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Liturgia: che cosa promette il futuro?

Liturgia: che cosa promette il futuro?

Tratto da: Adista Documenti n° 43 del 04/12/2021

Dare continuità alla tradizione sana, non a quella malata. Questa fu, 60 anni fa, la preoccupazione fondamentale del Concilio Vaticano II. Il progetto riguardava l’intera esperienza ecclesiale, ma trovò immediata esecuzione solo sul piano liturgico. Così, alcuni anni dopo il Concilio, l’unico piano su cui si fece una vera riforma fu il campo della celebrazione liturgica.

Ma proprio per questo motivo, soprattutto sul piano liturgico, il post-Concilio, oltre ad aver avviato tutta la trasformazione linguistica, culturale, ecclesiale e teologica che la riforma prevedeva, ha manifestato una certa paura di fronte al nuovo, fino al tentativo di negarlo. Il colpo di freno ha utilizzato un vero e proprio “dispositivo di blocco”, che ha lavorato molto intensamente dalla fine degli anni ‘80 fino all’inizio del pontificato di Francesco. Il freno al Concilio è stato concepito in modo raffinato: si è basato su un’argomentazione apparentemente “debole”, ossia sulla negazione alla Chiesa dell’autorità di cambiare se stessa. Così, sul piano liturgico, la riforma cadde sotto il sospetto di “aver abusato” della tradizione: perciò a partire dal 2001 iniziò una restaurazione che riguardò prima il ristabilimento del primato del latino, poi il sospetto verso l’“assemblea celebrante”, l’elencazione di una infinita serie di abusi e infine la rassicurazione formale di poter a celebrare come se il Concilio non ci fosse mai stato. Questa linea di “difesa dal Concilio” si è interrotta non solo per merito del primo papa “figlio del Concilio”, ma anche per l’intrinseca debolezza del progetto.

Oggi, valutando il futuro, possiamo capovolgere il “dispositivo di blocco”: la Chiesa ha l’autorità per farlo. E deve farlo anzitutto sui tre livelli su cui si è cercato di bloccare tutto: ossia sul piano delle lingue e culture parlate, sul piano della ripresa degli “usi” prima della lotta agli “abusi”, sul piano della forma ecclesiale che scaturisce dai nuovi riti.

a) Le lingue-culture in uso

Il primo punto di “apertura al futuro” consiste nella ripresa, veemente, della tradizione che il Concilio aveva riaperto: le lingue materne e le culture native non sono semplicemente “passive” rispetto alla cultura latina e romana. Sono “segni dei tempi” da cui la cultura latina e romana ha qualcosa di decisivo da imparare. Una parte non irrilevante della Chiesa cattolica fa ormai l’esperienza del mistero pasquale, del perdono del peccato, del dono della grazia, della gioia della lode e della benedizione nella propria lingua madre, che è esperienza primordiale di rivelazione e di fede. Se non si accetta questa grande novità, resa possibile dal coraggio con cui si è aperta l’esperienza ecclesiale alle nuove culture, si resta indietro rispetto al progetto conciliare del 1962-65. Da allora, in modo progressivo, l’esperienza linguistica e culturale differenziata ha forgiato intere nazioni. Questo significa, oggi, ripartire da questo dato e portarlo innanzi con discernimento e con coraggio. L’“universalità” non è più garantita dal latino, ma dalla possibilità di traduzioni fede perché dinamiche. Ci sono cose che il latino può dire, e non si possono dire nelle lingue parlate. Ma ci sono cose dette dalle lingue parlate di oggi che il latino non può dire e non conosce. Le nuove lingue e le nuove culture non sono solo “nuove espressioni” del mistero pasquale. Sono “nuove esperienze” di questo mistero! Per questo è prezioso svilupparne in modo fiducioso l’autorevolezza e l’attendibilità: perché la tradizione sia un giardino che fiorisce, non un museo fatto solo di “pezzi vecchi”.

b) L’uso prima dell’abuso

Uno dei tentativi più insidiosi di “correzione del Concilio” è stato quello di riportare l’attenzione – spesso ossessiva – sul problema degli “abusi liturgici”. Qui non si commette semplicemente un errore di priorità, ma si altera il senso della tradizione post-conciliare. Che cosa è accaduto, liturgicamente, al Concilio? Ci si è resi conto che la priorità non era «eseguire scrupolosamente tutte le rubriche da parte del prete», ma «mettere in azione tutti i linguaggi della celebrazione». Questo significa che il grande merito del Concilio è stato di aver individuato che la vera priorità non poteva essere quella di “lottare contro gli abusi”, ma quella di “tornare a imparare gli usi”. La tradizione era malata proprio perché si cullava nella certezza che evitando ogni abuso tutta l’azione rituale sarebbe stata “a posto”. Invece il Concilio ha colto la distorsione di questa prospettiva. Anzitutto occorre tornare a comprendere che la liturgia è «azione comune di tutta la Chiesa», alla quale tutti «partecipano attivamente». Questa evidenza ha spinto la Chiesa a provvedere immediatamente a una grande riforma complessiva, perché la liturgia tornasse ad essere «linguaggio comune a tutti i battezzati». È ovvio che, in subordine, il problema degli abusi rimane. Ma è un problema secondario rispetto al grande problema primario di tornare alla esperienza degli usi! Qui, come è evidente, si crea spesso un equivoco. Per alcuni, anche oggi, la migliore eredità conciliare potrebbe ridursi a “non commettere abusi liturgici”, come se gli usi fossero ovvii. La sfida è piuttosto quella di tornare a comprendere – comunitariamente e individualmente – che cosa significa celebrare la salvezza.

c) La riforma liturgica come riforma che i riti fanno della Chiesa

L’uso partecipato della liturgia insegna alla Chiesa il significato più profondo delle parole e dei linguaggi di cui vive. Questo è il terzo profilo su cui lo sviluppo di una “tradizione liturgica viva” può sperare di aprire nuove vie all’esperienza di fede. Qualche volta sembra che possa essere vero solo il contrario. Ossia che in una Chiesa davvero riformata, convertita, liberata dall’autoreferenzialità, la liturgia comincerà davvero a parlare, ad agire, a toccare i corpi e le menti. Questo, in una certa misura, risente di una lettura intellettualistica della tradizione, che affida alla liturgia solo un compito “espressivo”. Come se la protestatio fidei, in quanto compito della liturgia, fosse sempre subordinata a un “apprendimento della fede” necessariamente extra-liturgico o comunque a-liturgico. Qui io credo vi sia uno degli aspetti più delicati del futuro. Solo se accetteremo che si possa “iniziare dalla liturgia”, e quindi se restituiremo all’azione rituale un compito non solo espressivo, ma esperienziale, saremo in grado di fare tesoro di ciò che la tradizione attesta con i linguaggi più elementari, più opachi e più potenti.

d) Le coordinate trasgressive e perciò evangeliche del corpo che celebra

La reazione ecclesiale al mondo moderno, che ha spesso assunto la forma di una “lotta dell’anima contro il corpo”, trova nella liturgia un luogo paradossale, in cui la valorizzazione del corpo integrale, con tutti i suoi linguaggi, diventa condizione per recuperare una mediazione piena tra il Signore e la sua Chiesa.

Queste “mediazioni corporee”, che danno forma all’essere Chiesa di Cristo, aiutano a ricostruire in modo più ricco una serie di “antitesi”, che il mondo tardo-moderno ha imposto e all’interno delle quali la Chiesa spesso si trova costretta a restare:

- libertà/autorità: la Chiesa non è costretta a scegliere l’autorità contro la libertà. Così vorrebbero tutte le letture autoritarie. Né la libertà contro l’autorità, come vorrebbero le letture “neoliberiste”. Deve piuttosto ritornare a quell’evidenza, così bene espressa in una duplice proposizione da Armido Rizzi: l’amore può solo essere comandato e solo l’amore può essere comandato. Una genealogia della libertà è la sfida che l’azione rituale mette sempre in scena, con i suoi linguaggi simbolici.

- diritto/dovere: la Chiesa non è costretta a contestare i diritti mediante i doveri, ma deve lasciare aperta la dialettica storica tra diritti e doveri, mostrando l’orizzonte iniziale e finale che è quello del dono. L’azione rituale permette di ricomporre, sul piano del dono, le antiche e nuove evidenze dei diritti e dei doveri. Senza rigidità e senza ingenuità.

- privato/pubblico: la Chiesa non è costretta a rincorrere la dignità pubblica del privato e la dignità privata del pubblico, ma a ricostituire, con fatica, luoghi “altri”, che sono appunto trasgressioni e interruzioni, perché l’uomo che lavora e l’uomo in vacanza ritrovi ancora se stesso, nel riconoscimento altrui e nel riconoscere l’altro.

La liturgia, restituita a questa funzione fondamentale, è il linguaggio non di alcuni, ma di tutta l’assemblea, di tutto il popolo di Dio. Tutti celebrano l’azione rituale, partecipando al rito, non soltanto ricevendone i frutti. Questo modello di liturgia è, come aveva capito Giuseppe Dossetti già nel 1965, una «ecclesiologia eucaristica» compiuta e singolarmente profetica, per l’oggi e per il domani. Nelle tre aperture che abbiamo individuato consiste il futuro promettente della riforma liturgica, come ripresa della tradizione viva e come tramonto di quella malata. 

Docente di Teologia dei Sacramenti e Filosofia della Religione al Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma, Andrea Grillo insegna Liturgia presso l’Abbazia di Santa Giustina, a Padova; è saggista e blogger (http://www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non/).

Dipinto di Maximino Cerezo Barredo, per gentile concessione dell'autore.

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