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Ernesto Che Guevara. Tra croce, falce e martello

Ernesto Che Guevara. Tra croce, falce e martello

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 38 del 05/11/2022

Una breve analisi di alcuni pensieri di Ernesto Guevara, assassinato il 9 ottobre 1967 a La Higuera (Bolivia), alla luce della dottrina cristiana, chiarirà i punti di incontro tra la vita del "Che" e la religione.

Pace e lotta armata nella dottrina cristiana

Il "Che" desiderava che tutti i popoli vivessero in libertà e per raggiungere questo obiettivo suggeriva che c'erano due modi. Da un lato, la strada elettorale, che considerava la meno efficace poiché capiva che, quando le forze rivoluzionarie democraticamente elette avessero voluto attuare profonde trasformazioni sociali, sarebbero state rovesciate dall'esercito, che è il braccio armato dell'oligarchia. E, dall'altro lato, la rivoluzione armata, che egli vedeva come una strada quasi inevitabile su cui sarebbero confluiti milioni di uomini e donne che, sotto l'imperialismo, vivevano in una spaventosa situazione di sfruttamento.

Dunque, la gestazione di una nuova società che avrebbe portato alle masse schiavizzate e sottomesse la speranza di una vita di libertà sarebbe stata pacifica o dolorosa a seconda della resistenza o meno delle forze reazionarie ad abbandonare i loro privilegi e a lasciar nascere un nuovo mondo.

Indubbiamente per il cristianesimo, come ha espresso Paolo VI nella sua Enciclica Populorum Progressio, le rivoluzioni «in genere generano nuove ingiustizie, introducono nuovi squilibri ed eccitano gli uomini a nuove rovine». Tuttavia, la stessa Lettera menziona che le «insurrezioni rivoluzionarie» possono essere contemplate solo nel caso che «esista una tirannia evidente e prolungata che viola gravemente i diritti fondamentali della persona e danneggia pericolosamente il bene comune della popolazione».

Ancora, Paolo VI, nel Messaggio per la Giornata della Pace del 1° gennaio 1968, affermava senza mezzi termini che «è auspicabile che l'esaltazione dell'ideale della pace non incoraggi la viltà di coloro che hanno paura di dare la vita al servizio del proprio Paese e dei propri fratelli quando sono impegnati nella difesa della giustizia e della libertà».

Come si vede, sia dal punto di vista politico che religioso, si tratta di una questione complessa da affrontare, soprattutto in continenti come l'America Latina dove, storicamente, la povertà e l'indigenza della maggior parte della popolazione e l'avidità delle classi dirigenti generano tensioni sociali quotidiane che cospirano contro la vita e la pace dei popoli.

La socializzazione della ricchezza secondo il cristianesimo

Secondo Guevara, «i popoli sottosviluppati», che egli paragonava a «nani con teste enormi e toraci gonfi, le cui gambe deboli e le braccia corte non si armonizzano con il resto dell'anatomia», erano «colonie dipendenti dall'imperialismo con economie distorte basate sulla produzione di materie prime, sulla monocoltura, sulla disoccupazione e sui bassi salari».

Per porre rimedio a questa situazione di iniquità e fame, il "Che" sosteneva che «i popoli sottosviluppati» non dovevano cadere nella tentazione di costruire società assistenziali o regimi utopici basati sulla bontà dell'uomo, ma che «dovevano urgentemente socializzare i beni esistenti, distribuire equamente tutte le ricchezze della società e creare un tipo di produzione sociale in cui i frutti del lavoro umano andassero a beneficio dell'intera comunità e non solo di pochi».

In linea con questa visione, il Concilio Vaticano II ha affermato che «al di là delle diverse forme di proprietà esistenti, proprie di ciascun popolo, non bisogna mai perdere di vista la destinazione universale dei beni esistenti nell'intera comunità».

È stato anche Paolo VI che, nell'enciclica Populorum Progressio, ha affermato che «non c'è alcun motivo valido per cui una persona possa riservare a suo uso esclusivo ciò che supera i propri bisogni, quando il resto dell'umanità manca di ciò che è necessario per vivere dignitosamente». E in relazione a questo tema, nel 1956 l'episcopato argentino ha anche affermato che «tra il diritto alla proprietà privata e il diritto alla vita, quest'ultimo è più fondamentale e, pertanto, deve avere la precedenza in caso di conflitto tra i due diritti».

La sovranità nazionale dal punto di vista cristiano

Per tutta la sua vita il "Che" ha sempre sperato che, in un futuro non troppo lontano, «i Paesi colonizzati potessero godere di un'autentica sovranità che permettesse loro di creare liberamente una politica estera indipendente dalle interferenze delle potenze internazionali». Questa preoccupazione non è estranea nemmeno al cristianesimo, poiché per esso, come ha affermato Pio XI nella sua enciclica Quadragesimo Anno, «la maggior parte delle relazioni tra le nazioni è purtroppo dominata dall'internazionalismo economico, cioè dall'imperialismo del capitale, per il quale la patria è ovunque ci sia profitto».

Su questo tema si è parlato fin dal Concilio Vaticano II, dove si è affermato che «il genere umano nel suo complesso ha l'obbligo pressante di creare un nuovo ordine politico, economico e culturale in cui le nazioni sottosviluppate possano partecipare pienamente ai beni della civiltà moderna, sia sul piano politico che nell’ordine economico, e abbiano la possibilità di interagire e commerciare liberamente con chi decidano di farlo».

Breve conclusione

Quanto sviluppato nei paragrafi precedenti non intende assolutamente proporre la "santificazione" di Guevara, né assimilare sic et simpliciter il suo pensiero alla dottrina cristiana.

Questa breve analisi cerca di dimostrare, sulla base della documentazione religiosa esistente, che alcuni pensieri del "Che" hanno punti di contatto con il cristianesimo, poiché in entrambi – ora con concordanze, ora con discrepanze – si può intravedere l'anelito dei popoli oppressi a vivere in libertà, giustizia e pace.

Forse, per continuare a riflettere su questa questione, vale la pena ricordare che ognuno di noi può criticare la Chiesa da un punto di vista storico, essendo contrario al suo operato in un determinato momento, ma, al contrario, può condividere la sua dottrina, poiché nella sua essenza si trova l'anelito a costruire un mondo più giusto e unito.

E, senza dubbio, a questa costruzione sono chiamati tutti gli uomini e le donne che, a torto o a ragione, perché siamo tutti umani e nessuno è degno di scagliare la prima pietra, lavorano in questa direzione.

Daniel E. Benadava è psicologo e catechista argentino, insegnante e riferimento pedagogico nei quartieri disagiati, scrive su testate latinoamericane ed europee.

*Foto presa da Flickr, immagine originale e licenza

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