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PRIMO PIANO. Il ramo d’ulivo di papa Francesco

PRIMO PIANO. Il ramo d’ulivo di papa Francesco

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 34 del 02/10/2021

Sono anch’io una radice, adesso, / vivo tra vermi, io, / e qui preparo questa poesia. / Ero fiore, sono diventato radice, / buia e pesante la terra su di me, / la mia sorte è compiuta, / una sega piange sulla mia testa.

I versi di Miklós Radnóti ti tagliano dal di dentro, come la lama appuntita di un bisturi. Con questi, in particolare, si chiude “Radice”, profezia composta nel lager in cui il poeta ungherese era stato rinchiuso in quanto ebreo l’8 agosto del 1944 (tre mesi dopo sarebbe stato brutalmente fucilato con un colpo alla nuca, appena trentacinquenne). È alla memoria di lui – «la cui brillante carriera fu spezzata dall’odio accecato di chi, solo perché era di origini ebraiche, prima gli impedì di insegnare e poi lo sottrasse alla famiglia» – che ricorre papa Francesco domenica 12 settembre a Budapest, parlando ai rappresentanti delle comunità ebraiche magiare e del Consiglio Ecumenico delle Chiese, con due obiettivi, uno evidente e l’altro sotteso.

Da una parte, in un viaggio delicato nel cuore malato di un continente allettato dalle sirene sovraniste e populiste, ribadire che la vocazione del cristiano nasce e cresce solo nella relazione con l’altro: con il sottotesto che, a partire dalla dichiarazione conciliare Nostra aetate, l’ebraismo è diventato per lui paradigma di ogni differenza e sacramento di tutte le alterità, anche a causa di una lunga vicenda storica di pregiudizi tristemente segnata dall’antigiudaismo ecclesiale. Ecco allora, senza troppi giri di parole: fra le minacce cui va incontro l’Europa campeggia agli occhi del vescovo di Roma quella «dell’antisemitismo, che ancora serpeggia», «miccia che va spenta» e che se avessimo un po’ di coscienza di quanto è accaduto qualche decennio fa dovrebbe spingerci a «promuovere insieme un’educazione alla fraternità, così che i rigurgiti di odio che vogliono distruggerla non prevalgano».

Dall’altra, reduce da un’incomprensione sgradevole con una porzione significativa del mondo rabbinico internazionale, proclamatosi «angosciato» per una catechesi da lui tenuta ad agosto sulla Lettera di Paolo ai Galati, porgere un ramo d’ulivo all’opinione pubblica ebraica, riaffermando peraltro tesi che gli sono abituali (ad esempio, in un messaggio del 13 novembre 2019 aveva sostenuto perentoriamente, di fronte a risorgenti campagne d’odio verso il popolo ebraico, che l’antisemitismo non è «né umano né cristiano»). Non va trascurato che in Ungheria viveva la più grande comunità ebraica del vecchio continente e che nel 1944 i nazisti deportarono nei campi di sterminio 435.000 ebrei, con un’operazione di annientamento sistematico. Ai discendenti della quale, ma soprattutto a chi ne ha smarrito la memoria pericolosa, Bergoglio rammenta: «Ogni volta che c’è stata la tentazione di assorbire l’altro non si è costruito, ma si è distrutto; così pure quando si è voluto ghettizzarlo anziché integrarlo».

Tutto risolto, dunque? Difficile dirlo. Perché il dialogo, se assunto come caso serio, è il rischio del non ancora e dell’altrove, non nega le differenze e non le annulla; anzi, richiede le differenze e le mantiene, ma abbatte gli steccati e costruisce ponti sulle voragini che abbiamo scavato nei secoli per separare noi dagli altri e gli altri da noi. Non rivendica diritti di verità (teologica o storica), né si arroga il diritto di determinare le scelte dell’altro, non rinfaccia né richiede nulla all’altro. Il dialogo è la cifra della carità, della speranza e della gratuità; e quello con gli ebrei, fratelli maggiori o fratelli gemelli che siano, si colloca nel cuore dell’identità cristiana, ed è questo dato che lo rende tanto necessario quanto sempre problematico. C’è ancora molta strada da fare, perché la coscienza ecclesiale se ne faccia carico nel profondo. Ma stiamo camminando, ed è questo che più conta.

Si è trattato in ogni caso, una volta ancora, di tasselli notevoli, strategici e non secondari, di quel Vangelo dell’accoglienza così caro al papa argentino, sparsi a più riprese nei quattro intensi giorni spesi fra Ungheria e Slovacchia. Contro i muri e ogni forma di guerra di religione, per l’edificazione di ponti di dialogo da parte della Chiesa (un’immagine che gli è suggerita nell’occasione dall’imponente Ponte delle Catene che unisce le due parti della capitale ungherese, Buda e Pest), nell’intento trasparente di svuotare dall’interno la macchina narrativa dei millenarismi settari rinvigoriti dalla pandemia globale, tutta tesa all’apocalisse e allo scontro finale. Vengono in mente le sue parole, il 9 maggio 2017, al quotidiano La Croix: «L’Europa, sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere di annaffiarle, ma in uno spirito di servizio come per la lavanda dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l’Europa è il servizio».

In quest’ottica, Francesco sta coraggiosamente continuando a proporre una sistematica contronarrazione rispetto alla ricorrente narrativa della paura. L’ha fatto, sempre nella mattinata di domenica, toccando un tema che lo registra su posizioni assai distanti da quelle del premier locale Orbán, campione del cattolicesimo identitario, il dramma dei migranti: «Il vostro Paese è luogo in cui convivono da tempo persone provenienti da altri popoli. Varie etnie, minoranze, confessioni religiose e migranti hanno trasformato anche questo Paese in un ambiente multiculturale. Questa realtà è nuova e, almeno in un primo momento, spaventa. La diversità fa sempre un po’ paura perché mette a rischio le sicurezze acquisite e provoca la stabilità raggiunta. Tuttavia, è una grande opportunità per aprire il cuore al messaggio evangelico». Per poi rilanciare, all’Angelus, contro ogni penosa strumentalizzazione: se «il sentimento religioso è la linfa di questa nazione, tanto attaccata alle sue radici», la croce, «oltre a invitarci a radicarci bene, innalza ed estende le sue braccia verso tutti: esorta a mantenere salde le radici, ma senza arroccamenti; ad attingere alle sorgenti, aprendoci agli assetati del nostro tempo. Il mio augurio è che siate così: fondati e aperti, radicati e rispettosi».

Un messaggio che riprenderà a Bratislava, capitale slovacca, incontrando anche qui la comunità ebraica, ricordando quanti hanno usurpato la vicinanza dell’Altissimo proclamando «Dio è con noi, ma erano loro a non essere con Dio». Fino ad ammettere: «Avverto il bisogno di togliermi i sandali», all’arrivo sul luogo della memoria al centro della città. «I vostri dolori sono i nostri dolori», anche se «ci vergogniamo ad ammetterlo». Ma ora è tempo di guardare avanti: «Proseguiamo nel cammino di avvicinamento e di amicizia», esorta, incoraggiato dalle frasi del rabbino capo che l’accoglie parlando di giorno storico per gli ebrei slovacchi. Sì, «il mondo ha bisogno di porte aperte». E, se vogliamo avere un futuro, non si danno altre strade possibili.

Saggista, esperto di dialogo ecumenico e interreligioso, Brunetto Salvarani  insegna Teologia del Dialogo alla Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna

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