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Nuove norme canoniche. La dignità del sacramento e la dignità delle persone

Nuove norme canoniche. La dignità del sacramento e la dignità delle persone

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 45 del 25/12/2021

Nel giorno dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria vengono promulgate le modifiche alle Norme sui delitti riservati della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) approvate l’11 ottobre scorso.

Le Norme risultano una modifica di quelle già promulgate nel 2001 (Giovanni Paolo II, Sacramentorum sanctitatis tutela, 30 aprile 2001, in AAS XCIII (2001), 737–739) e a loro volta modificate nel 2010 (Congregazione per la Dottrina della Fede, Rescriptum ex Audientia, 21 maggio 2010, in AAS CII (2010), n. 7, 419–430). Oggi rimane l’impianto del 2010 con poche innovazioni. Bisognava, infatti, rivedere le Norme poiché l’8 dicembre entravano in vigore le modifiche al VI Libro del CIC (ovvero al diritto penale canonico). Il giorno che richiama alla memoria della fede la “piena di grazia” (in gr. κεχαριτωμ?νη - kecharit?-mén?) è forse rimando simbolico alla necessità di difendere, anche con strumenti giuridici adatti, la grazia della fede e dei sacramenti: forse in quest’ottica bisogna leggere anche le disposizioni attuali in continuità con quella logica di base già proposta vent’anni fa. La CDF è competente per quanto concerne “fede e costumi”.

Piccole differenze per mettere al centro la “comunione” persa e cercata

Nella precedente modifica (tra 2001 e 2010) i “delitti più gravi” (che già specificavano l’ambito dei delitti riservati) diventano “delitti contro la fede e delitti più gravi” mentre ora (più efficacemente) vengono ricordati come “delitti contro la fede nonché delitti più gravi”: semplice passaggio formale, che in vent’anni, passando dai “delitti più gravi” a quei delitti che in ogni caso sono “più gravi” ma anche e sempre “contro la fede”, evidenzia una presa di coscienza: le Norme, inflate, furono riviste nel 2010 rispondendo alla sempre più crescente necessità di affrontare adeguatamente la «dolorosa ferita» (Benedetto XVI, Lettera pastorale ai cattolici dell'Irlanda, 19 marzo 2010) della pedofilia. Un grave crimine e peccato, tanto per le vittime e le loro famiglie, quanto per l’intera comunità. I delitti di cui si parla sono una ferita non solo dolorosa ma gravissima alla fede e alla comunione, quanto alla santità e alla vita della Chiesa. Ogni “delitto grave” è poi anche un attentato alla fede e, per questo, alla comunione e al comune sentire. E poiché non c’è comunione senza sacramenti ecco che i “delitti gravi” sono anche “abusi gravi” e “delitti riservati”, diciture che intendono sottolineare la competenza della CDF, chiamata a «promuovere e (…) tutelare la dottrina sulla fede e i costumi in tutto l’orbe cattolico» (Pastor Bonus, 48).

Schema e linguaggio sui “peccati più gravi”

Nel doppio registro delle categorie di “dottrina” e “comunione” si coglie il motivo per il quale si parli di “fede e costumi” a partire dai “sacramenti” e si comprende anche perché lo schema dei “delitti” è andato qualificandosi ulteriormente. Lo schema, infatti, permane: si tratta di delitti contro l’eucarestia, contro la penitenza, quello di attentata ordinazione sacra di una donna e quello contra sextum, in particolare, quello commesso dal chierico con minore o con chi, pur non essendo del tutto privo di ragione, non ha la piena padronanza delle proprie facoltà mentali.

Le quattro forme di delitto sono presentate in modo diverso: i delitti relativi all’eucaristia e alla penitenza sono presentati come “delicta graviora contra sanctitatem augustissimi eucharistiæ et pænitentiæ” mentre quello relativo all’attentata ordinazione sacra di una donna non è presentato come “contra sanctitatem” ma solo come “più grave” insieme a tutti gli altri. Mentre alcuni delitti gravi circa il sacramento dell’eucaristia e alcuni delitti gravi relativi alla penitenza, sono indicati come “contro la santità del sacramento”, quello relativo alla tentata ordinazione di una donna è “solo” un “delitto più grave” per il quale non è citata la “santità dell’ordine sacro”. I vari delitti sono differenti non solo formalmente ma anche sostanzialmente.

Forse non è nella mente del legislatore porre una siffatta differenza: rimane il fatto che il testo così giace e le parole hanno un grande peso. Non si può paragonare l’attentata ordinazione di una donna agli altri atti, di per sé sostanzialmente diversi. Resta la questione del criterio sistematico estrinseco con cui sono avvicinate fattispecie diverse. Con il rischio che una dogmatica giuridica della sanzione condizioni troppo pesan temente la dogmatica teologica della comprensione e che una sanzione generica sulla “attentata ordinazione” impedisca una seria discussione sulla ordinazione femminile al diaconato, squalificandone a priori la plausibilità.

Processo extragiudiziale e processo culturale

Anche per questa modifica delle Norme rimane la tendenza ad invertire il principio di predilezione della via ordinaria giudiziale a quella extragiudiziale (ovvero amministrativa). In altre parole, col processo extragiudiziale (che prevede decreto amministrativo) si dà più possibilità di intervenire con tempestività soprattutto nei casi in cui i delitti siano conclamati, il reo sia confesso (sebbene assicurato nel suo diritto di difendersi) e quando l’ordinamento civile abbia già svolto sufficienti indagini, o quando ci sia già una procedura penale in sede civile o che la magistratura civile abbia già comminato una sanzione.

È vero anche che la procedura extragiudiziale lascia spazio di intervento alle disposizioni della legge civile e al deferimento di crimini alle autorità civili preposte davanti alle quali il reo dovrà difendersi: ed è meglio avere un solo procedimento a carico che due, canonico e civile. In ogni caso, appare ovvio come la procedura extragiudiziale (che deve essere sempre permessa dal Dicastero) possa non solo risultare celere ed equa, ma possa anche apparire più giusta nei confronti delle aspettative delle vittime e possa essere più utile al ristabilimento della giustizia e della comunione ecclesiale, nonché possa risultare più utile a garantire l’esercizio di difesa per coloro che devono difendersi anche in sede civile. E non è escluso che si attenda l’esito del processo civile per decidere ulteriormente sui fatti, sebbene si possano da subito comminare pene e sanzioni (sempre con mandato della CDF, se la facoltà è richiesta dal o rimandata all’Ordinario competente). Però è evidente che il ricorso ad una via “extragiudiziale” attesta allo stesso tempo la non autosufficienza del sistema penale ecclesiale, oltre che l’inerzia di un sistema giudiziario di tipo inquisitorio.

Può lasciare perplessi un dato. I delitti di pedofilia, di abuso di persona incapace e di pedopornografia sono declinati come “delitti più gravi contro i costumi” (delicta graviora contra mores).

La formula è già presente nel 2010 ed estende il solo “delictum contra sextum” delle Norme del 2001. In particolare, le ultime modifiche (del 2021), pur mantenendo l’assetto del 2010, aggiungono la non rilevanza dell’ignoranza circa l’età della vittima (ovvero anche complice) quale attenuante o esimente la responsabilità. Eppure, si nota come il nuovo titolo disposto per questi delitti non venga citato: non si parla, infatti, di delitti contro la vita, la dignità e la libertà dell’uomo come indica il VI Titolo del VI Libro del CIC novellato. Ma più che il titolo è l’idea che manca. Ora tre sono le possibilità: o la CDF non ha voluto riprendere il concetto di “delitto contro la dignità”, per evitare di suscitare perplessità circa le proprie competenze (la CDF, come detto, si occupa di “fede e costumi”), o ha preferito semplice mente seguire lo schema del 2001, o qualcuno ha semplicemente sbagliato nel non integrare quel concetto di “dignità” tra i “costumi e fede”. In realtà appare strano che un delitto contro la “dignità umana”, quale è quello di pedofilia e di pedopornografia, non sia riconosciuto anche come “delitto contro la fede e i costumi”. Se la CDF avesse usato questa dicitura chi mai avrebbe potuto sollevare questioni di “competenza” e perché?

Appare anche un altro dato: in tutto il testo delle norme il sostantivo “dignità” è riferito a “sacramentale” ed è citato in riferimento a coloro che non la riconoscono e con cui i ministri cattolici non possono “concelebrare”. L’uso delle parole indica il loro significato, legato ad una sistematica classica, ma qui non del tutto adeguata alle questioni in gioco.

Il dato pone dunque una evidenza: il contesto del testo rimanda alla fede e ai costumi e i delitti più gravi sono riferiti ai “sacramenti”. Il limite che nasce da questo contesto, e che ci portiamo dietro pari pari dal 2001, nonostante le ultime modifiche al diritto penale canonico, emerge nel ritenere, almeno nel testo giuridico, la necessità di tutelare più la dignità del sacramento che quella delle persone. Anche così, in tutta buona fede, si può restare in una logica autoreferenziale.

Docente di Teologia dei Sacramenti e Filosofia della Religione al Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma, Andrea Grillo insegna Liturgia presso l’Abbazia di Santa Giustina, a Padova; è saggista e blogger (http://www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non/).

Umberto Rosario Del Giudice è canonista, docente all’Istituto superiore di Scienze Religiose Donnaregina di Napoli

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