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Il futuro della Chiesa: lasciarsi contaminare

Il futuro della Chiesa: lasciarsi contaminare

Tratto da: Adista Documenti n° 14 del 16/04/2022

Nel nuovo contesto culturale definito come post-moderno o post-secolarizzato, oppure anche post-cristiano e post-teista, che da decenni sta prendendo piede in Occidente a ritmi vertiginosi, le strutture rigide sono destinate ad essere soppiantate. Una struttura culturale è rigida quando considera immutabili i principi su cui è retta e li difende contro ogni possibile contaminazione. Le strutture culturali rigide si sono costituite nel tempo in cui la vita presente era pensata come sussistente da principi metafisici, posti oltre la realtà temporale, offrendo i significati esistenziali per intere generazioni. La velocità dei cambiamenti in atto, elemento caratteristico dell’attale quadro culturale, richiede allo stesso tempo, la capacità di mettersi in discussione e di mettere sul tavolo le proprie idee e, in secondo luogo, la disponibilità ad entrare in dialogo, al confronto rapido. Le strutture di pensiero sistematico e dogmatico, così significative nel periodo medievale e moderno, non funzionano più, proprio perché non permettono la modificabilità necessaria richiesta dalle strutture di pensiero postmoderno. Ci vuole ben altro.

L’attuale contesto, dunque, non permette a nessuno di adagiarsi sul “si è sempre fatto così”. I punti di riferimento esistenziali vengono ricercati per la qualità della vita che possono offrire. Vale ciò che è buono ed efficiente nell’immediato, più che puntare sui significati “eterni”. È, dunque, proprio questo aspetto del “per sempre”, che è entrato in crisi e viene sostituito con il bene immediato. Occorre essere desti, attenti, veloci nel capire i cambiamenti in atto. Dura nel tempo ciò che si adatta al cambiamento, che sa cogliere le sintonie con i propri paradigmi culturali e non chi pensa di essere dotato di strutture metafisiche eterne e immutabili. Rimangono sul mercato della vita quelle realtà che hanno compreso che la possibilità di crescere e di migliorare non sta nel difendere a denti stretti il proprio patrimonio cultuale di valori, ma nel metterlo a disposizione e nel lasciarsi contaminare dai mondi circostanti.

Un contesto di rete

Questa primissima presa di coscienza ci porta a comprendere che non solo siamo immersi in un contesto di rete – lo sapevamo già –, ma che ogni organismo ha la possibilità di vivere o di sopravvivere imparando ad accogliere al suo interno elementi dei mondi che incontra. Non c’è possibilità di sopravvivenza per quella cultura che intende salvare la propria presunta purezza. Anche perché una caratteristica specifica della postmodernità è la vita nel presente come unica dimensione in cui c’è possibilità di esistenza. Se la caratteristica del pensiero medievale e di quello moderno, con significati diversi, consisteva nel sacrificare il presente per una prospettiva positiva nel futuro, diametralmente opposta è la percezione del tempo nella postmodernità. Nessuno è più disposto a sacrificare qualcosa in vista di un futuro che non è più considerato come positiva prospettiva esistenziale. C’è solo questo mondo e questa vita a nostra disposizione: il resto è tempo perso.

Principi epistemologici

Per entrare in modo significativo in questo nuovo paradigma culturale sono necessari alcuni requisiti fondamentali, che potremmo definire principi epistemologici. Il primo, consiste nella disponibilità a riconoscere come validi e positivi alcuni elementi del mondo che incontriamo. Ciò comporta la presa di coscienza che il nostro mondo non detiene il copyright della verità e, allo stesso tempo, che c’è del buono e del vero anche nei mondi che incontriamo. Dal punto di vista cristiano questo requisito si traduce nella presa di coscienza che lo Spirito Santo agisce ovunque, non solo nella Chiesa cattolica. Ce lo ha ricordato il Concilio Vaticano II, quando affermava che le sementi del Verbo sono sparse in tutte le religioni. Giustino, nel II Secolo, è stato il primo ad utilizzare l’immagine delle sementi del Verbo, riferita non tanto alle religioni, ma alle culture, alle filosofie, a tutti coloro che prima e dopo di Cristo operano in favore del bene, della giustizia e dell’amore, indipendentemente dal fatto di appartenere alla Chiesa o di conoscere il Vangelo. C’è lo Spirito Santo che agisce in ogni luogo, che è sempre all’opera per costruire un mondo di amore, di giustizia e di pace.

Il secondo requisito, che è una sorta di corollario del primo, anche se più complesso e problematico, consiste nella possibilità di fare spazio alla bontà, alla positività del mondo incontrato al punto di assimilarlo e permettere un cambiamento prodotto da un elemento esterno. Si tratta, in altre parole, del processo di contaminazione. Assimilare un materiale che viene dall’esterno significa non solo riconoscerne la bontà, ma anche percepirne la possibilità di novità e di miglioramento per chi l’accoglie. Contaminazione, in questa prospettiva, significa disponibilità al cambiamento, al lasciarsi modificare e, allo stesso tempo, consapevolezza che si è entrati in un processo capace di modificare anche la struttura dalla quale si è ricevuto il contributo. Il processo di contaminazione, in altre parole, non è mai univoco, ad un’unica direzione: si cambia cambiando.

Arroccamenti e aperture Il processo di contaminazione per coloro che ne accettano la sfida, rivela un altro dato importante: c’è un’identità che non è data dalla difesa delle proprie roccaforti valoriali, ma che si definisce progressivamente con il tempo ed è in continua mutazione. L’idea di contaminazione invita la struttura culturale a rimanere aperta, perché il suo significato profondo non sta tanto nei valori ereditati, ma nella disponibilità a lasciarli modificare da ciò che incontra. C’è una possibilità di vita buona che viene a noi incontro nella misura in cui siamo disponibili ad accoglierla e a lasciarci modificare da essa e, allo stesso tempo, a modificare noi stessi i mondi che incontriamo. L’identità forte, in questa prospettiva contaminata, non sta più nella difesa estrema di valori non negoziabili, ma nella loro messa a disposizione. È forte quella struttura che si lascia contaminare e che, in questo modo, è lei stessa fattore contaminante.

Nuovi contesti

Aspetti, questi, che vediamo già in atto non solo nell’universo culturale come l’arte o la letteratura, ma anche nelle situazioni esistenziali. Si negozia tutto perché tutto è negoziabile. Non è un giudizio di valore, o etico: è una presa di coscienza. Le nuove generazioni sono nate nel nuovo contesto tecnologico che li sollecita alla velocità di cambiamento e di adattamento, che richiede libertà nei confronti del passato, delle sue tradizioni e dei suoi valori.

Oggi il principio di sopravvivenza non è radicato nel passato, ma nella capacità di abitare i mondi che si manifestano nel presente. Se nel passato l’istinto di sopravvivenza agiva sull’importanza di obbedire ai principi culturali ritenuti fondamentali, per le nuove generazioni è possibile sopravvivere solamente assorbendo la novità, modificando rapidamente i punti di riferimento, per non correre il rischio di rimanere indietro, incapace di cogliere le novità.

La Chiesa perdente

La Chiesa entra in questo contesto liquido e contaminabile, come un corpo duro, impenetrabile e, di conseguenza, perdente, nel senso letterale del termine, destinato a scomparire o, perlomeno, a rimanere un pezzo più o meno sofisticato da museo. È una struttura lenta e, quindi, impossibilitata ad abitare la velocità postmoderna. È divenuta una struttura inattuale, con delle proposte sul piano etico ed esistenziale inadeguate perché obsolete. La Chiesa si è così abituata nei secoli a determinare le leggi morali e spirituali della società in modo unidirezionale, che ritiene impensabile dover assimilare dei valori esterni.

Nel tempo, è divenuta così autoreferenziale da essere incapace di mettersi in discussione: è un aspetto che non appartiene al suo codice genetico. La necessità di rispondere in modo deciso e fermo alle situazioni difficili incontrate nei vari periodi della storia, l’hanno progressivamente indurita. Per questo motivo, l’aspetto giuridico della struttura ecclesiale è divenuto, per diversi secoli, così preponderante da determinare le scelte sul piano etico.

Allo steso tempo, per l’impianto teologico messo in atto per spiegare i propri contenuti, tra i tanti materiali a disposizione, la Chiesa ha utilizzato quelli che potevano garantire la maggior solidità e durata nel tempo. Da narrazione degli eventi del fondatore, la teologia si è fatta sistematica, costruita in modo tale da non lasciare alcun tipo di spiraglio per l’immaginazione o la creatività. La caratteristica dei sistemi teologici e, in modo particolare, il sistema tomista, consiste proprio nel fatto che deve garantire l’impenetrabilità assoluta dal punto di vista concettuale, vale a dire, la capacità di rendere ragione di qualsiasi aspetto della vita, senza aver mai bisogno di correggere la prospettiva o le definizioni di tipo assiomatico da lei elaborate. Dinanzi a sistemi teologici siffatti, si deve solo apprendere, mai mettere in discussione: è impossibile. Proprio per questi motivi, la struttura ecclesiale in tutti i suoi aspetti giuridico, teologico, etico e burocratico non ha alcuna chance di sopravvivere nel mondo dei sistemi contaminati e contaminabili. Le strutture rigide si spezzano, si sbriciolano, vanno in frantumi.

Chiesa di base, futuro possibile

Occorre, però, fare immediatamente una distinzione. È lenta, anzi lentissima la struttura gerarchica della Chiesa, gestita costantemente da persone anziane, che sono arrivate alla dirigenza proprio perché ponderate, moderate, dotate di quella saggezza che li conduce a mantenersi sempre dentro i binari della tradizione del passato, senza osare mai un passo in avanti. Diversa, invece, è la base della Chiesa, proprio perché fatta di persone che vivono quotidianamente in mezzo a mondi contaminati e in continua contaminazione. A questo livello e, cioè, al livello della Chiesa popolo di Dio, il futuro è possibile, perché anche se professano i valori non negoziabili, nel vissuto quotidiano, agiscono in modo totalmente diverso, perché mossi dal loro istinto di sopravvivenza. In fin dei conti, chi vive nei piani alti della chiesa, sopravvive indipendentemente da come si muove il mondo. È così abituato a lavorare sui massimi sistemi eterni, che gli elementi della contingenza quotidiana, non rientrano nei loro problemi. Mentre nei piani alti, i gerarchi procedono per deduzioni, nei piani bassi, si procede per intuizione.

Questa differenza di modalità di azione fa si che la comunità cristiana abbia la possibilità di lasciarsi contaminare e di interagire in modo propositivo con i mondi circostanti. Ho scritto che la comunità ha la possibilità e non che realizzi questa possibilità. Per farlo, dipende molto da dove è situata geograficamente. Più la comunità è distante dal perimetro geografico in cui ha sede la gerarchia, maggiore è la possibilità di interagire con i sistemi circostanti in modo libero. Una struttura centralizzata, infatti, come la Chiesa è, non lascia molti margini di azione libera ai fedeli della comunità circostante. Non a caso, le esperienze più significative e creative dal punto ecclesiale del dopo Concilio sono sorte a migliaia di chilometri di distanza da Roma, come ad esempio, le Comunità ecclesiali di Base in America Latina.

La contaminazione è cristiana

Il dato più significativo, che mi sembra opportuno segnalare, è che questa modalità che potremmo definire contaminata, è iscritta nella proposta cristiana. Lo si vede già in atto nello stile di Gesù, che non teme la rivalità di coloro che operano il bene anche se non lo fanno nel suo nome, perché: non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi (Mc 9,39-40). La stessa intuizione la comprende Pietro quando, vedendo che lo Spirito Santo era sceso anche sul pagano Cornelio, afferma: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (At 10,34-35). È Gesù, dunque, che mostra il cammino di un’umanità aperta allo scambio con l’altro, all’accoglienza del bene e dell’amore che proviene dall’esterno del proprio circolo di amici e amiche, proprio perché la comunità di amici e amiche che lo seguono non sono chiamati a difendere nessuna dottrina e nessuna fortezza, ma a vivere uno stile di amore senza frontiere. «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35).

Non una dottrina, dunque, né un sistema teologico onnicomprensivo e nemmeno dei valori non negoziabili da difendere con i denti, ma un unico comandamento: amatevi gli uni gli altri. Per questo motivo, Paolo intuisce che nella comunità desiderata da Gesù non c’è spazio per relazioni disuguali e ingiuste, perché: «Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). È il superamento di una visione protettiva e settaria della fede, che conduce ad uno stile di comunità aperto, accogliente, che interagisce con i mondi circostanti: non si tratta di difendere dei baluardi, ma di condividere il tesoro dell’amore donato da Cristo. È la comunità che sorge spontaneamente dal basso che trova nel Vangelo una luce per il proprio cammino esistenziale e, in questo cammino, apprende a non temere di lasciarsi contaminare dagli elementi che provengono dall’esterno, perché ha imparato che lo Spirito soffia dove vuole e nessuno può pensare d’imprigionarlo (cfr. Gv 3,8).

Per una liturgia più umana

Dove dovrebbe essere visibile lo stile aperto e contaminato delle comunità cristiane? A mio avviso nella liturgia. L’umanità di Cristo è la sorgente dell’umanità della liturgia. La ricerca di una liturgia più umana non è semplicemente richiamare la dimensione etica della liturgia, né l’ennesima strategia pastorale, ma è di ordine teologico e, pertanto, essenziale se vuole essere liturgia cristiana e non un mero rito religioso come tanti. La nostra liturgia è cristiana se è conforme all’umanità di Gesù. È nella umanità della liturgia che si rivela la forza dell’amore di Gesù e, per questo, dovrebbe avere la forma del Vangelo, più che delle norme e delle rubriche, retaggio della struttura rigida. Ebbene, come abbiamo visto, uno dei tratti caratteristici dell’umanità di Gesù è la sua apertura, la sua libertà nel porsi dinanzi alle proposte esterne, ma anche nei confronti della religione del tempio, che critica radicalmente. In questa prospettiva, una liturgia che sa di Vangelo non dovrebbe essere preoccupata di riprodurre fedelmente delle indicazioni normative, ma di esprimere i tratti dell’umanità di Gesù inculturata nel particolare contesto in cui si celebra. È triste assistere a delle liturgie che non presentano alcun elemento di novità del luogo in cui viene celebrata, preoccupata solo di essere fedele alle norme. Belle invece e comunicative di contenuti, sono quelle liturgie in cui è visibile lo sforzo di lasciarsi contaminare, accogliendo elementi culturali e religiosi del luogo in cui la liturgia viene celebrata. È quello che diceva papa Francesco a proposito del contributo dei popoli indigeni: «si tratta di raccogliere nella liturgia molti elementi propri dell’esperienza degli indigeni nel loro intimo contatto con la natura e stimolare espressioni native in canti, danze, riti, gesti e simboli» (Querida Amazonia, 82).

La Chiesa che si lascia contaminare accogliendo al suo interno le provocazioni positive dei mondi circostanti ha la possibilità di crescere, di trasformarsi e di contribuire nella costruzione di un mondo più giusto e più umano, in forza anche del suo patrimonio di valori. E così, mentre più rapidamente del previsto, si odono i rumori dello sbriciolamento della struttura ecclesiale formatasi nei secoli, sbocciano da tante parti quelle comunità cristiane che, come la semente di mostarda o come il lievito nella pasta, contribuiscono alla trasformazione del mondo permettendo che lo Spirito presente nei tanti cammini di pace, di giustizia e di amore presenti ovunque, contamini e trasformi coloro che vi aderiscono. 

Paolo Cugini è parroco di quattro parrocchie nella campagna bolognese al confine con Ferrara.

*Foto presa da Unslash, immagine originale e licenza

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