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La storia del bambino sporco di petrolio

La storia del bambino sporco di petrolio

Tratto da: Adista Documenti n° 45 del 26/12/2020

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Se Dio potesse esaudire un suo desiderio, Osman Cuñachí, bambino awajún, chiederebbe uno smartphone. O un pallone da calcio. O di cambiare le sue infradito di plastica con un paio di sneakers fosforescenti. Anche se, a pensarci meglio, chiederebbe una casa di cemento e mattoni come quelle che ha visto una volta a Lima, più resistenti alle tormente rispetto alle capanne di legno, con il tetto di foglie, che abbondano a Nazareth. È per questo che Osman, undici anni, magro come uno spaghetto, maglietta di Spider-Man stinta, pensa di trasferirsi nella capitale per studiare Architettura, avere una moglie e un solo figlio, perché sa che tirarne su tre, quattro o anche cinque, com’è normale nel suo villaggio, significa vivere tra fame e ristrettezze. Glielo ha detto suo papà, un professore in pensione che sfama cinque bocche con un assegno mensile di quattrocento soles, circa centrotrenta dollari: meno della metà del salario minimo. Il padre preferirebbe che Osman diventasse ingegnere chimico, così saprebbe tutto sul petrolio e le cose gli andrebbero meglio di come siano andate a lui. Perché da quando un’enorme conduttura rotta ha riversato cinquecentomila litri di quel combustibile proprio qui, in questo pezzo di bosco umido e montuoso della regione di Amazonas (la seconda più povera del Paese), alcuni adulti dicono che un mese passato a ripulire il fiume dal petrolio è pagato sette volte di più che un mese trascorso a coltivare la terra. Ora però hanno paura di essere avvelenati.

È un pomeriggio piovoso del giugno del 2016 e, sei mesi dopo essersi immerso in un fiume pieno di petrolio, Osman Cuñachí, membro della nazione indigena più numerosa della foresta settentrionale del Perù, aggrotta le sopracciglia e si sente strano vedendo la sua faccia su un enorme manifesto fuori dalla casa comunale. (...). La scritta annuncia una campagna sanitaria, condotta dal Coordinamento Nazionale per i Diritti Umani e da altre ONG, per monitorare venticinque bambini e bambine che sostengono di essersi ammalati dopo aver raccolto petrolio in cambio di denaro. Nell’immagine, Osman, un metro e mezzo di statura, è macchiato di nero sul viso, sulle braccia, sui piedi, sulla maglietta rossa dove è scritta in lettere bianche la parola “Perù”. Il bambino sorride mentre tiene tra le mani un secchio sporco.

«Sei venuto proprio male» lo prende il giro il suo amico – capelli a spazzola, pallone sotto il braccio, maglietta del Barça – e Osman si nasconde la faccia con le mani.

La foto che lo fa vergognare e che il Paese e la stampa internazionale avrebbero commentato indignati gliel’ha scattata una signora con il cellulare il giorno in cui Nazareth è passata dall’essere la comunità più popolosa della provincia di Bagua, con i suoi quattromila abitanti, il suo fiume marrone e i suoi milioni di alberi grattacielo, a essere considerata la protagonista del «peggior disastro ecologico dell’ultimo decennio».

Il pomeriggio in cui si è sporcato con il petrolio, Osman Cuñachí si stava allenando a calciare le punizioni insieme al suo amico quando due ingegneri della Petroperú, la compagnia statale più florida del Paese, sono arrivati a Nazareth su un fuoristrada bianco 4x4. Sin dal mattino un vapore acido si propagava dalle rive del fiume Chiriaco e si insinuava nelle capanne di legno come un’invisibile nuvola di benzina. Una spaccatura di undici centimetri in un tratto corroso dell’Oleodotto Nordperuviano – un serpente d’acciaio che trasporta petrolio dalla foresta alla costa per più di ottocento chilometri – aveva rovesciato in un vicino ruscello una quantità di petrolio sufficiente a riempire quasi mezza piscina olimpionica. Alcuni indigeni assoldati dalla Petroperú avevano improvvisato una barriera di tronchi e teli di plastica che era riuscita a contenere il greggio per qualche giorno, ma nessuno aveva calcolato che la violenza di un temporale lo avrebbe fatto tracimare all’alba giù per il fiume, spargendolo come un catarro nero che al suo passaggio inghiottiva insetti, radici d’albero, canoe, piantagioni di platano, cacao e arachidi. Gli animali fuggivano dalla corrente. Le madri si lamentavano guardando i campi andati in rovina. Sull’acqua scura galleggiavano cadaveri di pesci. Nel 2016, quattordici perdite di petrolio hanno contaminato la foresta peruviana per colpa di quel gigantesco boa metallico che si dissanguava a cadenza regolare. Nazareth era il primo anello di una catena di disastri.

Nel suo libro di scienze, Osman Cuñachí aveva letto che il petrolio è una sostanza preistorica, composta della stessa materia dei fossili dei dinosauri. (...). Che il petrolio abbia un valore in denaro lo aveva scoperto solo la sera del disastro, quando gli ingegneri della Petroperú erano arrivati con il loro fuoristrada per annunciare alle famiglie che avrebbero pagato chi li avesse aiutati a raccogliere il combustibile dal fiume.

Se un coltivatore di platanos guadagnava una ventina di soles al giorno, sei dollari, raccogliendo petrolio in un secchio ne poteva guadagnare centocinquanta: il doppio dello stipendio di un medico nella regione di Amazonas. In una zona in cui il 70% della popolazione è povero, in cui mancano acqua potabile e fognature, in cui le donne si ammalano di anemia per denutrizione cronica, in cui è più frequente che un bambino sotto i cinque anni muoia di malaria che per il morso di una vipera, e dove venti gelidi e siccità improvvise rendono difficile trovare terre fertili da coltivare, Petroperú offriva per un giorno di lavoro più di quanto un awajún potesse immaginare di guadagnare in una settimana. Gli ingegneri non li avvisarono che sarebbe stato pericoloso. Non fornirono equipaggiamenti speciali e non dissero chi avrebbe potuto farlo e chi no. Quel pomeriggio intere famiglie si precipitarono al fiume a raccogliere tutto il petrolio possibile.

Quando Osman Cuñachí e i suoi tre fratelli arrivarono al fiume inquinato, videro bambini, donne incinte, nonne e ragazzi immersi nell’acqua, o a bordo di canoe, che raccoglievano il petrolio in secchi e bottiglie di plastica. Il fiume in cui erano abituati a fare il bagno e sulle cui sponde costruivano castelli di sabbia, in cui avevano imparato a nuotare e a pescare zúngaros e boquichicos, adesso emanava un odore metallico che li nauseava. Faceva bruciare la gola e lacrimare. Roycer, il fratello minore di Osman, di quattro anni, fu il primo ad arrendersi. Poi fu la volta di Omar, di sette, e Naith, la sorella quattordicenne. Immerso nella corrente, Osman decise di rimanere finché non avesse riempito il suo secchio (...).

Era ormai notte quando Osman e i suoi fratelli tornarono alla loro casa di legno. Vedendoli, la madre li sgridò perché erano usciti senza chiedere il permesso. Corsero allora nel cortile dove stendono i panni e dove le galline chiocciano, e cercarono di lavarsi via il petrolio con acqua e sapone, ma senza riuscirci. Usarono il detersivo per i piatti, ma niente. Si strofinarono la faccia, le braccia, le gambe con una spazzola e il sapone da bucato. Niente da fare. Alla fine un cugino, che era stato anche lui al fiume, consigliò di pulirsi con la benzina della moto.

Quella notte Osman non riuscì a dormire bene perché, a furia di strofinarsi il corpo, la pelle bruciava e pizzicava. Il mattino dopo, gli ingegneri della Petroperú tornarono a Nazareth sui loro fuoristrada. L’aria puzzava ancora di benzina. Una trentina di awajún aspettavano sul ciglio della strada con i secchi pieni di petrolio. Avevano offerto centocinquanta soles, quarantasei dollari, per ogni contenitore. Ma alla fine, nonostante le proteste della gente, gli ingegneri pagarono soltanto venti soles, sei dollari. Osman ricorda che un ingegnere gli aveva chiesto quanti anni avesse, si era scritto il suo nome su un taccuino e gli aveva dato due soles, sessanta centesimi di dollaro, come mancia per il suo secchio: dentro, aveva detto l’ingegnere, c’era più acqua che petrolio. Osman, il cui nome significa “colui che è docile come un piccione”, non protestò come gli altri bambini. (...).

E un giorno, all’improvviso, sei un bambino trasformato in una notizia. Interessi a tutti, ma di te non si sa quasi niente. Giornali, canali televisivi e comitive di ONG si fanno ventitré ore di macchina da Lima, attraversano le Ande, superano tornanti vertiginosi e torride valli costeggiate da muraglie di vegetazione per arrivare a Nazareth, la comunità indigena in cui sei nato. Vogliono conoscerti. Ti guardano, ti domandano: Hai avuto paura? Come ti sei immerso nel fiume? Dove sono i tuoi vestiti macchiati di greggio? Me li fai vedere? Sembra che facciano a gara a chi racconta il dettaglio più terribile, consapevoli che certe tragedie interessano soprattutto a chi non le ha vissute, a chi vive in città plasticadipendenti e può sentirsi sollevato di non essere te, il bambino sporco di petrolio. «Mio papà dice che la gente viene qua solo quando succedono cose brutte», dice Osman Cuñachí mentre osserva la foto che lo ritrae sul manifesto della campagna sanitaria del suo villaggio. «Io voglio che mi guardino mentre paro un rigore, non voglio fargli pena». (...). «Chiunque dica che il petrolio è inoffensivo mente» mi dirà alcune settimane dopo il dottor Fernando Osores durante una pausa, dopo essersi dedicato per dieci ore di fila ai bambini e alle bambine delle comunità colpite.

Osores è un esperto in tossicologia ambientale e malattie tropicali. Si occupa da vent’anni di inquinamento provocato da miniere e aziende di gas e petrolio in Perù. Quando si verifica uno sversamento – spiega – milioni di molecole di idrocarburi evaporano e si diffondono rapidamente sotto forma di gas tossici. È sufficiente respirarli pochi minuti per soffrire di mal di testa, nausee e dolori addominali. Se ci si espone al petrolio senza protezione per giorni, è peggio: insorgono allergie alla pelle, irritazioni alla gola e difficoltà respiratorie. Il petrolio è una complessa miscela di centinaia di idrocarburi. Alcuni di essi, come il benzene e lo xilene, possono danneggiare il sistema nervoso e, negli anni, causare il cancro. Il petrolio versato nella corrente del fiume è un altro problema, perché si divide in gocce minuscole che si mescolano con particelle di fango e sedimentano nel letto del fiume. Così comincia la reazione a catena: le particelle contaminate alimentano i batteri, che a loro volta alimentano microorganismi acquatici chiamati plancton. Il plancton i pesci. E i pesci gli uomini. Con il passare del tempo l’inquinamento da petrolio diventa impercettibile alla vista. Non ha forma né odore né suono. È incorporeo, come se fosse formato da atomi invisibili. I sensi non riescono a percepire il danno. Un danno che il dottor Osores può riassumere in una frase: «Ci troviamo di fronte a un disastro chimico». (...).

Pochi giorni dopo aver raccolto il greggio ed esserselo lavato via con combustibile per motocicletta, Osman è svenuto mentre marciava durante una cerimonia scolastica. La maestra aveva raccontato ai genitori che il bambino si accasciava sul banco e si addormentava in classe. Per giorni aveva avvertito intensi mal di testa e nausee. Aveva irritazioni su braccia e gambe, e non la smetteva di grattarsi. In quei giorni le reti sociali avevano reso virale la foto che lo ritraeva sporco di petrolio. «Il peggior disastro ecologico dell’ultimo decennio», dicevano. Petroperú si rammaricava per l’accaduto, ma negava di aver assunto dei bambini per quel lavoro. La foto di Osman, tuttavia, era una prova che faceva sprofondare la compagnia nello scandalo.

Un giorno, due ingegneri della compagnia andarono a cercarlo a casa. Con l’autorizzazione del signor Cuñachí e accompagnato da una zia, Osman fu portato in una clinica privata di Piura, regione costiera nel nord del Paese, sede della principale raffineria di Petroperú. Fu sottoposto ad analisi del sangue e radiografie. Lo portarono a passeggiare in centro. A mangiare pollo allo spiedo. (...). Dieci giorni dopo tornò a casa con qualche scatola di vitamine, un po’ di compresse di paracetamolo, una pomata per le eruzioni cutanee e un certificato medico. Il bambino, recitava, soffriva solo di anemia. (...). In un’assemblea convocata una settimana dopo i fatti, la comunità emanò un comunicato rivolto al presidente Humala e al ministro della Salute in cui reclamava risposte immediate. Era allegata una lista con i nomi dei bambini che si erano ammalati dopo aver raccolto il petrolio. Solo a Nazareth erano più di cinquanta. Petroperú inviò tonnellate di viveri e di bottigliette d’acqua, e organizzò una campagna sanitaria per la popolazione delle comunità. Ciò nonostante, al gennaio del 2017, un anno dopo il disastro, nessuno in quest’angolo di foresta ha in mano un certificato medico dello Stato che affermi se sia o non sia stato contaminato dal contatto con il greggio. Il Governo non si è mai recato a Nazareth o nelle altre comunità colpite per esaminare seriamente lo stato di salute delle famiglie. «Sembra che le autorità vogliano aspettare che passino dieci, vent’anni, che la gente muoia, prima di venirci a dire che cosa è successo», mi ha detto il dottor Osores, mentre sigillava in contenitori con ghiaccio secco i campioni di capelli, sangue e urine che dovevano essere inviati in aereo a un laboratorio in Canada quella sera stessa. (...).

Tra il 2011 e il 2018, gli ultimi sette anni di vita dell’Oleodotto, ci sono state sessantuno fuoriuscite di petrolio e altri idrocarburi: il 60% causate da corrosione o guasti e il 40% da sabotaggi. Solo nel 2016, compreso il disastro di Nazareth, se ne sono verificate quattordici, secondo i dati dell’Organismo di Va lutazione e Verifica Ambientale. (...). «Prima si facevano solo lavoretti, niente di più, poi all’improvviso è arrivata la perdita e ci ha dato delle opportunità. Può darsi che poi mi ammalerò, chissà», si chiede Abel Wanputsang, saldatore, che ha messo su un bar con luci da discoteca, uno stereo e un frigorifero per vendere birre. (...).

«Non la chiamerei opportunità, non è un lavoro sano. Ho detto a mio figlio di non andarci, ma non mi ha dato retta», si lamenta Solomón Awanansh, dirigente awajún e ammiratore di Che Guevara. Suo figlio adesso ha un moto-taxi, il frigorifero e una tv a schermo piatto da 36 pollici.

«Abbiamo pulito il fiume con un prodotto speciale, ma i miei professori dicono che il greggio si è solo depositato sul fondo del fiume. Ho smesso perché ho cominciato ad avere nausea, debolezza», racconta Lenin Taijín, studente al quinto anno di Ingegneria ambientale, che con quel lavoro si è pagato l’università e ha completato la costruzione di una stanza per il suo futuro figlio. (...).

«Il mio compagno non aveva lavoro, ora invece guadagna bene», mi racconta l’infermiera Janet Tuyas, mentre continuiamo il giro di vaccinazioni. «Ci siamo appena costruiti una casetta. Il problema è che è dovuto andare a riempirsi di fango lì».

Quando suo marito tornava dopo aver raccolto petrolio dal fiume, Tuyas notava che l’equipaggiamento di protezione fornito da Petroperú non serviva a niente: aveva tutti i vestiti macchiati di nero. Di conseguenza, per non sporcarli, cominciò a indossare la tuta senza niente sotto. Ogni sera tornava a casa puzzolente di combustibile. Tuyas dice che ora suo marito vuole andare a bonificare un’altra zona, a Morona, foresta di Loreto, a qualche giorno di viaggio in barca. Trecentomila litri di petrolio hanno contaminato un’intera vallata per una falla in un tratto dell’Oleodotto. Il marito vuole mettere insieme i soldi che servono per comprare le porte e le finestre di casa. (...).

Il Chiriaco è una lunga strada di acqua color fango. In questa soleggiata domenica di settembre preoccupa pensare che ci siano tante persone del posto che a otto mesi dalla fuoriuscita di petrolio pescano qui. Che in questo fiume inquinato vivano dei pesci. Che ci siano persone che fanno il bucato o il bagno lungo i suoi dieci chilometri o poco più. Il Chiriaco scorre sinuoso e imperturbabile e sulle sue acque passano canoe, alcune macchiate di nero, pezzi di tronchi e buste di plastica o carogne di piccoli animali.

Osman Cuñachí, bambino awajún, guarda il fiume e ammette che gli manca, ma dal giorno della perdita non si azzarda più a fare il bagno lì. A occhio nudo, nell’acqua non ci sono tracce di petrolio, ma fino a quando le autorità ambientali non lo comunicheranno in modo ufficiale, suo padre gliel’ha proibito, minacciando punizioni.

«Alcuni mangiano il pesce perché non hanno altro. A casa mia non lo mangiamo, neanche se ce lo regalano. Adesso devo mangiare tante verdure, che non mi piacciono».

La storia di “mangiare tante verdure”, dice Osman, è una tra le molte raccomandazioni che il medico ha dato questa mattina a sua madre, dopo averle spiegato cosa stava accadendo al suo esile corpo di undicenne per essere stato a contatto con il greggio.

Come aveva promesso, il dottor Fernando Osores è tornato a Nazareth con un’équipe del Coordinamento Nazionale per i Diritti Umani e del Centro Amazzonico di Antropologia e Applicazione Pratica per comunicare i risultati delle provette analizzate in Québec: i campioni di sangue, urine e ciocche di capelli di venticinque bambini e bambine che avevano raccolto il petrolio nel fiume.

Le analisi di laboratorio hanno rivelato ciò che Osores, esperto in questo genere di disastri, sospettava: i minori esaminati avevano nel loro organismo cadmio, piombo, arsenico e mercurio. In un’assemblea riservata alle sole famiglie awajún, Osores ha spiegato la situazione: di norma, nessun essere umano dovrebbe avere nel sangue particelle di quei metalli tossici, ma i risultati indicano che questi ragazzi hanno valori superiori al limite stabilito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

«Lo Stato, adesso, deve sottoporli a un accurato monitoraggio e stabilire se i nostri dati derivano da un’esposizione puntuale o persistente», mi avrebbe spiegato Osores più tardi. «Se fosse persistente, vorrebbe dire che queste persone si stanno avvelenando». Se l’ipotesi del medico fosse confermata, nel corso della loro crescita, forse nel giro di cinque o dieci anni, questi bambini – in particolare quelli debilitati dall’anemia e dalla malnutrizione – potrebbero accusare danni al sistema nervoso, difficoltà di apprendimento, ipertensione, insufficienza renale e persino ammalarsi di cancro una volta raggiunta l’età adulta. (...).

Si tratta di un perverso paradosso dello sviluppo: un evento così terribile come una perdita di petrolio e la conseguente morte di un fiume si trasforma in una temporanea fonte di profitto per una comunità. È una realtà che di solito non viene mostrata nei telegiornali, che produce un cortocircuito, che ci mette di fronte alle nostre contraddizioni. La storia di Nazareth – luogo natale di Osman Cuñachí e dei “bambini del petrolio” – è solo un piccolo specchio nel quale possiamo rifletterci.

Mentre ci lasciamo alle spalle il Chiriaco e torniamo alla sua capanna, Osman mi racconta che il dottore ha parlato con sua madre e lei adesso è molto preoccupata. Lui non ha capito bene quello che ha detto il medico, di fatto nemmeno sua madre. Osman capisce solo di avere «qualcosa, una malattia», ma per ora non si sente male. «E tu cosa hai detto a tua mamma?», gli chiedo. «Che se ho una malattia e muoio, be’, allora muoio» sorride

Osman, prima di andare a giocare con i suoi amici.

L’idea della morte è ancora lontana, per lui. (...).

«Voglio solo essere sano come qualsiasi altro bambino, non avere paura di un tumore dopo», mi ha detto. Vorrebbe ancora trasferirsi a Lima, un giorno, e realizzare i suoi desideri: diventare architetto o portiere professionista. Imparare il karate. Fare il bagno nel mare. Andare al cinema. Essere meno timido con le ragazze. Avere, finalmente, uno smartphone.

Ha dodici anni. Ha, dovrebbe avere, tutta la vita davanti.  

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