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Mons. Libanori: Rupnik non si è mai preso le sue responsabilità

Mons. Libanori: Rupnik non si è mai preso le sue responsabilità

Tratto da: Adista Notizie n° 7 del 25/02/2023

41378 ROMA-ADISTA. «Quando si commettono atti del genere, si tiene un profilo basso. Ma lui non ha mai avuto una parola da dire loro, non si è mai assunto la responsabilità. Da parte mia, sono convinto che la questione sia psichiatrica». È dirompente questa affermazione sul gesuita Marko Ivan Rupnik, abusatore seriale, da parte di mons. Daniele Libanori, vescovo ausiliare di Roma, commissario straordinario della Comunità Loyola in Slovenia, dove il teologo artista ha perpetrato a partire dagli anni ‘90 abusi psicologici, spirituali e sessuali su diverse consacrate. Mons. Libanori (anch’egli gesuita) ha rilasciato al quotidiano cattolico francese La Croix (16/2) una lunga intervista, nel corso della quale afferma, dunque, che l’abusatore non si sarebbe mai pentito. È un’informazione importante, perché di fatto contraddirebbe quanto emerso finora, in relazione all’annullamento (proprio in seguito a un presunto pentimento) della scomunica latae sententiae (cioè automatica) comminata al religioso sloveno dal Dicastero per la Dottrina della Fede (DDF) nel 2019 per assoluzione del complice in confessione. Lo aveva affermato il generale dei gesuiti p. Arturo Sosa in un’intervista all’Associated Press il 14/12: «Come si revoca una scomunica? La persona deve riconoscerlo e deve pentirsi, cosa che ha fatto». Nulla di tutto questo nelle parole di Libanori, che addirittura invoca l’aspetto psichiatrico.

Ferite profonde

La visita apostolica, che aveva preceduto il provvedimento di commissariamento della Comunità Loyola, era stata decisa «a causa di vari disturbi riscontrati in alcune suore», ricorda mons. Libanori. «La decisione di nominare un commissario straordinario è stata presa in accordo con il cardinale vicario di Roma dopo una visita canonica che quest'ultimo aveva disposto per la comunità», spiega mons. Libanori. A prima vista, il problema della comunità era «un grave conflitto generazionale che richiedeva una riforma delle costituzioni dell'istituto». Ma lentamente è emersa la verità: nei colloqui individuali con le 45 suore, sono progressivamente emersi riferimenti ad abusi. Era questo il motivo del conflitto: «Alcune avevano lasciato l'istituto, altre soffrivano ancora, non avendo mai potuto contare su un aiuto professionale per superare il trauma». Due i problemi intrecciati: «la divisione interna della comunità e il dramma che molte sorelle vivevano da tempo». L’emergere dei fatti ha sbloccato la situazione: «Le vittime hanno potuto affrontare la realtà e capire che non erano state seduttrici, ma vittime»; hanno acconsentito (non si sa in quante) a fornire una testimonianza scritta, poi consegnata alla commissione d’inchiesta affidata al procuratore generale dei domenicani: tutte storie sovrapponibili, identiche.

Sul perché queste storie siano emerse a decenni dai fatti, il vescovo ausiliare di Roma spiega che «nessuno può far tacere il sangue di Abele» che «grida e, per farlo tacere, è necessario un giudizio. Le vittime, anche a distanza di più di trent'anni – un tempo che equivale a una condanna all'ergastolo – hanno il diritto di sentire dalle autorità una parola definitiva che metta a tacere il dubbio sulla loro colpevolezza e restituisca loro dignità proclamando ciò che è vero, cioè che sono state vittime». Vittime che hanno subìto «uno stato di dipendenza psicologica» che le pone in uno stato di vulnerabilità»: «Le persone con cui ho parlato avevano lo sguardo fisso nel vuoto. E so che quando una persona mi racconta qualcosa che comporta un investimento emotivo o drammatico ma ne parla come se nulla fosse, senza piangere, significa che la ferita è molto profonda».

Perché non rinunciare alla prescrizione?

«Ho ragione di credere che le persone che hanno testimoniato siano state ritenute credibili. Se la loro testimonianza non è stata seguita da una sentenza, è perché è intervenuta la prescrizione», continua Libanori. E questo è un problema: perché non rinunciare alla prescrizione, come accade in presenza di fatti gravi? «È ovvio che devono essere state fatte delle valutazioni. Ma non ho informazioni al riguardo», svicola il vescovo. Che non si sbilancia nemmeno sul pregresso delle decisioni prese tanto dalla Compagnia di Gesù quanto dal Vaticano: «Non si tratta di un'assoluzione, ma di una rinuncia al diritto di formulare una condanna formale. Inoltre, come abbiamo appreso dal comunicato della Compagnia di Gesù, sono state imposte delle restrizioni all'esercizio del ministero di padre Rupnik. Chi le ha decise pensava che queste misure sarebbero state sufficienti a risolvere il problema»; sulle conclusioni della CdF «non ho informazioni».

Sulla possibilità che Rupnik prosegua il suo lavoro artistico, Libanori è molto equilibrista. «Se ci sono persone che gli commissionano opere, perché non dovrebbe continuare a lavorare? D'altra parte, riconoscere le responsabilità di una persona non dà il diritto di ridurre agli atti che ha compiuto il mistero e la ricchezza che essa apporta».

Quale futuro attende Rupnik ora? «Padre Rupnik è un religioso gesuita e un sacerdote. È quindi soggetto alla legge interna della Compagnia di Gesù e al Codice di Diritto Canonico. Inoltre, se le persone che hanno presentato le loro denunce vogliono rivolgersi ai tribunali civili, possono farlo in piena libertà», premette mons. Libanori. Che aggiunge però: «La questione, a mio avviso, non può essere ridotta a una sentenza. Senza nulla togliere alle responsabilità individuali, credo sia opportuno collocare questo caso in un quadro più ampio per cogliere altre responsabilità rimaste in ombra: in particolare, la responsabilità oggettiva della mancata vigilanza dei superiori di p. Rupnik, di chi lo ha formato e di chi avrebbe dovuto vigilare sui suoi metodi e sulle sue proposte pastorali». «Le donne che, con grande difficoltà, hanno reso la loro testimonianza, non hanno mai ricevuto un cenno dalle autorità competenti, ma con grande sorpresa e scandalo – e soprattutto sentendosi ferite nel profondo – nonostante ciò che avevano rivelato, hanno continuato a vedere p. Rupnik tenere conferenze spirituali nei media. Erano indignate». Resta il fatto che le lievi punizioni comminategli «corrispondono a ciò che si può fare a livello amministrativo, a causa della prescrizione». Papa Francesco ha detto sulla prescrizione, in un’intervista ad AP (25/1): «Se c'è una minorenne, la tolgo sempre, o con un adulto vulnerabile». Il solito retropensiero sulle sopravvissute adulte, su cui pesa il sospetto di essere consenzienti? Non si vuole cogliere l’abuso di potere generato dal carattere asimmetrico della relazione, all’origine di un dominio psicologico che impedisce qualsiasi rapporto paritario?

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