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PRIMO PIANO. Piano ecologico: non basta

PRIMO PIANO. Piano ecologico: non basta

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 19 del 22/05/2021

Già nella legge di bilancio 2020 (approvata nel dicembre 2019) prima dell’inizio della crisi pandemica il governo italiano di allora aveva lanciato il Green Deal, un insieme di misure e di stanziamenti per la conversione ecologica del nostro paese. Va ricordato che si trattava per il 2020 di ben poche risorse, poi crescenti nel corso degli anni a seguire. Questa scelta – ancora molto pubblicitaria, poco concreta – si collocava nel contesto di una progressiva presa di coscienza a livello europeo sulla necessità di una transizione ecologica del sistema produttivo, a partire dalla graduale eliminazione del ricorso alle fonti fossili.

La crisi pandemica ha accelerato questa spinta e il Recovery Plan varato dall’Unione Europea per far fronte alle drammatiche conseguenze sociali ed economiche della crisi pandemica ha previsto che almeno il 37% delle risorse dell’intero piano (750miliardi di euro) vada a finanziare la transizione ecologica. Si tratta di una poderosa spinta in questa direzione, di cui però bisognerà verificare le scelte e gli obiettivi concreti nei piani nazionali dei Paesi.

L’Italia ha presentato alla fine di aprile il suo piano (PNRR – Piano nazionale per la ripresa e la resilienza) dove l’obiettivo della destinazione di almeno il 37% per la transizione ecologica viene rispettato. E questo era un atto necessario per avere il semaforo verde dalla Commissione europea. Però il PNRR moltissimo fatica a delineare un modello di transizione ecologica coerente e sufficiente a raggiungere gli scopi. Il piano sembra più che altro un collettore di tanti progetti e linee di finanziamento (ben 220): più che un piano per un nuovo modello di sviluppo sostenibile, sembra una gigantesca finanziaria, ma senza il respiro di un disegno strategico della strada che l’Italia deve seguire. L’espressione “politica industriale” è citata una sola volta nel testo del piano, e non a caso: la politica industriale – come strumento per indirizzare e armonizzare le scelte del nostro sistema produttivo – manca del tutto. In compenso ci sono molti incentivi in ordine sparso (il 18,7% delle risorse dell’intero piano) alle imprese. Ben 14 miliardi di euro vengono destinati all’ecobonus, misura su cui si nutre qualche dubbio sul rapporto virtuoso tra l’ingente spesa e i modesti effetti nella riduzione delle emissioni e della spinta allo sviluppo economico. Solo 1 miliardo di euro viene destinato alle energie rinnovabili mentre quasi 3 miliardi e 200 milioni vengono previsti per l’idrogeno (che non è una rinnovabile) su cui gli ambientalisti sollevano qualche dubbio e per il quale mancano molti dei requisiti fondamentali (trasporti e stoccaggio) nel nostro Paese. Quasi un terzo delle risorse del piano (il 32,6%) va al settore delle opere e delle costruzioni. Debole è il richiamo agli investimenti e alla produzione di veicoli elettrici e solo 300 milioni sono previsti per i bus elettrici del trasporto pubblico.

Il PNRR rischia dunque di essere una occasione mancata per la conversione ecologica del nostro Paese. Il precedente governo ha trasformato il CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) in CIPESS, dove le due ultime S stanno per Sviluppo Sostenibile. Questo cambiamento terminologico non ha però prodotto una innovazione nella modificazione della direzione delle nostre politiche economiche. Nel PNRR è stata introdotta anche la prospettiva della semplificazione della VIA (Valutazione di Impatto Ambientale) e del Codice Appalti che sembra signficare non meno burocrazia, ma più deregulation. In più, si ritorna a discutere di Ponte sullo Stretto, sulla scia delle altre grandi opere previste e ancora da terminare. Né nel PNRR, né nell’ultima legge di bilancio si parla della progressiva eliminazione (ci si ferma ad una ipotetica revisione) dei cosiddetti Sussidi Ambientalmente Dannosi (SAD): ben 20 miliardi di euro che ogni anno foraggiano produzioni inquinanti, che fanno male all’ambiente.

Nonostante i tanti soldi destinati nel PNRR all’ambiente (70miliardi), manca ancora una visione, un progetto coerente e credibile di conversione ecologica. Ci sarebbe bisogno di una politica industriale che non c’è; avremmo una fiscalità ambientale che è ancora timida e poco credibile; sarebbe necessaria una lettura delle politiche di bilancio dalla parte dell’ambiente, una contabilità ambientale, cioè, che teoricamente esiste, ma è ancora solo una sorta di esercizio accademico, senza alcuna influenza sulle scelte concrete.

In questi anni siamo sicuramente andati avanti (non abbastanza) sul tema delle energie rinnovabili, sostenendo i consumi verdi, ma non le produzioni conseguenti (ad esempio di pannelli solari) che potevano alimentare nuova occupazione e nuove imprese. Siamo però molto, molto indietro sul tema della mobilità sostenibile: solo ora la vecchia FIAT si sta svegliando nel fare veicoli elettrici e il trasporto pubblico locale è in molte città al collasso (il 30% dei bus italiani andrebbe rottamato, perchè inquinante). Dovremmo investire molto di più nell’auto elettrica e nelle batterie ad essa necessaria: ma siamo in enorme ritardo rispetto agli altri Paesi. E siamo molto indietro nel settore dell’economia circolare e dei rifiuti.

La strada per la conversione ecologica, in Italia, è dunque ancora lunga. Quello che manca è una strategia organica e coerente, una politica industriale che vada in quella direzione e che sia capace di dare risposta alle domande crescenti di nuovi consumi compatibili con la salvaguardia dell’ambiente. La conversione ecologica non può essere una riverniciatura verde del vecchio sistema economico: serve una vera e propria rivoluzione economica, sociale e culturale per costruire un nuovo modello di sviluppo. È questa la sfida cui siamo chiamati a dare una risposta, credibile ed efficace. 

 

Deputato indipendente per Sinistra ecologia e libertà, presidente del Comitato tecnico scientifico della Scuola del sociale della Provincia di Roma, Giulio Marcon è stato tra gli ideatori e fondatori della campagna Sbilanciamoci!   

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