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Iran, le proteste costringono il regime al dialogo con i moderati

Iran, le proteste costringono il regime al dialogo con i moderati

Tratto da: Adista Notizie n° 43 del 17/12/2022

41318 ROMA-ADISTA. Alla vigilia dei tre giorni di protesta nazionale iraniana, conclusisi mercoledì 7 dicembre, il segretario generale del Consiglio Supremo Nazionale per la Sicurezza, Ali Shamkhani, ha incontrato numerosi leader del riformismo islamico iraniano. Non si tratta più di nomi altisonanti, come quello dell’ex presidente Mohammad Khatami, ma fa impressione leggere l’elenco di quanti di loro sono stati ricevuti “a palazzo” dopo essere stati messi da tantissimi anni ai margini del sistema, esclusi e molto spesso arrestati. Tra di loro hanno particolare rilevanza Behzad Nabavi, Gholam Hossein Karbaschi, Hossein Marashi, Abbas Abdi e Masoumeh Ebtekar. Se si considera che fonti iraniane nel darne conto sostengono che si tratti di incontri che si inquadrano in una più vasta consultazione con studenti, artisti e altre figure di spicco del panorama politico e culturale iraniano, si può avere la conferma che il regime stia tentando di coinvolgere gli esclusi, anche con la persecuzione, per cercare un nuovo bandolo che aiuti a trovare una via d’uscita dalla terribile crisi che sta vivendo.

Si potrebbe parlare del “senno di poi”, visto che non sono più i riformisti a guidare la protesta, ma gruppi che rifiutano la Repubblica Islamica come tale e in quanto tale. Tuttavia, quanto ha scritto uno dei riformisti convocati alla sede del Consiglio Supremo Nazionale per la Sicurezza, Azaar Mansoori, sul sito ilna.ir, colpisce per tre dei punti di quanto ha voluto e potuto esplicitare circa i temi affrontati con le autorità del regime: liberalizzare l’uso di internet e sciogliere la polizia religiosa, consentire alle donne di determinare autonomamente il loro stile di abbigliamento, visto che si tratta di un aspetto che riguarda la loro identità e persona, cambiare il sistema politico ed elettorale, evidentemente consentendo la partecipazione di forze politiche organizzate.

Il regime non è un blocco unico

Che la Repubblica Islamica dovesse essere una Repubblica democratica e plurali sta non è una novità, era il programma dei riformatori dell’islam, che in realtà miravano a un islam finalmente riformato, sin dall’inizio della rivoluzione, da quando cioè Mehdi Bazargan divenne il primo ministro ad interim, nel 1979. Ma il governo Bazargan durò pochi mesi perché il suo progetto politico era incompatibile con quelli di Khomeini e tale rimane oggi con gli orientamenti del regime, indisponibile ad andare contro i propri interessi e il proprio potere. È infatti un errore ritenere “il regime” un blocco unico: da vent’anni a questa parte l’ufficio della guida della rivoluzione è diventato una camera di compensazione tra gruppi e cordate tanto oscurantisti quanto confliggenti tra loro. Questo è il prodotto della seconda fase della storia del regime iraniano, quella che ha fatto della corruzione la prima emergenza per la sicurezza nazionale secondo molti studi che risalgono addirittura all’inizio dell’epoca Rouhani. Ecco perché ora si può parlare di questi ultimi giorni di protesta nazionale come dell’inizio di una nuova rivoluzione iraniana.

Nasce il coordinamento

È l’inizio non perché da settembre non sia cominciato un processo rivoluzionario, ma perché questi ultimi tre giorni di protesta nazionale sono stati il frutto della prima iniziativa promossa congiuntamente da gruppi clandestini coordinatisi nel dark web iraniano. Gruppi che hanno diversi orientamenti e visioni, ma anche diversi referenti sociali: i giovani, le donne, i commercianti e la borghesia, i ceti più umili e poveri, che per anni sono stati la vera base del regime che tra il 1980 e la fine del secolo scorso ne ha migliorato le condizioni di vita con un impressionante processo di urbanizzazione. Tutto questo ormai è un capitale sociale dissipato per l’ondata di corruzione e malgoverno, che ha visto nella catastrofica gestione del Covid il momento della rottura sociale.

Il coordinamento che ha promosso la protesta nazionale è un risultato di enorme importanza anche perché ha politicamente sconfitto il tentativo di disarticolare la protesta, operato in particolare dai pasdaran. I quali, colpendo con inusitata ferocia alcune minoranza etniche, in particolare i curdi e i beluchi, speravano di portarli ad agire da forze “separatiste” e presentarli come nemici dell’Iran, dell’unità nazionale. Tutto questo però non è accaduto, le parole d’ordine sono rimaste iraniane, come i simboli: il coordinamento ha sancito questa sconfitta del disegno dei pasdaran.

Le donne contro la teocrazia

Ecco perché convince la scelta della rivista Time di designare le donne iraniane come “le eroine dell’anno”. Non ci sono solo loro, ovviamente, sulla barricata dell’eroismo iraniano, basti pensare ai mercanti di Teheran e di molte altre città che hanno aderito alla serrata e si sono ritrovati la scritta “sotto osservazione” sulle loro saracinesche. O gli operai che hanno osato scioperare. Ma le donne sono il simbolo e il soggetto di un’usurpazione della personalità che caratterizza la teocrazia. Definito “simbolo religioso”, il velo non lo è: mai viene imposto dai testi sacri, ma solo consigliato. Dunque non vi è nulla di simbolico, ma è diventato un’imposizione per imporre non un simbolo di fede, ma di “vita casta”. Lo hanno affermato gli stessi ayatollah. Il velo è obbligatorio perché la castità è un obbligo rivoluzionario e le donne evidentemente non devono indurre in tentazione, ma votarsi al non esistere come persone con una propria fisionomia, un proprio volto. Cancellate dalla sessuofobia e da un assoluto anti-personalismo che ha più volte visto Khamenei allinearsi alle invettive anti-occidentali del patriarca russo Kirill, le donne devono testimoniare che lo Stato è etico e impone il bene.

Lo dice lo stesso slogan della teocrazia: “a morte Israele, a morte l’America, velo!” Sono i tre principi che possono essere traditi solo nel retrobottega della corruzione del sistema. Ma mai in piazza! Ecco perché nelle ore della prima impiccagione per aver partecipato alle proteste di piazza di queste settimane, eseguendo la sentenza contro il 23enne Mohsen Shekari, si può temere che abbia colto nel segno l’economista Farshad Momeni, che pur fingendo di riferirsi alla politica economica, ha avvertito il regime che ricorrere a una shock-terapy potrebbe aprire le porte alla catastrofe nazionale. Per evitarla non c’è tanto l'ipotesi di un compromesso sul velo, quanto l’emergere di una leadership plurale, intergenerazionale e interetnica e interclassista per dare una prospettiva politica alla nuova rivoluzione iraniana.

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