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Dal Gesù storico al Cristo della fede

Dal Gesù storico al Cristo della fede

Tratto da: Adista Documenti n° 14 del 16/04/2022

Nella mia prima giovinezza fu insegnato anche a me, come a tutti gli obbedienti e disciplinati fedeli della Chiesa cattolica apostolica Romana, che l’unica possibile via per accostare il Gesù autentico era ed è quella di accogliere non solo il racconto che ne propongono i testi del Nuovo Testamento ma anche l’interpretazione autentica che, nella successione millenaria della Tradizione, di quei testi offre l’insegnamento del Magistero, garantito dalla successione apostolica. E questo avrebbe dovuto bastarmi. (Così oggi, per esempio, dovrei fiduciosamente recepire la ricostruzione della figura del Cristo esposta da papa Ratzinger nel suo “Gesù di Nazareth” del 2007, che invece poco mi persuade, anche se del suo autore rispetto i sinceri convincimenti.)

Ma ben presto proprio il desiderio di sapere di più e meglio sulla sfuggente figura di Gesù mi fece appassionare all’esegesi biblica e a tutte quelle discipline storiche che non si stancano di indagare la sua vicenda contestualizzandola nel quadro culturale, politico, antropologico del suo tempo, ma anche analizzando e confrontando con scrupolo filologico gli stessi testi del Nuovo Testamento e illuminandoli meglio anche grazie alle scoperte archeologiche (come, fra le tante, quelle del 1945 dei codici di Nag Hammadi) tuttora in corso; senza dimenticare il ruolo decisivo della libera riflessione teologica praticata al di fuori dei seminari e delle facoltà sottoposte al controllo della gerarchia cattolica e la conseguente enucleazione del cuore del probabile e verosimile messaggio dell’uomo di Nazareth, depurato da tutte le incrostazioni dogmatiche e catechistiche accumulatesi nei secoli.

Questa passione per la Gesuologia rimane per me la più avvincente delle ricerche, nella consapevolezza che comunque il Gesù storico resterà per noi conoscibile solo per frammenti, difficili da connettere e interpretare in modo univoco, un enigma che continueremo a studiare e a tentare di capire, senza poterci avvicinare più di tanto. Ecco dunque che quanto più proviamo a cogliere indizi della sua autentica figura, tanto più sorgono domande alle quali è difficile sfuggire e le cui risposte restano incerte. Perché Gesù si allontana dal villaggio natale per raggiungere il Battista, il quale non è un moralista indignato del libertinaggio di Erode, ma disprezza il re servo di Roma perché vede nel suo comportamento non solo sessuale la riprova del tradimento dell’identità religiosa e nazionale ebraica contaminata dalla cultura ellenistica?

Perché dopo aver dato in sinagoga a Nazareth le prime avvisaglie sconcertanti della sua novità («Il Signore mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del suo giubileo», Lc 4,18-19) se ne allontana con la riprovazione dei suoi familiari per trasferirsi a Cafarnao e Bethsaida? Perché riesce ad arruolare il primo manipolo dei suoi seguaci proprio qui, in questo angolo dell’indomita Galilea che è stata pochi anni prima il centro della rivolta antiromana dei figli di Ezechia? Come mai afferma di non essere venuto a portare la pace ma la spada e a separare i figli dai padri, i fratelli dai fratelli? Con quale progetto osa sfidare i Romani annunciando come imminente quell’Impero di Dio che dopo la distruzione del Tempio nel ‘70 ad opera di Tito la predicazione cristiana posticiperà prudentemente in un futuro remoto ben presto trasferito nell’aldilà ancora oggi promesso dai preti? Perché invita chi ha una spada a vendere anche il mantello per procurarsene un’altra ed entrerà a Gerusalemme accompagnato da una piccola folla che lo proclamerà re al canto dell’Osanna per niente pacifico che era l’inno di guerra dei combattenti di Israele? A quale scopo Pietro lo accompagnerà armato nel giardino del Getsemani? E infine: perché mai con un Medio Oriente pieno di filosofi itineranti sul modello dei filosofi ellenistici Pilato avrebbe dovuto preoccuparsi di un Gesù maestro di una morale irenica se in realtà quest’uomo non avesse costituito davvero un serio pericolo per l’ordine costituito?

Domande tutte senza risposta certa e definitiva, che comunque non si possono eludere quando ci si accosta all’enigma del Gesù storico, magari con la speranza inconfessata che domani in qualche nuova grotta del mar Morto o in un anfratto del deserto si possa fortunosamente scoprire qualche papiro con qualche nota più precisa.

Eccomi dunque al cospetto di una figura che in giovinezza ho adorato come la seconda persona della Trinità, in assoluta condiscendenza nei confronti delle formule del Credo di Nicea, senza considerare allora che quando fu redatto il Simbolo (la sintesi) della fede cristiana tre secoli erano ormai passati dagli eventi del Golgota e che quelle formule erano state redatte dai vescovi dell’Oriente cristiano (assente la quasi totalità di quelli di Occidente) che pensavano secondo le categorie della filosofia greca abissalmente ormai lontane dall’antropologia e dalla cultura ebraica di Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre pilastri della prima Chiesa di Gerusalemme. Dopo i lunghi e appassionanti anni di studio e di ricerca, quel Gesù mi si presenta oggi con i tratti di una figura storicamente ben diversa da quella che aveva ispirato le mie meditazioni tutte spirituali e moraleggianti che pensavo scaturire dalla lettura dei Vangeli.

Come posso dunque descrivere il passaggio, per me, dal Gesù storico, così problematico, sfuggente e tuttavia sempre più affascinante, al Cristo della fede, come mi invita a fare questo numero di Adista? Non certo con argomentazioni storiche o religiose, ma solo raccontando, sottovoce e brevemente, e senza la pretesa di descrivere un itinerario che debba essere valido per tutti o almeno per alcuni, la mia esperienza esistenziale che si è nutrita non solo degli studi su Gesù e sulla prima Chiesa che mi hanno sempre fatto buona compagnia, ma anche dell’esperienza di vita che mi ha obbligato a rivedere radicalmente il mio modo di “credere” in lui.

Voglio dir subito che da parecchio tempo (come ho provato ampiamente a spiegare nel mio libro Se il cielo adesso è vuoto, edito da Gabrielli nel 2017) mi sento più “gesuano” che “cristiano”, perché il termine cristiano mi pare appartenere alla tradizione e allo spirito ebraico, che rispetto e apprezzo, ma che non fanno parte della mia vita. Sarò più preciso: accetto (non senza la vergogna di sentirmene assolutamente indegno) di essere definito cristiano solo nell’accezione derisoria con cui i primi credenti vennero così definiti ad Antiochia, una ventina di anni dopo la morte in croce di Gesù, come si legge in Atti 11,26. La definizione non poteva che venire da altri ebrei (sia giudei che gentili) per stigmatizzare questa – per loro incomprensibile – fede nel Gesù di Nazareth che era venuto a proclamare l’imminente venuta dell’impero di Dio (la basilèia tu Theù) e che per proprio per questo era stato riconosciuto da alcuni israeliti non solo come un rabbì (maestro) ma anche come il Messia, l’unto dal Signore venuto a liberare il suo popolo. E ne avevano non poche ragioni: il Regno infatti non era venuto e delle schiere di angeli che secondo l’attesa apocalittica e la parola di Gesù sarebbero scese dal cielo con il Figlio dell’uomo non si era vista alcuna traccia. Non solo: neppure uno di quegli angeli era venuto a salvare dalla croce quello che si era presentato come l’inviato di Dio. La sprezzante derisione per il suo miserevole fallimento era cominciata proprio sul Golgota, dove più d’uno, secondo il racconto evangelico, era venuto a rinfacciargli «Hai salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto» (Lc 23,35). E quella doveva essere stata la domanda che si erano posti anche i suoi primi seguaci, costretti a vedere con sgomento in quell’abbandono da parte di Dio la sconfessione dell’annuncio che l’uomo di Nazareth aveva ribadito senza sosta, annunciando l’inizio di una nuova era di giustizia e di pace proprio ad opera del suo Dio.

Scrivo intenzionalmente del “suo” Dio, perché i Vangeli non hanno dubbio sulla sconfinata fiducia che Gesù nutriva nei confronti del Dio di Israele che egli si era spinto confidenzialmente a chiamare “Babbo” e che, a suo dire, gli aveva concesso di compiere prodigiose guarigioni come primizia dei tempi nuovi e segni dell’imminente arrivo del Regno. A dispetto delle dottrine dell’Incarnazione che più tardi avrebbero raccontato Gesù fin dal principio consapevole – per essere lui stesso in quanto Figlio portatore di una conoscenza assoluta – del suo destino di vittima sacrificale, appare invece del tutto verosimile che Gesù non si immaginasse che quello sarebbe stato l’esito della sua vicenda futura, perchè irremovibilmente radicato in una fede assoluta in quel Babbo che non avrebbe potuto mai tradirlo.

E invece il tradimento venne e questa sconfessione pubblica del creduto (da alcuni) Messia lacerò non solo l’anima ma la fiducia stessa del crocefisso, che già nel Getsemani aveva implorato di essere sottratto a quella sorte orrenda e che sulla croce gridò la sua disperazione.

Ma fu davvero il tradimento di Dio? O a essere tradita fu l’aspettativa che Gesù aveva nutrito nei confronti della sua immagine del Padre buono e onnipotente, signore del Cielo e della Storia? È questa la domanda che un giorno non potei più non pormi in tutta onestà, con tutta la difficoltà, anzi il vergognoso imbarazzo, di osare un pensiero e un sentimento così arditi, se non blasfemi. Da allora mi accompagna e non mi dà pace. O meglio, mi dà una pace nuova, più umana, non più religiosa, perfettamente laica.

No, per me Gesù non può essere il Messia atteso dagli Ebrei: sia perché non sono ebreo, sia perché, nei fatti, egli fu sconfitto e il suo disegno miseramente fallì. Non posso dunque essere “cristiano”, ma solo accettare di essere definito anch’io (come i primi cristiani di Antiochia) “messianista” in senso derisorio e denigratorio perché mi ostino a tenere il mio sguardo fisso a quella croce del Calvario che fu la sconfessione di Gesù da parte di quell’immagine del Dio Onnipotente che per lunghi anni aveva accompagnato anche la mia fede. È con questa ineludibile domanda che cominciò anche per me la stagione del post-teismo, cioè il periodo post-religioso della mia vita, anche se di post-religione ancora non si parlava, o io non ne avevo sentito ancora parlare. E quanto fu liberatorio più tardi incontrare le riflessioni di Spong, Lenaers e Vigil!

“Gesuano” dunque, in quanto appassionato (potrei dir meglio: innamorato) alla vicenda del sovversivo di Nazareth, che sentii il bisogno di conoscere meglio con l’aiuto degli studiosi che stavano da tempo indagando la realtà della sua vicenda storica collocandola con sempre maggior precisione nel contesto politico, culturale, antropologico, religioso in cui essa si era svolta, almeno per avere la certezza di non credere ciecamente a una figura astorica e immaginaria, trasformata da molte successive narrazioni teologiche, dogmatiche e dottrinali, ma assolutamente difforme rispetto alla sua concreta realtà. Per esempio non avrei più poturto confidare nel Cristo Pantocratore (onnipotente) dei mosaici bizantini, che ne fecero l’icona ipostatica dell’imperatore di Costantinopoli. Tanto meno nella “vittima sacrificale” di tanta dottrina elaborata nella Roma dei giuristi e poi da Agostino, che secondo la mentalità giuridica latina, dalla quale non poteva sfuggire, giustificò l’abbandono di Dio sul Calvario con la necessità che una delle figure della Trinità, per risarcire l’offesa di Adamo e Eva e di tutti i loro discendenti al Creatore, gli offrisse addirittura se stessa come “vittima divina” a compensazione dell’orrendo sacrilegio.

Mi sento dunque gesuano, ma anche “cristiano”, se proprio volete, nella consapevolezza però di dover abbandonare proprio quell’immaginario religioso del Padre buono, onnipotente e provvidente che lasciò crepare miseramente sulla croce quello che poi, nell’ambito della cultura e della religiosità ellenistica orientale, si cominciò a descrivere come “il figlio di Dio”.

Ma che senso può dunque avere “credere” per me oggi a Gesù, in questa nuova dimensione esistenziale nuda e aggravata dal senso di un’orfanità rispetto al perduto Dio vetero testamentario, che si è dissolto nel momento in cui Gesù rese lo spirito e che non interverrà neanche nell’aldilà per rispondere all’invettiva dell’altro ieri di Francesco – «Penso all’ira di Dio, che si scatenerà sui responsabili di quei Paesi che parlano di pace e vendono le armi per fare queste guerre» – perché quell’ira sarebbe troppo tardiva e, crudelmente, non potrebbe cancellare l’orrore che sta accadendo sotto i nostri occhi ADESSO.

L’unico senso per me possibile di questa fede nel Gesù “unto e consacrato” da un Mistero indicibile che non l’ha sottratto alla disfatta finale e alla delusione più tremenda è avere ben presente che non si tratta di una “credenza” astratta della mia mente ma di un’opzione esistenziale. Dunque non di un “dono” celeste, come afferma la dottrina del catechismo, ma di un gesto potente e azzardato della volontà. Del resto non c’è alcun episodio dei Vangeli in cui non sia detto chiaramente che Gesù non si impone a nessuno come un’evidenza indiscutibile ma al contrario propone di credere (concretamente: di fidarsi) a coloro che incontra, perché siano loro stessi a cambiare la propria vita.

È a questo Gesù che posso credere oppure no, ben sapendo che non posso più credere che è figlio di (un) Dio nel senso in cui credevo tempo fa, proprio perché oggi devo fare i conti con il tragico rovesciamento, anzi svuotamento, di quell’immagine arcaica e religiosa del Dio Onnipotente, per prendere atto che, disconosciuto sulla croce da quel Dio, l’uomo di Nazareth mi impedisce di aspettarmi il Regno per domani o dopo domani.

Se per me il Gesù storico e il Gesù della fede sono dunque la stessa persona, in che senso posso dirlo risorto, dopo lo sprofondamento nell’abisso della morte che gli fece conoscere, secondo le parole mitiche del Credo, l’oscurità spaventosa e annichilente degli Inferi? Io non trovo che vi sia altra possibilità di annunciare la resurrezione se non quella di Maria la Maddalena che, quando lo va a cercare nel giardino (un luogo di per sé sinonimo di vita), lo scambia per il giardiniere ma subito si accorge di essersi sbagliata. Colei che più di tutti i discepoli l’ha amato (al punto, dice il vangelo apocrifo di Filippo, da suscitare la loro invidia e riprovazione scandalizzata perché era così intima con lui da poterlo baciare sulla bocca) si accorge che è vano il suo desiderio di toccarlo come fosse fisicamente presente e tuttavia va ad annunciare agli altri che il “suo” Gesù è vivo. La Resurrezione è entrata nella fede dei cristiani attraverso l’amore di una donna!

Capirà e sentirà anche Pietro col tempo che Gesù è vivo, e quando terrà la sua prima predica pubblica a Gerusalemme, testimoniando di aver conosciuto un uomo straordinario che era passato “facendo del bene”, motiverà la sua fede nel risorto dicendo semplicemente che «Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere» (Atti 2,22). Pietro non più pensare che tutto il bene e il coraggio erogati a piene mani da Gesù vadano persi: per questo lo sente vivo dentro e accanto a sé, operante adesso con le mani di coloro che credono nonostante tutto. E subito dopo di lui Paolo lo esalterà conferendoli una dignità divina proclamando che «Dio lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli» (Ef 1,20-22).

Per me questo significa che anch’io lo sento vivo, anche se come la Maddalena non ne ho le prove. O per meglio dire “lo voglio e lo sento vivo” come la Maddalena e come i primi che tale lo sentirono, al punto da raccontare di averlo addirittura visto e incontrato. Cosicchè anche l’attesa del Regno vive con lui e come lui: un Regno sempre promesso, che mai si compie in pienezza definitva nella Storia, ma ne costituisce l’orizzonte luminoso che illumina e trascina in avanti il presente, anche quando è oscuro come i giorni che stiamo oggi tremendamente vivendo.

Gilberto Squizzato è regista televisivo, saggista, da anni teorico di una fede “laica”. Con Gabrielli Editori ha pubblicato “Il miracolo superfluo, Il Dio che non è ‘Dio’” e “Se il cielo adesso è vuoto. È possibile credere in Gesù nell'età post-religiosa?”.

*Immagine presa da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza

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