Santuari e devozione popolare
Tratto da: Adista Documenti n° 31 del 17/09/2022
«Ci sono coloro che credono nell’esistenza della cultura popolare. Questa espressione, però, è solo una sequenza di parole attraverso la quale si impone, volente o nolente, una definizione dominante di cultura»: così ammoniva Pierre Bourdieu, nel suo saggio La distinzione. Critica sociale del gusto, pubblicato a Parigi nel 1979 e tradotto in italiano nel 1983. Sottesa a questa dichiarazione è la critica all’idea – che rimonta alla tradizione storiografica francese degli anni ‘60 – secondo cui la “devozione popolare” sarebbe un’espressione della più ampia categoria di “cultura popolare”, capace di intercettare pratiche religiose di matrice folklorica proprie dei ceti subalterni, parallela e alternativa rispetto alla cultura religiosa delle classi agiate. Senza entrare nei meandri – ideologici e teologici – di un dibattito complesso, io intendo come “devozione popolare” una serie di fenomeni religiosi individuali e collettivi collegati con l’oralità, la ritualità, la non-istituzionalizzazione o, meglio, la non clericalizzazione: fenomeni incarnati nel vissuto religioso quotidiano, che esigono un coinvolgimento della dimensione corporea; aperti più di altri all’agentività femminile; che possono includere a vario titolo persone non-umane (animali, per esempio); che comportano implicazioni di natura psicotropica, capaci di alterare la chimica cerebrale (e modificare comportamenti, azioni, immaginazioni).
Setting privilegiato per l’espressione di tali esperienze, da parte di singoli individui o di gruppi, è un preciso tipo di luogo sacro: il santuario. Etimologicamente il termine indica un “contenitore di cose sante”, che poteva avere in origine le dimensioni di una teca/reliquiario; soltanto a partire dal tardo Medioevo e dalla prima Età moderna, infatti, “santuario” ha cominciato a significare inequivocabilmente un luogo sacro, il cui statuto e funzione, peraltro, solo in anni recenti sono stati riconosciuti in documenti ecclesiastici ufficiali. Secondo il Direttorio su Pietà Popolare e la Liturgia (§ 262), promulgato dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti nel 2002 «il santuario, che non di rado è sorto da un moto di pietà popolare, è un segno della presenza attiva, salvifica del Signore nella storia e un luogo di sosta dove il popolo di Dio, pellegrinante per le vie del mondo verso la Città futura, riprende vigore per proseguire il cammino», mentre il canone 1230 del Codice di diritto canonico, modificato in tal senso solo a partire dall’edizione del 1983, ricorda che «[c]on il nome di santuario si intendono la chiesa o altro luogo sacro ove i fedeli, per un peculiare motivo di pietà, si recano numerosi in pellegrinaggio con l’approvazione dell’Ordinario del luogo». Tipicamente, dunque, un santuario è uno spazio in cui la dimensione sacrale è polarizzata in senso centripeto e viene percepita con intensità progressiva nella misura in cui ci si avvicina al centro ideale, ove è custodito l’oggetto di culto, è venerata la tomba di un Santo oppure è preservata la memoria di un’apparizione o un evento considerato fondativo; esso viene raggiunto attraverso un viaggio particolare, il pellegrinaggio, che di fatto apre la fruibilità del sacro a chiunque intraprenda il percorso di avvicinamento, svincolando il sacro stesso dal controllo degli “specialisti”. Così intesi, i santuari sono non solo “luoghi teologici”, ma “luoghi antropologici” nel senso pieno del termine. Luoghi di storia e di storie, si radicano nel passato, realizzano connessioni relazionali fra persone (umane ed extra-umane), contribuiscono a definire il profilo identitario di coloro che li frequentano. Di per sé, quindi, ogni santuario è antidoto a tutto quanto è de-locato, sradicato, spersonalizzato, compreso nella categoria minacciosa di “atopia”, su cui ha portato l’attenzione Marc Augé (Non luoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, tr. it., Milano 2002, ed. or. Paris 1992).
Non stupisce che negli ultimi decenni questi luoghi sacri abbiano attratto l’interesse di un pubblico variegato: dai pellegrini ai turisti, dai camminatori agli storici. Risale agli Anni’90 la promozione, da parte dell’École Française de Rome, del “Censimento dei santuari cristiani d’Italia dall’antichità ai nostri giorni” (www.santuaricristiani.iccd.beniculturali.it) le cui risultanze, implementate, sono in via di pubblicazione per l’editore romano De Luca nella collana “Santuari cristiani d’Italia”. Ulteriori sviluppi sono venuti dalle ricerche del Progetto Nazionale FIRB “Spazi sacri e percorsi identitari. Testi di fondazione, iconografia, culto e tradizioni nei santuari cristiani italiani fra tarda antichità e medioevo” (2012-2017) (www.firbspazisacri.uniba.it/).]
Proviamo ora a osservare la fisionomia concreta di un santuario nel quale si inverano molti dei tratti sin qui teorizzati e trasferiamoci idealmente sul promontorio pugliese del Gargano – un’area della quale non solo il turchese del mare merita di essere conosciuto! Qui, a ca. 780 m di altezza, sotto il monte Celano e alle falde di una folta faggeta (patrimonio UNESCO dell’Umanità), presso il Comune di San Marco in Lamis, sorge un’abbazia dedicata a Giovanni Battista: San Giovanni de Lama, meglio nota come santuario di San Matteo Apostolo. Fondata dai Benedettini prima del X secolo, forse per ospitare i pellegrini in viaggio verso il santuario di San Michele, si affaccia sullo splendido scenario della valle di Stignano, via d’accesso naturale per il Gargano occidentale, lungo un percorso che, seguendo la faglia geologica di Mattinata, risale appunto in direzione di San Giovanni Rotondo e Monte Sant’Angelo.
La storia del santuario inizia quando finisce quella dell’abbazia. Nel 1578 l’edificio, da tempo in stato di abbandono, fu affidato ai Frati minori i quali, pur conservando la dedicazione originaria a San Giovanni, lo trasformarono de facto in un santuario caratterizzato dalla devozione per san Matteo, fulcro di intensi pellegrinaggi di contadini e pastori transumanti, che esperivano un rapporto vitale e simbiotico con gli animali e con il territorio. Questa trasformazione era in linea con il peculiare carisma francescano e con il clima post-tridentino, che sollecitava azioni pastorali nelle aree rurali della nostra Penisola (i Gesuiti nel XVI secolo intrapresero esperienze missionarie nel Vicereame di Napoli, chiamandolo “India italiana”!). Nel 1683 la relazione di una visita canonica presso il santuario, firmata dal minorita Agostino da Stroncone, ci informa che la chiesa conventuale custodiva una statua lignea di san Matteo (possibile rimaneggiamento di un Cristo pantokrator medievale) e una reliquia, forse traslata da Salerno, in cui i fedeli riconoscevano un “dente molare” dell’Apostolo, attiva “massime per l’infermità degli animali”, ma anche per “le persone”. Le proprietà terapeutiche della reliquia si esplicavano soprattutto nei confronti di quanti, persone umane o animali, avessero subito i morsi dei cani rabbiosi: questo richiama evidentemente i principi della magia simpatica (simile vs. simile), ma sarà utile ricordare che i sintomi dell’idrofobia ricordano da vicino quelli “classici” della possessione demoniaca e che, per altro verso, la guarigione da questa malattia in alcuni contesti cristiani antichi (elcasaiti) era collegata – non a caso! – con la figura di Giovanni Battista.
Le pratiche rituali di carattere curativo o preventivo tuttora compiute dai devoti di San Matteo, comprendono, fra l’altro, un triplice giro intorno all’altare, la benedizione anche degli animali con l’olio del Santo, il bacio della reliquia odontica. E se in passato si affidavano alla protezione dell’Apostolo soprattutto i cavalli, preziosi per la locomozione oltre per il lavoro nei campi, oggi vige la consuetudine, fra gli abitanti del Gargano, di far benedire presso il santuario le automobili fresche d’acquisto.
Circa il santuario di San Matteo, comunque, permangono almeno due interrogativi, correlati alla conversione della devozione popolare dal Battista all’Evangelista e alle ragioni per le quali essa assunse un carattere terapeutico. È certo che i casi di risemantizzazione cultuale di un luogo sacro, come quelli in cui muta la caratterizzazione delle funzioni di un santo, non sono infrequenti nella storia, e appaiono spesso catalizzati da esigenze di carattere socio-ambientale, prima che religioso. Facile quindi ipotizzare che nel Gargano della prima età moderna, attraversato da pastori transumanti e da pellegrini, urgesse il bisogno di contare su una protezione soprannaturale per uomini e animali: l’evangelista Matteo, grazie alla reliquia odontica a lui attribuita e per il fatto che il suo dies festus è celebrato il 21 settembre – nel periodo in cui inizia la transumanza invernale –, si trovava a servire alla bisogna, quantunque altrove la sua figura fosse diversamente qualificata sul piano cultuale. L’intimo, vitale e trasformativo rapporto fra santi e devozione popolare ha fatto il resto.
Laura Carnevale è professoressa associata di Storia del Cristianesimo e delle Chiese all’Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari.
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