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Fake news dall’America Latina. Quando l’informazione è di parte

Fake news dall’America Latina. Quando l’informazione è di parte

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 2 del 22/01/2022

Mentre facevo un po' di pulizia fra le mie carte, mi sono imbattuto in un ritaglio di giornale che riportava il seguente titolo: “Quando perdono sono brogli, quando vincono è democrazia”. Guardo meglio: si trattava delle parole di un cartello portato in piazza da un giovane peruviano che protestava contro l’arroganza di Keiko Fujimori, la candidata alla presidenza sconfitta nelle recenti elezioni del suo Paese. A spoglio delle schede ultimato, Castillo, il candidato di una coalizione progressista, era riuscito vincitore, anche se con un ristretto margine, sull’avversaria, figlia del famigerato ex presidente Fujimori, condannato a molti anni di carcere per una serie di reati gravi, ed essa stessa sospettata di illeciti.

Finito il conteggio dei voti, la signora Fujimori si era subito dichiarata vittima di una frode. Solo dopo parecchi giorni, di fronte a un ennesimo controllo e alle dichiarazioni degli osservatori internazionali presenti che tutto si era svolto nella massima trasparenza, è stata costretta ad accettare la sconfitta.

Un esito a lieto fine, dunque, almeno per ora, e non scontato. Da sempre in America Latina i potenti di turno hanno cercato di cambiare le carte in tavola, ad esempio dichiarandosi vincitori a metà scrutinio di ogni tornata elettorale, per poi accusare di frode gli avversari, se alla fine questi ultimi vincevano. E se queste accuse risultavano poi infondate, qualora le circostanze fossero loro sembrate favorevoli, si servivano di ogni mezzo, non ultimo un colpo di Stato, per conseguire il loro scopo.

Abbiamo dimenticato il Cile? Da anni ormai sono stati resi pubblici i documenti che attestano il coinvolgimento militare americano nel golpe del generale Pinochet che nel 1973 pose fine al governo socialista di Salvador Allende, eletto tre anni prima in una pacifica competizione elettorale; e ha fatto il giro del mondo una famosa frase dell’allora segretario di Stato Kissinger che suona all’incirca così: “Non possiamo permettere che i cileni, votando conto il loro stesso interesse, si buttino nelle braccia dei comunisti.” Missione compiuta: semaforo verde per il golpe che avrebbe provocato migliaia di morti, di torturati, di scomparsi, un milione di profughi e sedici anni di dittatura militare. Di fronte a casi del genere, numerosissimi in America Latina da cent’anni a questa parte, troppe volte la Chiesa gerarchica ha avuto un comportamento tutt’altro che limpido, mostrandosi spesso collusa con regimi oppressivi, a dispetto dei numerosi sacerdoti che a rischio della vita hanno condiviso la sorte del popolo.

Negli anni ‘80 il martirio del vescovo Romero, e con lui quello di decine di religiosi e di centinaia di operatori pastorali laici solo nel piccolo Stato del Salvador, è un segno tangibile di una Chiesa che, scegliendo la parte degli ultimi, ne paga le conseguenze.

Papa Francesco è figlio di questa Chiesa, una Chiesa che scende dal suo piedistallo, una Chiesa che si converte, una Chiesa che si fa popolo, il Popolo di Dio.

Francesco ci aiuta ad aprire gli occhi di fronte a ogni forma di oppressione, e ci insegna che, per distinguere il giusto dall’ingiusto, è necessario cercare sempre la verità, soprattutto quando i fatti, per interesse di parte, vengono distorti o addirittura occultati.

Diceva in proposito don Samuel Ruiz, vescovo del Chiapas, quando fu chiamato a promuovere accordi di pace tra i rivoltosi zapatisti e il governo del suo paese, il Messico, che nelle proprie scelte bisogna essere imparziali, ma mai neutrali. È un richiamo a tutti coloro che gestiscono i media a non piegarsi alle pretese dei potenti, come solitamente avviene, anche da noi, purtroppo.

Voglio citare solo un paio di esempi, sempre dell’America Latina.

Il primo riguarda le manifestazioni antigovernative che si sono svolte a Cuba negli ultimi tempi. I contestatori, che richiedevano la liberazione dei prigionieri politici e libere elezioni, e al tempo stesso lamentavano la penuria di generi di prima necessità, cosa di cui accusavano direttamente il governo, hanno subito la repressione delle forze dell’ordine: un morto e decine di feriti. Di tutto ciò abbiamo avuto ampi resoconti da parte della grande stampa e della televisione.

Desta preoccupazione un’accusa relativa a questa scarsità di prodotti reperibili rivolta al governo cubano da parte di settori non piccoli, anche se minoritari, della popolazione, quando è evidente che di tali disagi i maggiori responsabili sono gli USA che non allentano la morsa del blocco, sperando di prendere Cuba per stanchezza e per fame; proprio ora poi, in tempo di covid, quando la crisi del turismo, fonte primaria delle entrate dell’isola caraibica, genera ulteriori difficoltà. Ma si sa, la caduta del socialismo cubano porterebbe immediatamente alla fine del blocco. E allora sì che entrerebbero prodotti in abbondanza. Peccato però che solo chi ha soldi potrebbe approfittarne, mentre la maggioranza diventerebbe più povera di ora.

Il secondo riguarda il Cile. Negli ultimi anni centinaia di migliaia di cileni hanno sfilato in piazza per chiedere giustizia sociale e la riforma della Costituzione (quella fascista voluta da Pinochet e mai cambiata dalla fine della dittatura che solo oggi, dopo l’esito del recente referendum, sta per essere riformata). La violenza del regime, che pure veniva accreditato come democratico agli occhi del mondo, è stata di una crudeltà incredibile: molti morti, centinaia di incarcerati, ragazze sistematicamente stuprate nelle carceri, decine e decine di giovani accecati da pallottole di gomma sparate volutamente sul viso dei manifestanti. Non mi sembra che si sia data molta visibilità a questo dramma collettivo della società cilena. Tutti sanno quanto è repressivo il governo cubano con gli oppositori politici, ma pochi sono al corrente dei fatti ben più gravi che hanno colpito il popolo del Cile. Uno strabismo giornalistico che la dice lunga sul ruolo dei media.

È troppo chiedere una maggiore obiettività? Forse è troppo. E allora sta a noi informarci, soprattutto attraverso canali diretti, anche se sappiamo bene che non è facile, per non cadere nella trappola di un’informazione a senso unico; come quando ci hanno voluto convincere della crudeltà dei palestinesi che hanno bombardato Israele con razzi, provocando molta paura, ma per fortuna pochi morti, mentre non hanno condannato la risposta ben più devastante degli israeliani, che ha provocato centinaia di vittime a Gaza, con la distruzione di interi quartieri.

Un ulteriore esempio di come i centri del potere economico e politico usino le fake news per screditare gli avversari democratici l’abbiamo avuto durante le recenti elezioni cilene.

Come ieri Bolsonaro in Brasile, così Kast, il candidato della destra, è ricorso ai mezzi più squallidi pur di vincere. Ha inondato il Cile di false notizie sugli avversari politici – e in primo luogo su Boric, il candidato democratico – tutti accusati di corruzione, di brogli e di violenze di ogni genere, persino contro le donne, quando tutti sanno quanto la sua parte politica, una destra omofoba e maschilista, abbia in conto il genere femminile. Ma non basta. Il giorno del voto Kast, da vero creativo della politica, ne ha inventato una nuova: ha fatto sì che nella capitale Santiago restassero fermi centinaia di autobus che avrebbero potuto portare gli abitanti delle periferie, presumibilmente quasi tutti di sinistra, a votare ai seggi elettorali.

Il popolo ha vinto comunque, perché al secondo turno i vari spezzoni della sinistra hanno votato compatti per Boric. Un segnale che apre alla speranza per le forze progressiste del continente.   

Bruno D’Avanzo è membro del Centro studi e iniziative America Latina del Circolo Vie Nuove di Firenze  

* Gabriel Boric il 19 dicembre 2021 durante il suo discorso di insediamento alla presidenza del Cile; scatto di Fotografoencampana tratto da Wikimedia Commons, Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International license

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