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Dibattito sul post-teismo: Domenico Basile ringrazia Peyretti e approfondisce

Dibattito sul post-teismo: Domenico Basile ringrazia Peyretti e approfondisce

A Enrico Peyretti, che ha indirizzato ieri a Domenico Basile una lettera ampliando il dibattito sul post-teismo, ha risposto, “a stretto giro di posta” (elettronica), ovvero in data di oggi, il destinatario. Ecco la sua lettera, cui fanno seguito altri due commenti autografi che Basile aggiunge in allegato per una più completa esposizione del suo pensiero sul tema in oggetto.

Caro Enrico,

grazie del tuo commento al mio intervento sul post-teismo pubblicato da Adista del 31/7. Le tue osservazioni puntuali richiederebbero una lunga e meditata riflessione che per ora posso solo impostare, aiutato da alcuni spunti ricavati da un recente saggio di Stefano Levi Della Torre  (Dio Ed. Bollati Boringhieri – Novembre 2020) di cui riporto alcuni paragrafi:

Il Dio che conosciamo - pag.107-108

Credenti o non credenti, forse potremmo essere d’accordo che ogni idea di Dio non può che essere finzione, per rispetto alla trascendenza dell’inconoscibile. … Il Dio che “conosciamo” è una spiegazione causale, una funzione, una finzione che ha una funzione, un placebo efficace; un’idea che ha influito concretamente nella storia; un interlocutore, desiderio di uno sguardo che ci costituisce, un testimone della nostra esistenza e di ogni esistenza; un Testimone di cui siamo noi i testimoni; … Il Dio che “conosciamo” è un insieme di funzioni: Dio salva, Dio protegge, Dio consola, condanna o assolve, nutre o affama. … Da questo destino strumentale di essere un insieme di funzioni, Lo salva, nelle narrazioni sacre, il fatto di essere immaginato Persona e dunque dotato del recesso insondabile della sua volontà, conscia o inconscia, di un’intimità privata, a noi preclusa, che ne preserva il mistero … Le funzioni che infliggiamo al Dio che “conosciamo” sono le ispiratrici dei sentimenti verso Dio e del desiderio e bisogno di Dio. E’ il bisogno di uno sguardo di cui vorremmo sentirci oggetto, uno sguardo così  autorevole da renderci oggettivi a noi stessi, contagiati dall’assoluto e dall’eterno per aggirare l’inesistenza e la morte ….

Mi scuso per la lunga citazione che riporto perché ha per me il pregio di descrivere efficacemente il mio pensiero, in relazione all’esigenza di un Dio Persona con cui possiamo entrare in relazione e da cui possiamo, in ultimo, avere conferma di esistenza. Io penso che non si tratti di stabilire, con artifici dialettici, se Dio sia Persona o meno. Credo potremmo essere d’accordo sul fatto che entrambe le posizioni sono “finzioni” nel senso di Levi della Torre: che Dio sia Persona o Impersonale nessuno lo sa. Nella preferenza accordata a una di queste idee di Dio influiscono le sensibilità e le storie personali che sono tutte da rispettare, come percorsi alternativi nella ricerca incessante del Suo Volto.

Credo che a favore dell’immagine impersonale di Dio abbia giocato lo sviluppo più recente del pensiero scientifico, da una parte, insieme al rigetto delle visioni di Dio eccessivamente  antropomorfiche che ci sono pervenute, attraverso le teologie e le pratiche confessionali delle religioni abramitiche. Penso quindi che ci siano ragioni più che valide per sostenere sia l’una che l’altra prospettiva, in un confronto costante che permetta di trarne il massimo arricchimento, componendone  dialetticamente le suggestioni, senza negare la validità di un rapporto personale col divino, per quanti hanno in questo il loro habitat spirituale, ma anche accogliendo la sensibilità di quanti non riescono ad accettare immagini di Dio che a loro sembrano evidenti proiezioni antropomorfiche.

Come ulteriore contributo al dialogo mi permetto di aggiungere in allegato alcune riflessioni di qualche anno fa su questi argomenti, dove, accanto alla questione della personalità di Dio, viene proposta la questione della personalità dell’Io. In un caso e nell’altro la “persona” non può significare altro che una galleria di “maschere” ovvero di modalità di esistenza che, nel caso di ogni essere umano, sono mutevoli nel tempo e insieme ne definiscono la “storia”. Nel caso di Dio, invece, indicano quelle che noi immaginiamo essere le Sue modalità di esistenza, in relazione a noi come individui e come specie. Attribuendogli queste modalità noi Lo costituiamo nostro interlocutore e stabiliamo con Lui una “comunicazione” che attesta la nostra esistenza e ci aiuta a contenere l’angoscia di scoprirci soli nell’universo infinito. Esistono tuttavia delle realtà impersonali di cui siamo in grado di fare esperienza e sono, in primo luogo, le forze che costruiscono e assicurano stabilità ai sistemi complessi in cui è organizzata la materia, dai più semplici organismi unicellulari a quelli più straordinari della vita consapevole. Si può anche pensare che tutto si sia prodotto per caso, ma non si può negare che il caso appaia essere guidato da “intenzioni” ben determinate, verso finalità ben precise. L’impersonalità di queste “forze” non dovrebbe costituire un problema, non più di quanto l’impersonalità del Bene non impedisca che Esso, altrimenti detto Amore, possa essere intuito come il senso ultimo della realtà. Per questo, piuttosto che dire “Dio è Amore” preferisco dire che “Amore è Dio”, dove Amore non è inteso come attributo di una Persona ma è la realtà impersonale in cui ogni Essere è generato e accolto. D’altra parte nulla impedisce che questo Amore sia pensato nelle modalità con cui un rapporto amorevole si costituisce tra esseri umani, ma questo fa parte delle sensibilità individuali e non dovrebbe diventare argomento teologico se non come consapevole “finzione” del Dio che diciamo di conoscere.

Grato della tua attenzione mi auguro che questo dialogo possa continuare e approfondirsi.

Con stima e amicizia.

Domenico Basile

 

Dio persona o impersonale?

Domenico Basile 24/01/19

Ciò che rende fuorviante la contrapposizione tra l’immagine di Dio come “persona” e quella come “impersonale” è la confusione sul significato del termine “persona”, insieme alla inevitabile tendenza a pensare il nostro rapporto con Dio in termini antropomorfici. In origine, ovvero agli inizi della riflessione umana sul divino, apparve naturale una visione politeistica: l’Olimpo degli dei conteneva, in forme del tutto antropomorfiche, le proiezioni delle fragilità e dei bisogni di protezione degli umani e agli dei essi attribuivano le passioni, i caratteri peculiari  e le vicissitudini delle loro comunità. L’evoluzione verso una visione monoteistica non ha modificato la naturale tendenza ad attribuire al dio le proprietà tipiche dei comportamenti umani: la pietà, la benevolenza, la protezione, ma anche il tradimento, l’ingiustizia, la violenza, il mancato rispetto dei patti, nel tentativo continuo da parte umana di chiamare a propria difesa la supposta onnipotenza del dio.

La visione di Dio come “persona” mantiene e conferma la tendenza antropomorfica in misura tanto più grande quanto più il termine “persona” viene spontaneamente inteso come sinonimo di “individuo umano altro da me” verso cui mi rapporto in maniera analoga a quanto avviene con altri miei simili. Ciò è il frutto di un equivoco attuale sul significato del termine “persona” che ha subito notevoli slittamenti semantici nel corso del suo utilizzo, prima teologico e poi filosofico. 

Forse il sigillo definitivo alla comprensione antropomorfica di “persona” è stato posto dal dogma del Dio Trinità dove la natura umana è assorbita nella natura divina attraverso la figura di Cristo Figlio di Dio che in sé riassume le due “nature” in una sola “persona”. La confusione regna sovrana nell’uso disinvolto che in queste formulazioni dogmatiche è stato fatto di termini come “natura” e “persona” che traducono, prima in latino e poi in volgare, il greco “ipostasi”, cioè ciò che “sta sotto”, “ciò che resta fermo dietro il fluire fenomenico”, quindi la “sostanza”, la natura da cui sgorgano le proprietà di una cosa[1]. La filosofia successiva ha mantenuto la confusione originaria attribuendo a “persona” un significato che conserva i due termini, come si vede dalla definizione medioevale di Boezio[2] (“persona est rationalis naturae individua sub stantia” cioè “la persona è una sostanza individuale razionale”).

Del tutto diverso è il significato di “persona” se viene riferito al greco “prosopon”, tradotto nel termine “maschera” che – come osserva Vito Mancuso[3] - “ … rimandava al contesto teatrale dove indossando la maschera-persona si diventa quel preciso personaggio. … Dio è unico, ma si esprime in rapporto al mondo assumendo diversi modi di essere.  …. Dicendo quindi che Dio è trino non si dice altro che Dio vive, che ha una sua dinamica interna e che a mio avviso sarebbe meglio esprimere non più mediante il temine persona, che fa pensare a un individuo e che porta tendenzialmente al triteismo, ma mediante il termine modo. E’ quanto già pensavano Karl Barth, il quale proponeva di sostituire al termine persona l’espressione modo di essere, e Karl Rahner, il quale proponeva modo di presenza o anche distinto modo di sussistenza.”

Il termine modo che ricorre in queste espressioni di Barth, Rahner e Mancuso rimanda immediatamente a Spinoza che usa esattamente lo stesso termine per indicare come l’unica sostanza – Dio – si manifesta nell’essere e nell’esistenza delle cose nel mondo, nelle loro molteplici forme. In particolare l’espressione di Rahner - modo di presenza – permette di riconoscere Dio negli attributi dell’essere delle cose e degli eventi: la bontà, la bellezza, la mitezza, la giustizia, la compassione, la gioia, etc. così da poter pensare che questi termini piuttosto che essere attributi di Dio siano essi stessi Dio (ad esempio, l’espressione Dio è Bontà invertita nell’espressione Bontà è Dio acquista un significato impersonale che toglie al pensiero di Dio i suoi caratteri antropomorfici; l’antico canto “ … ubi caritas et amor Deus ibi est …” va nella stessa direzione). In questa prospettiva andrebbe ripensato il problema del Male. Si potrebbe allora pensare che la violenza, la cattiveria, l’ingiustizia, il Male in genere, non siano Dio, aprendo così la questione di stabilire che cosa essi siano. Una risposta semplice, ma forse non banale, potrebbe essere che essi non sono, cioè sono privi di essere pur avendo provvisoria esistenza, quindi destinati a scomparire dall’orizzonte della vita.

 

Commento aggiunto 09(02/19: Io persona o impersonale?

La riflessione su “Dio persona o impersonale” porta a mettere in luce una corrispondente analogia su l’”Io”. E’ di solito considerato ovvio che l’espressione “Io” si riferisca al soggetto che la pronuncia, cioè alla sua “persona”, intesa come singolarità umana dotata di capacità autonoma di pensiero e azione. Ma elementari conoscenze di psicologia ci dicono che il significato dell’ “Io” personale è tutt’altro che scontato e assoluto, essendo piuttosto da intendere come la configurazione dominante e mutevole nel tempo del “modo di essere” di una persona. L’”Io” dominante è appunto quella configurazione che prevale tra altri possibili modi essere, costruiti lungo la storia e sotto l’influsso delle molteplici interazioni con altri soggetti e avvenimenti.

Pertanto quando un soggetto riflette sul proprio “Io” può facilmente riconoscere che i suoi modi di essere sono il precipitato storico delle esperienze passate che lo hanno condizionato e formato, sia pure tramite continue interazioni dialettiche con le personali predisposizioni caratteriali. Analogamente una riflessione sincera sul proprio “Io” permette di riconoscere quali siano in ogni momento le aspirazioni, le pulsioni, le avversioni, i disagi e, in generale,  i motivi di sofferenza o soddisfazione che sempre agitano la sfera emotiva e sono la premessa, il punto di partenza, dei progetti immaginati e perseguiti. Se poi la sincerità della riflessione potesse aumentare diventerebbe agevole scoprire che gli stati che provocano emozioni sono spesso in relazione con quanto pensiamo o temiamo abbia in sé la possibilità di mettere in discussione la buona o cattiva immagine che abbiamo di noi stessi. Questo di solito produce ansia e perfino angoscia perché si avverte il pericolo di “perdersi”, cioè di non sapere più chi “si è”, appena si avverte la possibilità di discutere la propria immagine e quindi di poterla analizzare ed eventualmente disaggregare nelle sue componenti.

Il coraggio di continuare in queste esplorazioni, sulla traccia dei propri “draghi interiori”, permette di fare scoperte di estremo interesse, capaci di far comprendere cosa si nasconde dietro la riluttanza a guardare in faccia le basi della propria identità: la paura di perdere appunto tale identità se dovessero venir meno le sue fondamenta. Qui la riflessione deve riconoscere che l’identità, cioè l’”Io”, di ogni persona è formata non solo dalle innumerevoli vicende della sua storia ma anche – e forse più – dalle immagini che vengono restituite nelle attuali interazioni con altre persone, nelle varie situazioni in cui si vive. Ma queste immagini che ci provengono dall’esterno e riflettono, come in uno specchio, il giudizio e le attese degli altri, quale potere possono avere nel condizionare la nostra identità se non quello che noi stessi permettiamo, se riusciamo a restare liberi di fronte alle lusinghe o al disprezzo che tali immagini contengono?

Ma se, con un certo sforzo di meditazione, intelligenza e volontà, riuscissimo a raggiungere questa libertà dai condizionamenti attuali perché allora non potremmo, certo con più intelligenza e volontà, diventare liberi anche dai condizionamenti della nostra storia e quindi in definitiva dal nostro stesso “Io”?  E’ un orizzonte inquietante quello che si apre, sia pure in una riflessione teorica come questa. Sarebbe possibile vivere senza un “Io”? Sappiamo che è possibile vivere con più “Io”, uno solo dei quali essendo quello dominante, in condizioni normali, mentre in condizioni anormali, cosiddette di follia, più “Io” possono essere dominanti contemporaneamente. Ma l’idea di poter vivere senza un “Io” sembrerebbe assurda. L’assurdità tuttavia potrebbe scomparire se si provasse a pensare di vivere senza un “Io” dominante, cioè tendenzialmente liberi dai condizionamenti della propria storia e dalle immagini restituite dall’esterno. Questa libertà sembra possibile se solo si riuscisse a vivere in uno spazio “impersonale”, cioè in uno spazio in cui le interazioni non coinvolgono le basi della mia identità e i giudizi, i comportamenti nascono da un livello superiore alla mia stessa identità. Perché non chiamare “Io impersonale” questo livello? Credo che si possa farlo e che questa superiore istanza a cui si giunge, con semplici argomenti di logica elementare, sia la stessa del “Dio impersonale”. E’ affascinante accorgersi che si arriva così molto vicini all’idea del “Sé”, del “Brahman” dell’induismo, all’idea della “natura di Buddha” del buddismo ma anche all’idea di Dio della mistica di Meister Eckhart e, in sostanza, alla conclusione ontologica sull’unicità dell’Essere che tutti ci contiene.

Con più precisione si potrebbe dire che non si tratta di vivere senza un “Io”, quanto piuttosto che si possa vivere togliendo all’”Io” psicologico dominante la sua assolutezza, subordinandolo quindi ad una superiore istanza che permetta di vederne i limiti, le illusioni, le pretese di dominio. In questo spazio “oltre” l’”Io” non si perde, come si potrebbe temere, ma al contrario esso viene confinato e limitato ma anche rassicurato e rasserenato. Questo spazio è appunto oltre l’individuazione personale, più simile ad una atmosfera, un ambiente dove le tensioni si acquietano, dove si può avvertire il calore di una bontà universale, della compassione, la sicurezza paziente e quieta della verità che rimane al fondo di ogni realtà, nonostante l’oscurità provvisoria. E’ la stessa sensazione che si può avvertire quando, dopo un temporale, il cielo è sgombro di nubi e la sua chiarezza senza confini illumina e rasserena, fa sentire immersi e accolti in una spaziosità quieta che non fa paura, emana piuttosto una misteriosa familiarità.

 


[1] Cfr. voce ipostasi in Lessico Universale Italiano

[2] Cfr. voce persona in Lessico Universale Italiano

[3] V. Mancuso – Dio e il suo destino – Garzanti 2015 – pag.364

*foto di pubblico dominio, immagine originale e licenza

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