incominciato a contare i voti giunti in anticipo o per posta, segnando un forte vantaggio iniziale per Biden, poi capovolto dalla conta dei voti del 3 novembre. Negli Stati ancora in bilico, invece, sono stati contati prima i voti del 3 novembre, segnando un iniziale netto vantaggio di Trump, ma ora si stanno contando i voti anticipati o per posta, che stanno ribaltando i risultati. Trump e i fedelissimi non sono riusciti a bloccare i conteggi dopo la mezzanotte del 3 novembre, nemmeno negli Stati controllati dai repubblicani, e gridano al furto dei democratici, denunciano brogli a destra e a manca, chiedono riconteggi e minacciano azioni legali, invitando la gente a scendere per strada. Sembra tuttavia che, nonostante tutto, il sistema elefantiaco del voto americano anche questa volta abbia tenuto, portando a un risultato che fotografa il malessere americano, ma che si inserisce pienamente nella tradizione elettorale statunitense. E, soprattutto, pare che le manifestazioni di piazza a favore di Donald Trump siano contenute.
Eppure la notte del 3 novembre mi sembrava di rivivere l’angoscia della conta dei voti del 2016, quando Hillary Clinton perse le elezioni pur ricevendo quasi tre milioni di suffragi più di Donald Trump. Come allora, i risultati hanno platealmente smentito i sondaggi, che davano Biden in forte e sicuro vantaggio a livello nazionale. È vero che Biden ha oltre 4 milioni di voti più di Trump, ma questo vantaggio è del tutto simbolico: col sistema elettorale “pigliatutto”, un pugno di voti garantisce la vittoria nello Stato e quindi il numero di grandi elettori che procederanno alla vera elezione presidenziale il 14 dicembre. Se è motivo di sollievo la vittoria quasi certa di Biden, alcune riflessioni si impongono. In primo luogo, non c’è stata la marea di voti a suo favore, quale era auspicata. Non solo: alla Camera i democratici stanno perdendo seggi, anche se dovrebbero mantenere la maggioranza; al Senato al momento sono in parità, con alcuni seggi che andranno al ballottaggio a gennaio. Ma se Biden non vince il Senato, con la Corte Suprema repubblicana, arriva zoppo alla presidenza. Erano già poche le speranze di cambiamento: assistiamo infatti al ritorno al potere della vecchia leadership democratica, con i suoi compromessi e intrallazzi, e col sollievo di Wall Street, che sta reagendo positivamente ai risultati. Se tutto va bene, il neocapitalismo americano sarà forse più umano, almeno in patria se non nel mondo, e più ecologico. Respireremo meglio nel grigiore di Biden, ma dietro l’angolo non vedo novità.
Edmondo Lupieri storico della Chiesa e teologo che vive a Chicago e insegna alla Loyola University, autore del recente volume Cronache dal Trumpistan. Diario di un teologo italiano in America (Di Girolamo, pp. 224, 20€, il libro è disponibile anche presso Adista)
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