Legge Zan tra chiesa e politica
Pubblichiamo qui di seguito la riflessione dell'ex parlamentare del Pd Franco Monaco, già presidente dell’Azione Cattolica ambrosiana ai tempi del card. Martini, già presidente dell’associazione “Città dell’uomo”, pubblicata sul sito internet del portale, cui aderiscono una serie di realtà del mondo cattolico democratico. L'articolo approfondisce i temi sollevati nel dibattito pubblico dalla recente vicenda dell'intervento vaticano sul ddl Zan.
L'articolo originale è consultabile a questo link.
La discussione in corso sulla legge Zan all’esame del Senato ha molti profili. Ne accenno alcuni, muovendo dagli sviluppi più recenti, e abbozzando qualche personalissimo spunto di riflessione.
Primo: la “nota verbale” vaticana. Legittima ma inopportuna. Non ha giovato al confronto. Ha originato la giusta reazione del premier (lo Stato è laico), riaperto vecchi, anacronistici conflitti, irrigidito le posizioni e forse, per paradosso, accelerato il varo della legge così com’è. A monte di una riflessione pacata circa i suoi eventuali profili critici. Che, a mio avviso, ci sono.
Secondo: abbiamo appreso dal segretario di Stato vaticano Parolin che la nota era stata concepita come riservata, che cioè il proposito fosse quello di ragionarne tra le parti (dell’accordo concordatario) e che comunque l’intenzione non fosse quella di affossare la legge, ma più semplicemente di rivedere, se possibile, qualche suo articolo. Dunque non di fare deflagrare un conflitto che non giova a nessuno.
Terzo. Spero non abbia fondamento la versione messa in circolo da vari organi di stampa, secondo la quale, a fare filtrare la nota diplomatica all’esterno e comunque a premere per essa, siano stati ambienti della Chiesa italiana che imputerebbero ai vertici Cei e allo stesso Francesco una posizione debole o reticente in materia. Se così fosse, si confermerebbe l’esigenza di dare corso a un processo sinodale della Chiesa italiana, grazie al quale imparare a parlarsi con fraterna franchezza, a discutere e fare discernimento con parresia a tutti i livelli. Così non ci sarebbe bisogno di ricorrere a scorciatoie e manovre “politiciste” che si addicono più alle strutture di potere che non alla Chiesa.
Quarto: merita chiedersi se, anziché brandire il Concordato da parte della Santa sede – sembra non vi siano precedenti -, non sarebbe stato più utile e persino più efficace che si fosse attivata la Cei, nella linea già abbozzata dal suo presidente Bassetti, affinché partecipasse “laicamente” alla discussione pubblica con un suo contributo critico e propositivo portando argomenti di merito. Magari gli stessi della nota. La Chiesa, per adottare una formula costituzionale, è una “formazione sociale” sui generis, che può sanamente interloquire nell’agorà pubblica. Una via, mi pare, due volte più conforme alla ecclesiologia e allo stile di papa Francesco: difendere i principi con la parola e con la testimonianza più che con gli strumenti del diritto; responsabilizzare vescovi, Conferenze episcopali nazionali e, perché no, le espressioni del laicato associato e non.
Quinto: non è una buona cosa un’accelerazione del varo della legge. Trattasi di un testo già incardinato nella scorsa legislatura. Qualche giorno o settimana in più non sarebbero un problema se quel tempo riuscisse utile all’obiettivo di raccogliere intorno alla legge un largo consenso. Come auspicabile quando si tratta di disciplinare diritti civili che dovrebbero trascendere le contingenti maggioranze politiche. Qualche volta il bicameralismo è un’opportunità.
Sesto: che vi fosse motivo di un ulteriore approfondimento è testimoniato da tante voci autorevoli di giuristi e opinionisti non sospetti di insensibilità rispetto alle discriminazioni da sanzionare (e reciprocamente dei diritti di libertà da tutelare). Due sole, diversissime voci: Giovanni Maria Flick e Michele Serra. Entrambi convergenti nella denuncia di un difetto di chiarezza e di univocità interpretativa del testo. Prerogativa essenziale in materia di diritto penale (Flick) e del dibattito pubblico e di costume (Serra, brillante opinionista laico e di sinistra, ha confessato onestamente di non avere compreso esattamente ciò di cui si discute).
Settimo. Al fondo si intuisce la ragione di una certa confusione lessicale e concettuale: si è sovraccaricato il testo di espressioni non sempre univoche che rinviano a visioni filosofico-antropologiche complesse e divisive che – è, in particolare, il caso della controversa teoria gender – non giovano al nitore della discussione e un po’ contrastano con i canoni di un diritto sobrio e mite. Se l’intenzione era ed è – come in effetti è – buona e condivisibile (prevenire e sanzionare discriminazioni) si sarebbe potuto seguire una strada semplice e lineare: emendare la legge Mancino del 1993 che già contempla un’aggravante per gli atti discriminatori su base razziale, etnica, nazionale e religiosa, aggiungendovi le discriminazioni concernenti la condizione e gli orientamenti sessuali. Senza imbarcarsi in casistiche e classificazioni che, come abbiamo visto, dividono trasversalmente anche campi culturali affini e, per converso, ne uniscono di opposti, i tradizionalisti e settori del femminismo storico.
Ottavo. Come è noto, il ddl Zan contempla una giornata annuale di sensibilizzazione in capo alle scuole per educare al ripudio delle discriminazioni oggetto della legge. Non è problema solo delle scuole di tendenza, cattoliche e non. Si deve convenire che, per tutte, trattasi di materia delicata che va considerata nella sua concreta implementazione affidata a insegnanti non sempre attrezzati al riguardo. Trovo decisamente sbrigativo replicare che nessun educatore può sottrarsi al dovere di forgiare al rifiuto delle discriminazioni. Detto così, è troppo ovvio. Ma si deve convenire sul rischio dello scivolamento verso una “dottrina di Stato” in tema di concezione della sessualità. Almeno ci si rifletta.
Nono: che vi sia qualche ridondanza lo dimostra il bizzarro art. 4. Una sorta di “excusatio non petita”. Il “fatta salva” (vi si legge) la libertà di opinione e di propaganda. Introdotto per rassicurare i critici che paventano censure da “pensiero unico”, esso si presta a una facile obiezione. Che bisogno c’è di affermare l’ovvio? Quasi non bastasse la garanzia solennemente scolpita nella Costituzione e segnatamente all’art. 21. Una norma inutile che sembra affidare alla legge ordinaria un principio e un diritto che giustamente godono di una più alta e robusta tutela costituzionale.
Mi pare ce ne sia abbastanza per non precipitare le cose, scongiurando il doppio, opposto rischio di spaccare parlamento e paese ovvero di affossare la legge. Magari con i voti segreti dettati da motivazioni non sempre limpide, di merito e di coscienza, che puntualmente prenderebbero piede. Qualcuno lo ha già fatto balenare (“gallina che canta ….”). Come se politica e parlamento avessero bisogno di ulteriore discredito.
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