
Ratzinger e il suo nemico
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 1 del 14/01/2023
Ci aspettano settimane di celebrazioni di Benedetto XVI che in molti casi non oseranno addentrarsi con occhio critico sul senso e sull'esito della sua presenza prima a capo della Congregazione per la Dottrina della Fede e poi al vertice della Chiesa. Si dovrebbe invece evitare ogni enfasi celebrativa e valutare lucidamente e serenamente il suo pensiero teologico e le conseguenze prodotte dentro la Chiesa cattolica e nei rapporti fra Chiesa e mondo contemporaneo.
Non mi interessa qui intervenire su certi suoi silenzi sui delitti di pedofilia (non solo “peccati”, perdonabili in confessionale ma non nei tribunali) di cui fu a conoscenza già da vescovo di Monaco di Baviera (silenzi clericalmente giustificati col dovere di sopire gli scandali per non ferire le anime dei credenti più fragili). Neanche voglio pronunciarmi sui motivi autentici delle sue dimissioni, che non pochi hanno interpretato come una resa a fosche faide e inconfessabili segreti interni alla Curia vaticana, al punto che il suo segretario particolare, p. Georg Gänswein, nell’intervista rilasciata a Ezio Mauro il 2 gennaio, non ha temuto di affermare che «in Vaticano il diavolo ha agito contro Benedetto XVI». In che modo, con quali volti, a quali fini, Satana in persona abbia tramato contro il papa tedesco, altri cercheranno di sapere meglio e di più, scoprendo ciò che il segretario di Ratzinger ha celato dietro la metafora del diavolo. A me interessa tentare di cogliere il nucleo portante del suo pensiero teologico e dottrinale, che mi pare essere consistito in una strenua, indefessa, ossessiva lotta contro quello che riteneva il suo maggior nemico, l’avvelenatore della società contemporanea: il relativismo, pericolosamente disseminato dalla cultura filosofica moderna dall’inizio del XIX secolo.
In che cosa consiste questo metodo di pensiero che Ratzinger considerò come il diabolico nemico con cui non poteva venire a patti? Lo sappiamo tutti. È quell’orizzonte culturale che invita a considerare come insuperabili e ineliminabili i limiti della conoscenza umana e dei linguaggi umani in cui essa si esprime. Le affermazioni che si presentano in questo contesto non hanno pertanto alcuna pretesa di definitiva assolutezza e non temono di essere definite "relative", parziali, fallibili, e dunque perfettibili.
Contro questo relativismo (culturale, scientifico, religioso e perciò anche etico) Ratzinger rivendicò l'urgenza di una Verità assoluta espressa in parole definitive. Essa non poteva consistere per lui in altro che nell'Annuncio cristiano declinato secondo l’insegnamento del magistero ecclesiastico ed espresso perciò con concetti e parole conformi alla dottrina ratificata dalla Congregazione della Fede con il sigillo della suprema autorità papale. Lo chiarì lo stesso Benedetto XVI nel fa moso discorso di Ratisbona (12/9/2006) che molti oggi citano per l’incauto passaggio, del quale più tardi si scusò, in cui citando l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo bollò di cattiveria Maometto condannando l’islam come religione «malvagia e disumana, diretta a diffondere la fede con la spada».
Pochi ricordano invece il passaggio decisivo in cui descrisse come provvidenziale per la storia del cristianesimo l’incontro fra il Vangelo e la filosofia greca. La Verità “assoluta” da contrapporre al relativismo moderno era dunque quella annunciata dai Vangeli e codificata come dottrina dalla teologia cristiana dei primi secoli (fra III e V) secondo i paradigmi della filosofia greca. La “provvidenziale” filosofia benedetta da Ratzinger non veniva a coincidere con l’intera vicenda del pensiero greco, ma specificamente con il neoplatonismo della cultura ellenistica dominante in quei primi secoli dell’espansione cristiana, perché già in epoca classica – basta citare Protagora, V secolo a.C. – la relatività e parzialità della conoscenza umana aveva trovato i suoi sostenitori. Quella fu l'epoca in cui la dottrina cristiana diventava religione di Stato tutelata e imposta dall'imperatore. Non è un mistero che la prima definizione del Credo fu redatta a Nicea nel 325 dal Concilio dei vescovi convocati e presieduti da Costantino, insofferente dei disordini che le diverse dottrine cristiane diffuse nell’impero continuavano a provocare da troppi anni. Fu dunque per motivi di ordine pubblico che il Concilio redasse il simbolo, cioè la sintesi delle verità di fede, che il trono impose in tutto l’impero: “cattolico” in quel contesto significò semplicemente “obbligatorio dappertutto”. E fu la netta prevalenza numerica dei vescovi d’Oriente a far approvare un testo sul quale filosofia e lingua greca impressero il loro indelebile sigillo.
Il papa appena defunto che molti oggi ricordano per la sua mitezza fu, in realtà, il teologo portatore di un pensiero rigido e inossidabile, intransigente nel rivendicare per la Chiesa il possesso, per grazia divina, di TUTTA la verità e indisponibile perciò a riconoscere che anche le parole di quelle formule dottrinali, espresse in un certo tempo e dentro gli schemi filosofici allora dominanti, erano – a loro modo – necessariamente “relative”, parziali, adatte ai loro tempi e luoghi ma forse non in tutto e per tutto vincolanti per i millenni successivi. Il ferreo e inossidabile pensiero di Ratzinger condannò ogni altro tentativo di raccontare il Vangelo con paradigmi culturali diversi da quelli della filosofia greca, imponendo come vincolanti dottrine e formule teologiche che probabilmente gli stessi apostoli, ebrei del I secolo, avrebbero faticato a comprendere. Il concetto di “anima”, ad esempio, totalmente estraneo alla cultura ebraica, fu coniato da Platone nel IV secolo a.C. scindendo l’uomo nelle due componenti (corpo mortale e anima immortale) ed entrò nella predicazione cristiana sotto l’influsso della cultura ellenistica; ma anche nei vangeli (redatti in greco mezzo secolo e più dopo la croce di Gesù) quando si usa la parola psychési intende semplicemente “la vita” dell’uomo nella sua interezza («Chi vuol salvare la sua vita»... ecc.).
Benedetto XVI non si è limitato a benedire le nozze fra Vangelo e filosofia greca: la sua cristologia riafferma che il “vero Cristo” è solo quello della Tradizione ecclesiastica, cioè quello insegnato dal Magistero, unico depositario dell’interpretazione autentica di Gesù. Ma noi sappiamo che la Tradizione giunta a noi dall'antichità è quella delle Chiese che, sostenute dagli imperatori, sbaragliarono, dichiarandole eretiche, tutte le altre che celebravano il crocefisso risorto in modo anche solo leggermente diverso.
In questo modo Ratzinger ha fatto passare in secondo piano, se non eclissato, il “Gesù storico” sul quale moltissimi studiosi cercano di fare luce, tenendo nel debito conto i testi evangelici, ma anche contestualizzandone la vicenda, con l’ausilio delle tante discipline che concorrono a formare le “scienze bibliche”. Nel suo testamento Ratzinger raccomanda il confronto con la scienza della fede, illuminata dalla retta ragione. Ma con quale scienza? Solo la fisica, la biologia, la cibernetica? L’archeologia, l’analisi dei testi, l’antropologia religiosa, la psicologia, la storia politica ed economica non sono considertate indispensabili per far luce sulla prima vicenda cristiana, per comprendere che cosa “allora” significassero le parole dei Vangeli, quali trasformazioni subì il primo modello comunitario cristiano nella società greco-romana; in coerenza con il proprio sistema teologico Ratzinger guardò sempre alle scienze (anche a quelle storiche) come discipline ancillari della fede e della dottrina impartita dal ministero, senza lasciar loro lo spazio di una totale autonomia.
Una posizione inscalfibile, la sua, che lo ispirò da prefetto della Cdf e più tardi da papa: da quelle posizioni gli fu facile giustificarla attribuendola alla grazia divina, anzi allo stesso Spirito Santo. Non è da stupirsi, perciò, se un papa integralista e tutto d’un pezzo come Wojtyla scelse proprio lui per guidare l’ex Santo Uffizio. Eppure era sembrato, all'inizio della carriera del teologo Ratzinger, negli anni '60, che fosse interessato all'esplorazione di orizzonti ben diversi da quelli in cui presto si rinchiuse, spaventato dal dilagare nel ‘68 delle rivolte giovanili, del pensiero neomarxista, della rivoluzione sessuale e dei costumi. Nella facoltà di Tubinga lavorò, in quegli anni incandescenti, accanto a un gigante del pensiero teologico "aperto" come Hans Küng: le loro strade presto si divaricarono, portando Ratzinger a Roma e Küng a scontare una marginalizzazione, da parte dei vertici ecclesiastici, sempre più dura, ma anche a ricevere il consenso di folle sempre più ampie di credenti e laici in ricerca.
A Wojtyla, convinto di dover ripristinare in Europa e in Occidente la “cristianità”, un modello di società esplicitamente ispirato alla dottrina e ai valori cristiani, Ratzinger offrì l’armamentario raffinato della sua riflessione teologica e il papa polacco seppe trarne alimento per la sua azione politica e per un ferreo controllo dell’istituzione ecclesiastica. Wojtyla prima e Ratzinger poi non potevano dunque che mettere fuori discussione ogni eventuale revisione della dottrina su sacerdozio, celibato dei preti, esclusione della donna dalla presidenza dell'Eucarestia. La loro è rimasta una Chiesa che riconosce e attribuisce solo al prete maschio la gestione del "potere sacro" e crede di accontentare le donne promuovendole a ruoli sempre subalterni a quelli del clero maschile. Dunque, obbedienza assoluta dentro l'istituzione a costo di radiare dai seminari, espellere dalle comunità, sospendere teologi, laici e preti in dissenso da questa visione "assolutista" e autosufficiente della Chiesa cattolica depositaria dell'unica Verità, dottrina cristiana, morale e bioetica di valore indiscutibilmente universale. Possiamo pensare che senza l'approvazione di Wojtyla, confortato dal suo teologo Ratzinger, l’allora presidente della Cei card. Ruini non avrebbe sponsorizzato Berlusconi, interessato a rastrellare i voti dei cattolici ossequienti e pronto a farsi paladino dei valori “non negoziabili” della Chiesa romana: senza il placet vaticano il Cavaliere non avrebbe potuto sdoganare né la Lega xenofoba di Bossi né i neofascisti eredi di Almirante, e forse la storia italiana sarebbe andata per un'altra strada.
E forse avrebbe percorso un altro itinerario anche la storia europea, che vide la furia anticomunista del papa polacco accelerare vertiginosamente il crollo dell'URSS, che forse, con un percorso più lento e meno turbolento, non ci avrebbe regalato la tremenda esplosione dei nazionalismi deflagrati nei Balcani e nel Caucaso, fino al risorgente imperialismo di Putin a sua volta riconvertito dal comunismo ateo all’altare e fattosi paladino della religione cristiana contro l’Occidente inquinato e pervertito dai gay (Ratzinger aveva già in precedenza comparato le nozze gay all'Anticristo).
Ad alimentare la determinazione del papa polacco ad accelerare la Storia provocando il domino che, dalla sua Polonia, coinvolse tutti i Paesi del patto di Varsavia, fu la memoria della sua esperienza sotto l’opprimente regime comunista, ma anche quella teologia anti-relativista elaborata dal mitissimo Ratzinger: l’impetuoso Wojtyla interpretò come sua missione il dovere storico di ripristinare la "cristianità" (concetto medievale già archiviato dal pensiero laico e pluralista moderno) come ritorno alla Verità cristiana e come destino storico dell'Europa.
Da papa, angosciato di perdere, per così dire, la “destra reazionaria e anticonciliare” della Chiesa, Ratzinger riabilitò quattro vescovi lefebvriani (uno dei quali negatore della Shoà): per intenderci, sono quelli della messa solo in latino che rifiutano le aperture al mondo contemporaneo del Concilio Vaticano II suggerite dai teologi tedeschi Kung e Rahner e dalla scuola teologica francese di Congar, Chenu, Danielou. Se il tedesco Ratzinger fu così ferreo nell’imporre l’immutabilità della dottrina e dell’etica cattolici e romani sono oggi, paradossalmente, proprio l’episcopato e la Chiesa della sua Germania a fremere sotto regole e vincoli che ritengono anacronistici e a rivendicare la legittimità evangelica di strade e regole nuove.
Questa, a mio avviso, è la discutibile eredità teologica di Benedetto XVI: un’idea “assolutista” della dottrina cristiana, baluardo contro il nefasto “relativismo” moderno e la difesa a oltranza di una Chiesa rigidamente verticale, in cui un corpo separato, il clero maschile, gestisce il monopolio del potere sacro. E a chi rimproverasse la franchezza di queste riflessioni rispondo con don Mazzolari: “Anch’io voglio bene al papa”, ma a modo mio e senza rinunciare al dovere della sincerità. A proposito... Fino a quando la Chiesa avrà ancora bisogno di una Congregazione per "la" (cioè l'unica, obbligatoria) Dottrina della Fede, erede dell'Inquisizione?
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