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Dibattito sulla confessione: segreto “professionale” o rispetto della legge civile?

Dibattito sulla confessione: segreto “professionale” o rispetto della legge civile?

Tratto da: Adista Notizie n° 38 del 30/10/2021

40844 PARIGI-ADISTA. Il Rapporto Sauvé sugli abusi nella Chiesa francese, presentato il 5 ottobre scorso (v. Adista Notizie n. 37/21), con le sue 45 raccomandazioni per la prevenzione, sarà ovviamente all’ordine del giorno della imminente Assemblea dei vescovi d’Oltralpe, insieme a quello che si è rivelato, al momento, il dibattito più impegnativo e complesso sviluppatosi sulla scia del Rapporto: la controversia sul primato del segreto della confessione, rispetto alle leggi della Repubblica. Già il giorno successivo alla pubblicazione del Rapporto, infatti, il presidente dei vescovi francesi mons. Eric de Moulins-Beaufort difendeva, su Franceinfo, il primato del segreto confessionale, giudicandolo «più forte delle leggi della Repubblica», provocando un sussulto al ministro degli interni Gérard Darmanin che, senza perdere tempo, lo aveva convocato per il 12 ottobre. Davanti al Parlamento, Darmanin si è rivolto ai sacerdoti: «Il segreto della confessione è, da quasi 200 anni, nella nostra legge, riconosciuto come segreto professionale, proprio come i medici o gli avvocati. Tuttavia, si fa eccezione quando riguarda, in particolare, i crimini commessi contro i minori di 15 anni».

Francia: una legge interpretabile

La questione non è così semplice, tuttavia. Il Codice penale francese, infatti, sancisce l’obbligo di denunciare abusi contro minori e persone vulnerabili (art. 434-4), ma allo stesso tempo punisce chi viola il segreto professionale cui sono tenuti medici, avvocati ed ecclesiastici (art. 226-13).

Per contro, punisce (artt. 223-6) anche il fatto di non impedire «con atto immediato, senza rischio per sé o per i terzi, un reato contro l'integrità fisica della persona»: articolo che può essere interpretato come un obbligo di intervento per i religiosi che vengono a conoscenza di violenze sessuali da parte di loro colleghi o subordinati. Ma devono essere specificati diversi elementi: la persona che ha preso conoscenza dei fatti deve avere elementi che gli dimostrino che esiste una forte probabilità di recidiva; il suo intervento non è necessariamente un rapporto alla giustizia.

Non c’è dunque una chiara giurisprudenza: la contraddizione tra questo articolo di legge e quello che garantisce il segreto professionale non consente di concludere che cosa sia vincolante per l'altro, tanto più che occorre tenere presenti le circostanze di ciascun caso.

In ogni caso, la legge protegge i sacerdoti che vogliono denunciare i fatti, prevedendo (artt. 226-14 cp) alcune eccezioni alla violazione del segreto professionale; violazione che non è punita se riguarda privazioni o abusi, comprese aggressioni o mutilazioni sessuali, inflitti a un minore o a una persona vulnerabile incapace di proteggersi. Un sacerdote che volesse svelare reati di violenza sessuale su minore ascoltati durante una confessione ha quindi la possibilità di farlo e non incorre in alcun procedimento penale. Ma questa facoltà non è un obbligo.

Insomma: sul versante dell’autorità civile, è tutto molto opinabile e interpretabile. «L'attuale normativa, che articola l'esercizio del segreto confessionale e l'obbligo di denunciare le violenze sui minori che deve valere per tutti gli adulti, è vaga; la sua interpretazione è aperta al dibattito» è il commento di Michelle Miller, senatrice socialista e correlatrice nel 2020 di una relazione informativa sulla segnalazione obbligatoria da parte di professionisti tenuti al segreto per la violenza sui minori (Le Monde, 8/8).

Una visione inconciliabile

Sul versante del diritto canonico le cose sono molto più chiare e nette e spiegano i termini del conflitto in corso: la violazione del segreto confessionale porta alla scomunica e anche se la Conferenza episcopale francese, in una nota dello scorso dicembre, nel tentativo di conciliare legge della Chiesa e legge civile suggerisce ai preti, in caso di confessione di reato, di raccogliere gli elementi emersi e di collocarli in un quadro di conversazione esterna alla confessione, per poter allertare le autorità civili, si comprende come ogni posizione di mediazione si possa presentare ai fedeli ma sia difficile da sostenere davanti alla società civile, che attende risposte nette alla tragedia degli abusi.

A ribadire la posizione della Chiesa è intervenuto su Acistampa (15/10) il card. Mauro Piacenza, Penitenziere Maggiore. «È essenziale sottolineare – premette – che il sacramento della Riconciliazione, essendo un atto di culto, non può e non deve essere confuso con una seduta psicologica o una forma di counselling. In quanto atto sacramentale, tale sacramento deve essere tutelato in nome della libertà di religione e ogni ingerenza deve essere ritenuta illegittima e lesiva dei diritti della coscienza». Ne consegue che «tutto quanto detto in confessione, cioè dal momento in cui ha inizio questo atto di culto con il segno della croce e il momento in cui termina o con la assoluzione, o con la assoluzione negata, è sotto sigillo assolutamente inviolabile. Tutte le informazioni riferite in confessione sono “sigillate” perché date a Dio solo, per cui non sono nella disponibilità del sacerdote confessore (cf canoni 983-984 CIC; 733-734 CCEO). Anche nel caso specifico in cui, durante la confessione, per esempio un minore riveli di aver subito abusi, il colloquio deve rimanere, per sua natura, sempre e comunque sigillato. Ciò non toglie che il confessore raccomandi vivamente al minore stesso di denunciare l’abuso ai genitori, agli educatori, alla polizia».

Il ruolo “civile” della confessione

Su questo aspetto è intervenuto il teologo Andrea Grillo sul blog della rivista Munera (18/10), rimarcando che la puntualizzazione del cardinale «non permette di risolvere con disinvoltura la questione della “confessione di abuso verso terzi” che un soggetto battezzato faccia al proprio confessore. Le parole del cardinale, infatti, dicono una verità che non può essere messa in discussione. Ma non dicono tutta la verità». Il sacramento della riconciliazione, argomenta Grillo, non è solo un atto formale o “burocratico”: «La rilevanza “interiore” ed “esteriore” del sacramento – scrive – implica la rilevanza interiore ed esteriore degli atti del penitente. Chi confessa una colpa grave entra in un percorso di trasformazione che è tanto interiore quanto esteriore. Questo non è un “surplus”, ma costituisce la ragione sistematica del sacramento. Che ha in comune con il battesimo l’atto del perdono, ma ha di specifico di chiedere la risposta del soggetto peccatore sulla bocca, nel cuore e nel corpo. Pertanto al “segreto” del confessore non corrisponde il segreto del penitente. Anzi, una delle ragioni del sacramento è proprio quella di far uscire il penitente dal segreto. Al limite di chiedergli formalmente, come atto penitenziale, di parlare del proprio crimine con le autorità competenti. Questa non di rado è l’unica via per fare i conti davvero con il peccato». Inoltre, vi è anche una dimensione ecclesiale della riconciliazione: «Riparare al male compiuto è parte della tradizione che non può essere messa a tacere, come se fosse secondaria o addirittura deviante. Chi confessa il peccato di abuso trova un ministro che gli annuncia il perdono gratuito di Dio e la pena che questo perdono comporta. Tale pena può identificarsi con la disponibilità a scontare la pena prevista dall’ordinamento civile. Mostrare il legame della assoluzione ecclesiale con la condanna civile è uno dei compiti di confessori che abbiano a cuore il bene non solo del penitente, ma anche dei terzi che sono stati lesi dal peccato/crimine del penitente».

Stessa visione è quella, in Germania, del canonista di Friburgo Georg Bier. Secondo la legge tedesca, spiega, «un sacerdote potrebbe essere esonerato dal dovere di riservatezza, ma ha ancora il diritto di non parlare». «Questa eccezione al codice di procedura penale e al codice di procedura civile risale all'articolo 9 del Concordato del Reich tra la Santa Sede e il Reich tedesco del 1933. Lì si afferma: "I sacerdoti non possono essere richiesti dalle autorità giudiziarie e da altre autorità di fornire informazioni su fatti che sono stati loro affidati nell'esercizio della cura pastorale e che quindi rientrano nell'obbligo del segreto pastorale". Questo regolamento è ancora al di sotto del segreto confessionale; si tratta di tutto ciò che i sacerdoti sperimentano in relazione alla cura pastorale». Al sacerdote dunque resta una sola possibilità: «Quella di esortare il penitente, nella confessione, a interrompere le sue azioni e affrontare le forze dell'ordine. Sottolineando che la confessione non basta». Il confessore potrebbe anche rifiutare l'assoluzione, dubitando del pentimento. Ma naturalmente questo rimane in uno spazio teologico, che non risolve i problemi con i reati».

A potenziare questa visione concorre una significativa lettera aperta ai vescovi francesi del teologo Jean-Marie Fehrenbach pubblicata (9/10) sul sito della Conferenza cattolica dei battezzati/e cattolici/e, organismo che raccoglie diverse associazioni e movimenti di base. Almeno negli anni ‘50-‘60, spiega, si insegnava nei seminari di Francia un'etica che prevedeva «sia di rispettare l'assoluto segreto della confessione sia di anteporre il penitente alla sua responsabilità nei confronti della società: in caso di colpa grave o di fatto criminale secondo le leggi della Repubblica, il confessore doveva rifiutare l'assoluzione al penitente finché questi non si fosse denunciato di sua spontanea volontà alla giustizia».

«Poiché difficilmente si può immaginare che i chierici possano rimanere a lungo e in buona coscienza in una posizione in cui è stata loro negata l'assoluzione, si può pensare che molti casi di recidiva di abusi sessuali osservati oggi non si sarebbero potuti ripetere... gli abusi sono stati considerati dai confessori come semplici “peccati veniali”, a meno che questa dottrina sull'assoluzione non sia stata riservata ai soli penitenti laici…!». Inoltre, il rispetto dello spirito di tale norma etica «avrebbe dovuto indurre la gerarchia, in caso di pettegolezzo o denuncia, a condurre un'indagine al termine della quale il responsabile avrebbe dovuto essere convocato dal suo superiore e ordinato di comparire spontaneamente a giustizia civile». Insomma: «La gerarchia della nostra Chiesa aveva una dottrina etica perfettamente articolata, e compatibile con il diritto penale del nostro Paese, che le permetteva di agire, e non lo ha fatto, quindi è gravemente colpevole».

Un nuovo specchietto per le allodole?

Il punto, però, viene sostenuto in diversi commenti, è che focalizzarsi sul segreto della confessione non è decisivo, dal momento che sono pochi i casi in cui sottrarsi al segreto avrebbe fatto la differenza: «Gérald Darmanin è coerente; è sulla stessa linea di quanto ha intrapreso con l'Islam, cioè che nulla è al di sopra delle leggi della Repubblica», commenta su Le Point (12/10) Yann Raison du Cleuziou, sociologo delle religioni. E anche se «si può relativizzare questa sacralizzazione della legge: la giustizia è prima e le leggi non sono mai inamovibili, la loro correttezza può essere discussa e le religioni possono contribuire», è «deplorevole che la controversia si cristallizzi intorno al segreto della confessione. È un elemento marginale del Rapporto, e ci sono stati pochi casi in cui togliere questo segreto avrebbe potuto fare la differenza ». Il problema è un altro: «La responsabilità della Chiesa è collettiva e sistemica. Perché i vescovi hanno gestito le devianze dei sacerdoti attraverso una logica di corpo che si ritrova in molte istituzioni: hanno protetto questi sacerdoti per proteggere la Chiesa dallo scandalo. E questo ha prodotto un imprevisto: l'invisibilità delle vittime. Per questi vescovi, proteggere la Chiesa non significava proteggere i suoi fedeli, ma i suoi sacerdoti. È una forma di deriva oligarchica la cui risposta si basa su questioni strutturali. Fare luce sulle vittime, come avviene oggi, non sarà sufficiente per evitare che ciò accada di nuovo, se i vescovi manterranno la concentrazione di potere nelle loro mani». 

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