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In memoria di Aldo Moro. Se ci fosse luce…

In memoria di Aldo Moro. Se ci fosse luce…

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 19 del 28/05/2022

A mio padre

Maggio era il mese meno adatto per morire. Il maggio odoroso del Leopardi. Eppure quel 9 Maggio 1978 lui fu trovato nel baule di una macchina. Una Renault 4 rossa. Nelle case della gente la televisione era ancora in bianco e nero. Ma le televisioni a colori riempivano le vetrine dei negozi di elettrodomestici. Era la televisione sognata dai poveri, ma che solo i più benestanti potevano avere. I mondiali di calcio a colori, quell’estate, erano un sogno. Quella macchina rossa nelle vetrine moltiplicata per dieci, venti volte, sembrava una macchia di sangue che ti schizzava negli occhi. 

Dentro il baule, Lui era accovacciato come un bambino nel ventre nero della terra. «Quell’abbiosciato sacco di già oscura carne» scrive il poeta Mario Luzi (cit. in Marco Damilano, Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica italiana, Feltrinelli, Milano, 2018, p. 262). L’avevano vestito in doppio petto per la sua morte. Chissà cosa gli avranno detto, mentre infilava la camicia e faceva il nodo alla cravatta, come quella mattina del 16 marzo in cui stava per andare in Parlamento. 

Quel giorno furono trucidati e lasciati sull’asfalto dentro una scia di sangue gli uomini della scorta di Aldo Moro: Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Jozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi.

Marco Bellocchio nel suo film visionario “Buongiorno notte” lo immagina, alla fine, unico uomo libero in quel covo delle Brigate Rosse. Apre la porta e se ne va, lasciando i suoi carcerieri sprofondati nel sonno, imprigionati nella loro ideologia. Moro respira, cammina per le vie di Roma. 

Ma nel fondo del baule quella pietà incompiuta, senza una madre che abbraccia, sorregge e piange, sembra una Deposizione senza la “Pietà”. Nell’estremo abbandono. Lo avevano immortalato con due foto istantanee sotto il telo dalle stelle a cinque punte. La camicia sbottonata, come un re spodestato (cfr. Marco Belpoliti, La foto di Moro, Nottetempo, Roma 2008). Il potente uomo della Democrazia Cristiana, senza giacca, senza onore. Eppure quegli occhi da “Ecce Homo” si erano diretti a milioni di donne, di uomini in cerca di giustizia. La “ragione di Stato” non può guardare gli occhi di un uomo che muore. “Non è lui”, disserro, a scrivere quelle lettere. Il Moro bizantino, retorico, paziente più di ogni pazienza, mediatore. Per cinquantacinque giorni, quanto durò il suo rapimento, nelle case degli italiani, a differenza dei palazzi del potere, a tavola si apparecchiava un piatto in più. Per Moro. Perché lui era diventato inesorabilmente uno di noi. 

D’un tratto era diventato un uomo che guardava il buco nero del potere e chiedeva conto. «Il mio sangue ricadrà su di voi e sui vostri figli», scrisse agli uomini del potere, del partito. È la maledizione di un uomo mite, che vede il precipitare della politica nel baratro. Lui giovane uomo della Costituente, che quella Repubblica l’aveva fatta con le sue mani, insieme ad altre donne e uomini, usciti dalla guerra, vede il suo sogno svanire. 

Non date il mio corpo allo Stato. Così aveva chiesto Moro dalla sua prigionia. Cento lettere scritte rannicchiato su una brandina, in uno spazio in cui nemmeno i pensieri riescono a distendere i piedi, a respirare. 

Moro era come ossessionato che le sue lettere non arrivassero a destinazione. Redige più volte il testamento. Non date il mio corpo allo Stato, si ostina a scrivere. E infatti quel funerale senza corpo, in San Giovanni in Laterano, sembra il funerale dello Stato. I politici nel loro vestito nero sembrano distesi in tante bare, mentre Moro, l’Assente, già passeggia tra le vie di Roma «gridando le sue sconvenienti verità». (Maria Zambrano, I luoghi della poesia, Bompiani, Milano 2011, p. 190).

«Io ci sarò ancora», scrive, «come un punto irrinunciabile di contestazione o di alternativa» (Aldo Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di Miguel Gotor, Einaudi, Torino 2018).

Il papa, Paolo VI, amico di gioventù, sembra come trascinato dalla morte dell’amico nel buio della tomba. Inginocchiato davanti agli “uomini delle Brigate Rosse”, aveva chiesto invano salva la vita dell’amico. E nella cattedrale senza corpo, chiede conto a Dio, il perché non abbia ascoltato la sua disperata preghiera. Sembra che anche Dio, infatti, in quei giorni non avesse orecchie per ascoltare. Oppure aveva semplicemente occhi spalancati. Quelli che molti, troppi, avevano invece chiuso, davanti ad Aldo Moro. 

Una verità che rimane ancora oggi nascosta. Sigillata in un inconfessabile segreto. L’uomo che aveva una visione grande non poteva trovare spazio dentro menti troppo ristrette. Il Moro del “compromesso storico”, della stretta di mano con Enrico Berlinguer, spostava di fatto l’asse di intoccabili confini. Glielo aveva ricordato a Moro un minaccioso Henry Kissinger, segretario di Stato americano. Decostruiva il pregiudizio, che si potesse dialogare con i comunisti. E mentre in molti si preoccupavano dei comunisti, Moro aveva capito che erano i fascisti il vero problema per una giovane democrazia nata sulle macerie della guerra. Le nostalgie del vergognoso regime giravano come fantasmi in cerca di carne. 

Aveva scritto agli uomini del suo partito: «Perché la verità, miei cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto. Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’atra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente» (Damilano, Un atomo di verità, cit., p. 262). 

Moro si fa portare una Bibbia dai suoi carcerieri. Legge e rilegge in quei giorni la Passione di Cristo e già capisce la fine del suo calvario. È “La Passione secondo Aldo Moro”. 

Anche lui dice infine parole d’amore, mentre il dramma si consuma e si fa buio sulla terra. Scrive alla sua «dolcissima Noretta», pensa ai suoi figli, a suo nipote Luca di due anni. «Bacia e carezza per me tutti, occhi per occhi, capelli per capelli» (Moro, Lettere dalla prigionia, cit., p. 178).

Andate tutti a casa. Così ci avevano detto a scuola, pensando che si stesse consumando un colpo di Stato. 

9 Maggio 1978.

Quel giorno un altro uomo, idealista, amante della poesia e della politica, “piccolo Don Chisciotte di Sicilia”, Peppino Impastato, veniva fatto saltare in aria, dalla mafia, legato sui binari del treno a Cinisi. 

Il giorno che Moro fu trovato nel baule di una Renault 4 rossa vidi mio padre piangere come un bambino. Fu il mio battesimo politico. Se un operaio, sindacalista di fabbrica, se un comunista del Veneto democristiano, piangeva davanti al corpo di Lui, pensai, vuol dire che la politica è una cosa grande, che la politica, quella vera, è commovente. Supera le ideologie. Piange le stesse lacrime di chiunque ami la libertà e la giustizia. 

«Vorrei capire», scrive Aldo Moro alla moglie nell’ultima lettera, «con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo» (Moro, Lettere dalla prigionia, cit., p. 178). 

Evocando Alda Merini, ogni volta che leggo queste parole «minime e immense» penso agli occhi di Moro, agli occhi verdi di mio padre, e alla luce che viene... 

Marco Campedelli è teologo e narratore.

*Foto presa da Wikimedia COmmons, immagine originale e licenza 

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